C’è un principio in astronomia e filosofia della scienza che si chiama principio di mediocrità: afferma che non c’è nulla di speciale nella Terra e nell’umanità: quello che avviene su questo pianeta potrebbe essere già accaduto o accadere su migliaia di altri pianeti. Forse tutti potrebbero provare ad applicare questo principio a se stessi, tornando a pensarsi come gocce nel mare, che contano nella loro unicità di individui, sì, ma da pari rispetto agli altri, e che possono fare grandi cose se collaborano, più che se si stagliano dalla massa come eccezioni da ammirare. Nel mio piccolo, anche io ho passato trent’anni a cercare di dimostrarmi all’altezza della bambina dotata e creativa che dicevano che fossi, a cercare di ottenere il lavoro dei sogni per sentire di valere qualcosa e a volermi vedere bella negli occhi degli altri; in definitiva: a voler essere speciale, e in cambio ho avuto solo frustrazione e insicurezza.
Qualcosa di simile si verifica su larga scala, dove non a caso da qualche tempo si sta affacciando, timidamente, un rifiuto verso tutto questo. Si vede, ad esempio, nella moda, dove alcuni anni fa si è delineata una tendenza, ribattezzata normcore, basata su un abbigliamento poco vistoso e apparentemente non studiato, composto da jeans, leggins o pantaloni della tuta, maglioni oversize, felpe e t-shirt monocrome, sneaker o ciabatte comode. Sostanzialmente, il casual di chi negli anni ’90 e Zero che non apparteneva a nessuna corrente e non seguiva le mode. Se è vero che oggi, tra catene di fast fashion e social media, tutti gli stili si sono ibridati e globalizzati e non esiste più niente che non sia frutto di un minimo di studio e abbinamento, è pur vero che per certi versi quella tendenza “anti-tendenza” era, almeno all’inizio, espressione di un desiderio: quello di rivendicare una normalità che fino ad allora ci era stata presentata come una vera e propria nemesi. Distinguersi, essere speciali, primeggiare, farsi notare a ogni costo: questi erano gli imperativi. La normalità esteriore, così come la mediocrità, era uno dei peggiori insulti.
Tendenze come queste non possono essere liquidate come futilità, dato il doppio legame che lega le mode alla società stessa: le tendenze di stile sono da un lato strumenti e dall’altro espressioni della costruzione dell’identità personale e sociale. Attraverso accessori e capi d’abbigliamento, atteggiamenti e gergo esprimiamo una visione del mondo, ci costruiamo un’identità e ci poniamo in armonia o in conflitto con la società. In questo senso, il normcore e le sue variazioni hanno espresso un disagio e un rifiuto rispetto alle istanze dominanti nel mondo dell’estetica, della comunicazione e del lavoro, a partire dall’obbligo a eccellere e primeggiare, a sentirsi (e mostrarsi) speciali. Il normcore, infatti, – come il giornalista Vito De Biasi scriveva nel 2014, quando questa corrente stava emergendo – è espressione di “una riconquistata rilassatezza del vestire in un mondo che consuma in maniera insostenibile, un rifiuto del potere attraverso la costruzione di un’immagine dimessa, che non deve e non vuole dimostrare nulla, né conquistare alcunché”. L’autore sottolinea che la generazione che più corrisponde a questo stile – strumento che racconta efficacemente tuttora il nostro tempo ed esprime, in realtà, un atteggiamento più ampio nei confronti della vita – è quella dei millennial, nati in famiglie che hanno riversato su di loro le aspettative di sogni e status che magari in prima persona non hanno raggiunto, prestandosi a foraggiare i loro studi convinti che una laurea avrebbe garantito la vita dei sogni e il riconoscimento sociale. E che, in modo più o meno implicito, hanno tramandato loro l’idea che nella vita bisogna emergere e fare in modo che gli altri se ne accorgano.
Ma, cresciuti credendo di poter fare tutto e di poter diventare chiunque, i millennial si sono poi scontrati con la crisi economica del 2008, con i suoi strascichi mai davvero archiviati, quella politica mai finita, ostacoli sulla strada del successo, e d’altra parte la crisi ambientale sempre più grave che chiama a una sfida completamente diversa: accantonare l’individualismo e l’antropocentrismo. Ci siamo scontrati con la realtà di non poter affatto fare tutto, né diventare chiunque volessimo. Eppure, abbiamo continuato a sentire il peso di quelle aspirazioni che, più che sogni, somigliano spesso a doveri. Ma non bisogna essere per forza speciali e non è obbligatorio vincere sempre.
Anzi, la spinta a emergere a tutti i costi sopra agli altri porta, paradossalmente, a essere tutti uguali: è l’effetto delle mode e, soprattutto, è un fenomeno velocizzato e amplificato dai social, dove una tendenza di make-up, un taglio di capelli o un modello di scarpe, nati per essere diversi, unici e speciali finiscono per diffondersi a macchia d’olio in tutto il mondo, diventando mainstream nel giro di qualche settimana. Passati di moda da decenni, pescati nel fondo armadio della mamma o rispolverati in un mercatino dell’usato, diventano popolari, arrivando a essere riproposti dalle catene di fast fashion. Paradossalmente, proprio come il normcore ha finito per diventare una moda, da rifiuto di aderire alle tendenze che era.
La mediocrità, però, è solitamente deprecata: si parla, per esempio, della vittoria della “mediocrazia”, in opposizione alla meritocrazia. Ma questa prospettiva è un po’ ipocrita: pochi infatti possono davvero dirsi immuni alla mediocrità, perché è per certi versi una naturale tendenza umana – per il filosofo canadese Alain Deneault è una “rivoluzione anestetizzante” – quella di adattarsi e adagiarsi in mezzo alla massa rassicurante degli altri e allora cercare a tutti i costi di distinguersi agli occhi altrui inseguendo un’immagine sociale di unicità ed eccellenza per finire, comunque, uguale a tutti, è una fatica inutile. Inseguire obiettivi che non si hanno gli strumenti (cioè, spesso, il privilegio socio-economico) per raggiungere provoca una frustrazione che ci accomuna, scatenando un rancore sociale verso l’altro, specialmente se bollato come “diverso” e questo, paradossalmente, ci spinge ancora di più a cercare di elevarci verso quella che crediamo essere una posizione migliore.
Gli antichi esaltavano la medietà oggi tanto vituperata. I greci raccomandavano la moderazione come principio guida dell’esistenza: il poeta Pindaro (V-IV secolo a.C.), per esempio, scriveva: “Non aspirare, anima, ad una vita immortale, ma esercita l’opera che ti è concessa”. Per Orazio, poeta latino del I secolo a.C., la mediocritas era aurea, cioè dorata, perché indicava la giusta via di mezzo, lontana dagli eccessi. Per gli antichi questi non erano inviti ad accontentarsi, ma ad abbracciare la modestia e la consapevolezza dei propri limiti. Nell’epoca dell’antropocentrismo predatorio senza limiti e del burnout, i nostri limiti dovremmo però ricordarceli un po’ più spesso. Invece, questa connotazione positiva della mediocrità l’abbiamo persa da tempo, spinti da tre forze: la retorica aziendalista della competizione per la quale bisogna vincere sugli altri per non sparire; la considerazione dell’essere umano come specie superiore agli altri animali e alla natura, su cui si erge; e infine la concezione dell’altro come antagonista nella giungla dell’homo homini lupus più che come compagno di viaggio.
Forse è il momento di dare al concetto di mediocrità una nuova sfumatura, che non la dipinga come qualcosa di spregevole, cominciando invece a rivendicarla come il valore rivoluzionario di scoprirsi simili, senza per forza inseguire un’idea di successo che non condividiamo. La mediocrità non è solo quella degli incompetenti che raggiungono posizioni di potere grazie alla loro quieta omologazione che non vuole dare fastidio a nessuno, che non mette in discussione lo status quo – sono loro gli indifferenti di cui parlava Gramsci – ma può essere anche quella di chi decide consapevolmente di sottrarsi alla corsa performativa a primeggiare sul lavoro, a raggiungere posizioni di vertice, costi quel che costi, a essere i più belli e i più alla moda finendo per essere solo consumatori individualisti divorati dalla fomo. In questo senso la mediocrità può essere una presa di posizione: la volontà di non corrispondere alle aspettative della società e alla sua definizione di successo.
Smettere di rifuggire a tutti i costi la mediocrità – il non spiccare per straordinarie doti lavorative, fisiche o intellettive – e vedere tutto come una prestazione in cui dobbiamo mostrarci migliori degli altri – i pari con cui ci sentiamo costantemente in competizione, ossessionati dal terrore di essere, invece, proprio come loro – e provare ad accettare di non essere necessariamente speciali, rinunciando a questa gara, può essere liberatorio. È questo che oggi dovremmo insegnare a bambini e ragazzi, anziché continuare a incoraggiare la competizione ed esaltare il presunto merito, dietro a cui spesso si celano privilegi che solo una piccola fetta di popolazione detiene. Si potrebbe accettare che l’altro non sia per forza un avversario ma un alleato e capire che essere uguali e pari non è necessariamente un problema, ma può essere un valore e una forza. Si smetterebbe allora anche di premiare gli individualisti, quelli che calpesterebbero anche il proprio fratello pur di arrivare per primi e dimostrare di essere speciali. Scopriremmo, forse, che la felicità non sta nel primeggiare per forza, perché nessuno ci restituisce il tempo che abbiamo perso rincorrendo obiettivi magari non nostri e risultati solo perché la società se li aspetta da noi, senza peraltro mai raggiungere una meta, perché è il miraggio di un’oasi nel deserto.