Istituire vagoni per sole donne è inaccettabile. La violenza non si combatte con la segregazione. - THE VISION

Per quattro anni ho fatto la pendolare su una linea di treni regionali Trenord. Questa esperienza, difficile e stancante, è stata un tassello fondamentale nella mia presa di consapevolezza femminista. Durante quel periodo ho infatti aperto gli occhi su cosa significhi essere una donna che viaggia da sola e che si espone ogni giorno a una enorme quantità di sguardi e corpi altrui. Per questo la notizia di due violenze sessuali consumate nel giro di pochi minuti ai danni di due giovani donne diverse sulla tratta Milano-Varese mi ha scossa, ma purtroppo non stupita. Non so contare quante volte mi sia sentita in pericolo su quei treni o nel buio delle stazioni, oltre che impotente di fronte all’indifferenza altrui, autorità comprese.

A qualche giorno di distanza da questa notizia terribile, si discute della possibilità di istituire delle carrozze riservate alle sole donne. L’iniziativa è stata proposta da una petizione su Change.org che ha raggiunto oltre 1300 firme in poche ore e una vasta eco sui giornali. Anche se mossa da buone intenzioni, si tratta di una proposta inaccettabile e che manca completamente il punto di come si combatte la violenza di genere. È vero che la vicinanza di altre donne rende una carrozza un posto più sicuro. Anche io quando prendevo il treno tutti i giorni cercavo di sedermi vicino ad altre donne: la loro sola presenza mi rassicurava e mi faceva sentire più protetta. Ma queste sono pratiche di autotutela che le donne mettono in atto proprio perché vivono in una società che non le fa sentire al sicuro: guardarsi le spalle, pensare di continuo alla propria sicurezza, cercare uno sguardo rassicurante sono il prodotto di una società sessista, non uno strumento per combatterla.

In effetti, carrozze simili esistono già in diversi Paesi. Il problema, come ricostruisce un articolo del Guardian, è che si tratta di Paesi in cui le donne sono fortemente discriminate in tutti gli ambiti della vita: mezzi riservati esistono laddove le donne non possono frequentare gli stessi spazi pubblici degli uomini, come in Iran o negli Emirati Arabi Uniti, o in Paesi in cui i tassi di violenza sulle donne sono molto elevati, come in Brasile o in India. L’esempio più famoso è il Giappone, dove ogni compagnia ferroviaria dispone di queste linee speciali e la legge prevede multe per gli uomini che vi si introducono. Proprio perché esistono da così tanti anni, è possibile valutare la loro effettiva efficacia. Più di un terzo delle pendolari giapponesi non ha mai usato i treni per sole donne, il 46,5% li usa “qualche volta”, il 13,2% “spesso” e solo il 3.8% “sempre”. A un anno dall’implementazione delle linee nel 2004, le denunce per atti osceni erano diminuite del 3%, ma quelle di violenza erano addirittura aumentate tra il 10 e il 20% in due tratte servite con carrozze riservate.

Ma al di là dell’efficacia nella prevenzione, è l’istituzione stessa delle linee a essere problematica. Innanzitutto, segregare le donne su treni speciali manda il messaggio che le violenze nei loro confronti siano qualcosa di inevitabile e a cui non c’è soluzione. Le istituzioni accettano l’idea che per le donne sia normale incorrere continuamente nel pericolo di essere molestate o stuprate, senza fare nulla in merito che non sia allontanarle dalla minaccia. In più, si tratta di un provvedimento che ancora una volta carica le donne stesse della responsabilità di evitare la violenza. Anche nel caso delle violenze sui regionali Milano-Varese si è assistita alla solita colpevolizzazione della vittima: “cosa ci facevano da sole in treno?”, “ma non lo sanno che viaggiare a quell’ora è pericoloso?”, “potevano fare questo e quello per proteggersi”, e così via. Posto che il victim blaming è sempre sbagliato e che nessuna donna è responsabile di un’eventuale violenza subita, a maggior ragione prendere un mezzo pubblico è un’azione che fa parte della quotidianità di milioni di persone, oltre a essere una necessità. Secondo questa logica, le donne allora dovrebbero privarsi della possibilità di lavorare o studiare fuori casa perché qualcuno potrebbe violentarle.

Purtroppo, i tanti casi di stupro e molestia ci insegnano che non c’è un modo per evitare la violenza. Che si sia vestite con sciarpa e cappotto su un treno o che si sia ubriache e in minigonna a una festa, la probabilità di subire una violenza (e un processo mediatico alle intenzioni) è la stessa. O meglio, un modo per evitarla c’è e sarebbe quello di non commetterla. Ma quello non è responsabilità delle donne, ma degli uomini. Ed è proprio su questo punto che le istituzioni continuano a fallire, perpetrando misure antiviolenza sbilanciate sulla punizione anziché sulla prevenzione, che si limitano ad agire quando ormai il fatto è stato commesso. Lo stesso impegno che si prodiga nell’insegnare alle donne come devono comportarsi, vestirsi o dove devono andare per non essere molestate si potrebbe investire nell’educazione di genere, sessuale e affettiva che insegni il rispetto del consenso e della volontà altrui. Al contrario, la proposta di istituire carrozze per sole donne è offensiva anche per gli uomini, considerati incapaci di contenere i propri istinti di fronte a una donna sola. Una società equa si costruisce insieme, non con le donne chiuse in un recinto.

La sicurezza sui mezzi pubblici è un problema serio e urgente, che non si risolve con la separazione tra uomini e donne, ma con interventi strutturali che cominciano dalla formazione del personale e arrivano alla sensibilizzazione con campagne mirate. Esistono numerose iniziative finalizzate alla costruzione partecipata di spazi sicuri, come Hollaback!, che propone tra le altre cose corsi su come aiutare una persona quando si assiste a una violenza in uno spazio pubblico. Al di là del problema dei mezzi, sappiamo inoltre che la violenza di genere si esprime soprattutto in quello che dovrebbe essere lo spazio sicuro per eccellenza: la casa. Non esistono quindi luoghi che possiedono di per sé la garanzia di essere sicuri per le donne, perché la violenza non la commettono le circostanze, ma le persone.

Anche se in Giappone le carrozze per le sole donne esistono da quasi vent’anni, non hanno fatto nulla per risolvere le profonde disuguaglianze tra uomini e donne presenti nel Paese, che è al 120esimo posto su 156 per quanto riguarda la parità di genere. Sono strumenti che non educano, non prevengono e, stando ai dati disponibili sul numero di violenze commesse sui treni, nemmeno servono al loro scopo. Non si inseriscono in un sistema che riconosce la pervasività della violenza, che va combattuta contemporaneamente su più fronti, ma si limitano a mettere una toppa. Misure simili rischiano di trasformarsi in una forma di pinkwashing: istituita qualche carrozza per le donne, magari dipinta pure di rosa, il problema della sicurezza verrebbe archiviato come risolto, anche se non è così. Nel frattempo, continueranno a essere ignorate tutte le altre situazioni in cui le donne si sentono in pericolo: e una volta scese dal treno? E in un sottopassaggio della stazione? E alla fermata dell’autobus o della metropolitana? Si potrebbe andare avanti all’infinito.

Le donne non sono una specie in pericolo o una categoria da proteggere. Sono metà della popolazione, e chiedono semplicemente di vivere la propria vita come l’altra metà. Io non voglio vivere in un Paese che mi metta a disposizione spazi segregati per sentirmi più al sicuro. Voglio vivere in un Paese in cui sentirmi libera di andare ovunque desidero e di occupare tutto lo spazio che voglio, con chi voglio, senza sentirmi costantemente minacciata dalla violenza.

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