Dalla fine degli anni Novanta, soprattutto dopo aver partecipato alle missioni di peacekeeping nei Balcani, migliaia di membri dell’Esercito italiano hanno cominciato a sviluppare patologie tumorali, apparentemente per motivi inspiegabili: 366 sono morti e 7500 si sono ammalati negli ultimi due decenni, secondo i dati del centro studi Osservatorio militare. La causa presunta è l’uranio impoverito, un metallo pesante utilizzato in ambito militare per la fabbricazione di munizioni e proiettili e che può rivelarsi tossico per l’organismo umano. L’uso di proiettili e blindature all’uranio non è però vietato da nessun trattato internazionale, nonostante se ne conosca da tempo la potenziale pericolosità e in diverse occasioni le Nazioni Unite abbiano espresso preoccupazione riguardo ai rischi per militari e civili.
L’Italia ha sempre negato di aver utilizzato equipaggiamenti che lo contenessero, ma l’uranio impoverito era comunque presente nei teatri di guerra, come nei Balcani, dove operavano le forze armate italiane insieme al contingente internazionale. È noto che la Nato abbia utilizzato bombe all’uranio impoverito in Bosnia, nei raid del 1994 e del 1995, e in Kosovo nel 1999. Per spiegare la contaminazione dei nostri militari, l’ipotesipiù accreditata dall’Istituto Superiore di Sanità e dalla relazione della commissione parlamentare d’inchiesta del 2006 è che l’uranio, quando colpisce determinate superfici come le corazzature dei carri armati o dei depositi di munizioni, si polverizza fino ad assumere le dimensioni di nanoparticelle. Questi corpuscoli sarebbero in grado di mescolarsi all’acqua e all’aria dei territori colpiti dai bombardamenti con munizioni all’uranio. Nel 1999, quando cominciarono a emergere dubbi sulla pericolosità dell’utilizzo dell’uranio impoverito nei teatri di guerra, l’opinione pubblica, la politica e gli attivisti di Peacelink cominciarono a chiedere maggiore vigilanza sulle missioni all’estero e risposte sull’incolumità dei militari.
Già nel 1999 gli Stati Uniti avevano comunicato agli alleati, tra cui l’Italia, l’uso in Kosovo delle munizioni all’uranio impoverito, i rischi per la salute del personale militare e le precauzioni per evitarli. Nonostante l’avvertimento i soldati italiani hanno continuato ad ammalarsi e morire anche negli anni successivi, sia in Kosovo che durante le missioni in Iraq e Afghanistan. A partire dal 2001 il Parlamento ha interrogato i governi che si sono succeduti nel corso degli anni sull’utilizzo di munizioni all’uranio in questi teatri operativi. Nel 2004, sulla base delle dichiarazioni e delle mappe fornite dai militari britannici l’Unep (agenzia per la protezione dell’ambiente dell’Onu) denunciò l’utilizzo di bombe all’uranio impoverito nella città irachena di Bassora. Un’interrogazione parlamentare chiese conto al ministero della Difesa se le nanoparticelle potevano aver raggiunto, grazie al vento, la zona di Nassirya dove era stanziato il contingente italiano. Nel 2011 preoccupazioni simili accompagnarono l’intervento internazionale in Libia: nonostante il tema fosse oggetto di dibattito da molti anni, nulla turbò la forte autonomia e segretezza che caratterizza l’operato delle forze armate durante le missioni all’estero rispetto all’opinione pubblica e alla supervisione politica del Parlamento. A ogni interrogazione la Difesa risponde sempre di aver fatto tutto il necessario per garantire la sicurezza del suo personale. Capire le cause specifiche delle malattie dei militari e la responsabilità dello Stato maggiore nel prevenire il rischio tossico, rappresentano gli interrogativi di un importante caso politico, umano e giudiziario che va avanti da almeno vent’anni.
Le recenti analisi dell’Osservatorio militare hanno confermato la presenza di uranio 238 nel corpo di Luigi Sorrentino, caporalmaggiore scelto morto suicida il 23 ottobre scorso dopo aver prestato servizio in Kosovo e Afghanistan ed essersi ammalato di leucemia. Il medico legale Rita Celli, già consulente per la Commissione di inchiesta della diciassettesima legislatura, ha dichiarato durante un recente incontro sul tema presso l’Associazione Stampa Romana moderato dal giornalista Paolo Di Giannantonio: “C’era uranio 238 nel midollo osseo di quel militare e in quantità molto significativa, il doppio di un soggetto normale”.
Il 21 maggio scorso la ministra della Difesa Elisabetta Trenta ha detto che “A breve ci sarà una legge per tutelare i diritti dei militari che hanno dato la loro disponibilità per il loro Paese. Non sarà più il militare a dover dimostrare che si sia ammalato al servizio del Paese, ma sarà la Difesa a dover dimostrare che la malattia non sia collegata al servizio reso”. In pratica il ministro vuole invertire l’onere della prova. Trenta ha criticato anche il “silenzio spaventoso dei vertici”, poco prima di essere attaccata, in occasione della Festa della Repubblica del 2 giugno, dalle gerarchie militari e dai suoi stessi collaboratori che le hanno contestato sia il tema scelto per la parata, l’inclusione, sia i tagli alle pensioni.
Stabilire il rapporto di causa effetto tra contaminazione e malattia è molto importante. Solo in questo modo si può intentare una causa per ottenere il risarcimento civile e l’elargizione di indennizzi, oltre a chiedere un trattamento previdenziale congruo per essersi ammalati durante il servizio prestato e lo status di vittime del dovere. Secondo l’avvocato Tartaglia, legale dell’Osservatorio militare che da anni segue la vicenda e assiste i veterani, per ora sono 130 i procedimenti che sul piano giuridico hanno accertato il nesso di causalità tra esposizione all’uranio e malattie. Oggi l’insieme delle patologie dei reduci, la cosiddetta “Sindrome dei Balcani”, è più facile da diagnosticare grazie allo sviluppo della scienza che si occupa di evidenziare le microparticelle di metalli pesanti presenti nel corpo umano, la nanotossicologia.
Negli anni Novanta i militari italiani impegnati nelle missioni all’estero non potevano proteggersi dalla contaminazione sia per la mancanza di adeguate conoscenze scientifiche al riguardo che per l’assenza di informazione da parte dei superiori sui rischi di operare in contesti caratterizzati da inquinamento bellico. La maggior parte di loro non aveva gli strumenti protettivi adeguati e non conosceva i protocolli da seguire per non entrare in contatto con materiali e alimenti tossici. Gli stessi militari, durante diverse audizioni pubbliche, hanno descritto una situazione dove i colleghi statunitensi erano dotati di strumenti protettivi rinforzati mentre il loro equipaggiamento era giudicato non idoneo. Inoltre, spiega Tartaglia, nessuno si poneva il problema di bere l’acqua del posto o usarla per preparare il pane.
Secondo quanto ricostruito dalla Commissione parlamentare di inchiesta sugli effetti dell’utilizzo dell’uranio impoverito presieduta da Gian Piero Scanu (Pd), la linea della Difesa è sempre stata quella di affermare che i militari fossero a conoscenza dei rischi ambientali e di aver vigilato con estrema attenzione sulla loro sicurezza. Questa posizione è stata smentita da una lunga serie di inefficienze che riguardano per esempio il rapporto ambiguo, perché non affidato a terzi, tra controllore e controllato, ossia tra l’amministrazione della Difesa e il Centro Interforze Studi per le Applicazioni Militari (Cisam), consultato per svolgere gli accertamenti. Spesso i professionisti chiamati ad analizzare le criticità e i rischi per i militari, che in teoria avrebbero dovuto essere figure super partes, erano dipendenti dello stesso ministero della Difesa.
Gli ex militari raccontano di non aver ricevuto strumenti protettivi o avvertenze particolari, di allontanamenti repentini dopo la malattia, di verbali ufficiali dell’amministrazione ministeriale che comunicavano il loro decesso recapitati alle famiglie a causa di errori e disorganizzazione, e di scuse, assistenza e supporto emotivo mai arrivati. Molti si sono trovati nella condizione di essere considerati troppo malati per lavorare, ma non abbastanza per chiedere risarcimenti speciali. La ricostruzione frutto del lavoro dell’ultima Commissione di inchiesta chiusa nel 2018 è particolarmente dura nel denunciare l’omertà dei vertici, l’indifferenza delle autorità competenti e il senso di impunità dell’amministrazione della Difesa. La somma di questi fattori è stata in grado di “produrre un senso di ingiustizia e di solitudine negli ammalati”.
Le critiche e le accuse di questo tipo, almeno fino alla scorsa legislatura, sono state respinte in blocco dallo Stato maggiore della Difesa che le ha definite “inaccettabili o qualificate come tentativi di criminalizzare un’istituzione”. Che il Parlamento non possa chiedere chiarimenti sull’operato del Governo senza per questo farsi etichettare come sovversivo è un sintomo significativo di come si debba ancora raggiungere un reale equilibrio tra i diversi poteri della Repubblica su questa vicenda controversa. Nel frattempo un diverso atteggiamento mostrato nei confronti dell’opinione pubblica, della politica e della magistratura si fa lentamente strada. Se i reduci aspettano ancora le scuse che comunque non potranno mai essere un risarcimento sufficiente per la loro condizione, le battaglie delle associazioni delle vittime hanno però reso più evidente l’esigenza di un cambio culturale significativo nel modo in cui il mondo civile e la politica che lo rappresenta si rapporta con le forze armate.
A oggi, come ha concluso la Commissione Scanu, “Non c’è proporzione tra la dedizione mostrata dai militari nell’esercizio del proprio lavoro e la riluttanza istituzionale a corrispondere indennizzi o a migliorare lo stato della sicurezza sul lavoro”. Una proposta di legge prodotta dal lavoro della commissione si propone di riformare il modo in cui l’apparato militare vigila sulla sicurezza e sulla salute dei militari. Il trattamento riservato alle vittime dell’uranio è solo uno degli esempi per cui la società civile italiana non può più accettare l’assenza di trasparenza che regna nelle sue forze armate. Perché cercare e volere la verità non significa essere anti-istituzionali, ma credere nello Stato e nel suo senso di giustizia.