Dobbiamo aspettarci una seconda ondata di COVID-19. Su questo ci sono pochi dubbi: Andrea Ammon, direttrice dell’European Centre for Disease Prevention and Control ha infatti dichiarato di recente che “La domanda è semmai quando e quanto grande sarà”. Con un tasso di immunità che oscilla nei vari Paesi europei tra il 2 e il 14%, gran parte di noi è ancora a rischio contagio. Finché il vaccino contro il Coronavirus non sarà in commercio – e cioè fino al primo semestre del 2021, secondo Ranieri Guerra dell’Oms – non possiamo quindi permetterci di esporci alle conseguenze sanitarie ed economiche di nuove misure di lockdown. Eppure c’è chi preme per ripartire, come se non fosse accaduto nulla negli ultimi tre mesi.
Secondo Jason Kindrachuk, docente e ricercatore di Microbiologia medica e Malattie Infettive dell’Università canadese di Manitoba, è difficile stabilire quando la vita quotidiana potrà tornare alla normalità fino a quando non sarà in commercio un vaccino e l’immunità che questo permette non sarà diffusa ad ampie fasce della popolazione. Uno studio pubblicato ad aprile su The Lancet mostra che allentare le restrizioni innesca un aumento esponenziale dei contagi che si può combattere solo adottando le stesse misure che, a intermittenza, negli Stati Uniti potrebbero essere necessarie fino al 2022. Anthony Fauci, membro di rilievo della task force della Casa Bianca contro il Coronavirus, sottolinea che le conseguenze di una riapertura affrettata delle attività negli Stati Uniti saranno serie e che nuove ondate non solo causerebbero “sofferenze e morti evitabili, ma ci riporterebbe indietro nel nostro tentativo di tornare alla normalità”. Senza un vaccino si può riaprire, con cautela, solo seguendo le indicazioni dell’Oms: monitorando gli infetti, dotandosi di adeguate infrastrutture sanitarie, individuando, tracciando e isolando i nuovi casi e mettendo in quarantena tutti i loro contatti.
Senza vaccino, senza app di tracciamento, senza l’azzeramento dei contagi, abbiamo aperto troppo presto e in modo azzardato e la fase 2 è diventata quasi un “via libera” indiscriminato, senza grosse differenze di tempistiche tra le regioni: diverse non hanno nuovi contagi, mentre la Lombardia – che non vedrà quel risultato prima di metà agosto – al 24 maggio conta 285 nuovi positivi al virus, su un totale nazionale di 531, mentre è giallo sui decessi. Ma nell’opinione pubblica si sta diffondendo la percezione che l’epidemia sia finita: la fine percepita della pandemia è arrivata prima del suo termine clinico e i cittadini – e quindi i governi che ne subiscono le pressioni – stanno tornando poco per volta alla vita normale. Per la professoressa di storia della medicina dell’Università di Yale Naomi Rogers “potrebbe arrivare un momento in cui le persone diranno ‘ora basta, merito di tornare alla mia vita normale’”. In questo modo si impara a convivere con la malattia, ma ci si espone anche a grandi rischi: se è pericoloso il perdurare del panico riguardo a malattie ormai sconfitte, le conseguenze dell’attuale atteggiamento ci presenteranno il conto con gravi conseguenze a lungo termine per la sanità e per l’economia. La probabilità che i cittadini, dopo oltre due mesi costretti in casa, si riversassero nelle strade al primo segnale di apertura era alta: se l’impazienza è comprensibile, i media dovrebbero però evitare di fomentarla, salvo poi scaricare la responsabilità dei nuovi contagi sulla “movida”. Un discorso simile vale per le aziende che dovrebbero unirsi agli sforzi per uscire una volta per tutte dall’epidemia, evitando la retorica della ripartenza con cui hanno intasato gli spot pubblicitari di questi ultimi giorni.
Ma le industrie penalizzate dal lockdown scalpitano. Quella automobilistica è in prima fila per far tornare i cittadini in auto e potrebbe essere favorita dalla paura di molti di prendere i mezzi pubblici perché possibili veicoli di contagio. Così i produttori di auto sfruttano la metafora della ripartenza, con un marketing tanto emozionale quanto patriottico di comodo. Il gruppo FCA, che già a marzo con l’hashtag #noicisiamo prometteva che “Il nostro viaggio ricomincia da qui”, a maggio ha lanciato il suo spot Fiat e il motto “Il vero motore dell’Italia sono gli italiani”. Toyota si affida invece all’hashtag #ripartiamoinsieme e invita il consumatore a “riprendersi la sua strada”, ovviamente in auto; BMW punta invece sul testimonial Alex Zanardi e sul concetto di ritrovata libertà, del quale l’automobile sembra un tassello irrinunciabile. Libertà che è diventato uno dei concetti più abusati di queste settimane e sul quale fa leva anche Parmacotto, mentre Poltronesofà sottolinea che “è ancora dura per tutti, ma la passione non si può fermare”. L’impazienza e la libertà perduta sono sobillati di continuo da un marketing che spinge perché si torni in modo rapido a una nuova normalità.
Se le pressioni dell’industria alimentano la voglia di riaprire le attività economiche, con il rischio di subordinare ancora una volta la sicurezza dei cittadini agli interessi economici, i giornali italiani sono diventati la gran cassa di risonanza del mondo dell’imprenditoria. Dai media nazionali – con il Corriere della Sera che alla vigilia dello scoppio dell’epidemia in Italia metteva in luce le voci di chi chiedeva meno allarmismo da parte del governo – ai giornali locali, i titoli esprimono ostilità alle misure di contenimento del contagio e fomentano l’insofferenza verso le restrizioni, percepite come ormai prive di senso.
Ma non possiamo permettere che il desiderio di ripartenza economica ci faccia perdere di vista i rischi sul lungo periodo: le stesse grandi aziende subirebbero un’ulteriore frenata in caso di secondo picco di contagi e tante attività più piccole non riuscirebbero a superarla. Il crollo della domanda interna e le limitazioni produttive legate al distanziamento sociale in diversi comparti aggraverebbero la recessione, mentre, per effetto degli interventi statali urgenti (dai bonus a sostegno di famiglie e autonomi alla cassa integrazione, ai sussidi di disoccupazione), il deficit – che già si prevede aumenterà del 10% nel 2021 – si impennerebbe. Nel primo trimestre del 2020 il Pil ha già registrato un calo del 4,7% rispetto al trimestre precedente, ma, secondo i dati del Mef riportati dal Sole 24 Ore, un nuovo lockdown in autunno lo abbatterebbe di un ulteriore 2,8% su base annua. Nel corso del 2020 si potrebbe arrivare all’11% secondo Goldman Sachs, che prevede per l’Italia un tasso di disoccupazione del 17%, senza tenere conto di una probabile seconda ondata di contagi.
Dal crollo dei consumi legato al diminuito potere di acquisto dei cittadini al blocco della produzione dei comparti non essenziali, passando per la crisi del turismo – che con oltre 84 milioni di visitatori nel 2019 rappresentava il 13% del nostro Pil e ora è quasi azzerato – un secondo lockdown affosserebbe del tutto le attività già allo stremo dopo tre mesi di chiusura. Se nel primo trimestre del 2020 le imprese artigiane in Italia sono diminuite di quasi 11mila unità, è anche probabile che molte di quelle che hanno riaperto non resistano fino alla fine dell’anno. Non possiamo quindi permetterci di fermare di nuovo in blocco l’economia per un nuovo aumento dei contagi a causa della filosofia della “riapertura senza vincoli”. Inoltre, non possiamo nemmeno tenere chiuse le scuole per un altro anno, con conseguenze tanto sul benessere psicofisico di bambini e adolescenti che sulla loro formazione. Già oggi diversi sondaggi confermano che un giovane italiano su due guarda al futuro con grande preoccupazione, a causa di incertezze e prospettive dominate dalla disoccupazione e dal fallimento dei loro progetti di vita.
Non possiamo neanche dimenticare e vanificare in poche settimane gli sforzi fatti dal personale sanitario di tutto il Paese. Nonostante si stiano predisponendo postazioni di terapia intensiva aggiuntive, le conseguenze di una seconda ondata potrebbero essere disastrose anche per la sanità, riproponendo una situazione come quella già vista, ma con il rischio di colpire un’area più estesa del solo Nord Italia. Hans Kluge, direttore regionale dell’Oms in Europa, avverte che la seconda ondata potrebbe essere anche peggiore della prima per numero di decessi e sommarsi ad altre epidemie, come l’influenza stagionale e il morbillo, le cui interazioni con il COVID-19 non sono ancora del tutto chiarite, ma di sicuro renderebbe ancora più difficile la diagnosi e la cura tempestiva dei pazienti malati.
Senza aver creato un sistema di analisi della popolazione e di sorveglianza dei sintomi diffuso su tutto il territorio nazionale – come richiesto dagli esperti –, la riapertura delle attività ci espone a un grave rischio. La fase 2 ha preso la forma di un via libera indiscriminato e questa mancata gradualità ci espone al rischio di un’impennata dei nuovi contagi, con il rischio più che concreto di tornare alla fase 1. Se il sistema economico e sociale è quasi allo stremo e la pazienza dei cittadini al limite, tutti dobbiamo ricordarci che tornare alle chiusure e alle misure di isolamento più rigide avrebbe ricadute molto più gravi di quello a cui abbiamo assistito fino a oggi.