Da quando dichiararsi femministi è diventato una moda, sempre più uomini affermano di esserlo, alcuni arrischiandosi persino a elargire alle donne elaborati consigli su come praticare un femminismo felice, come Slavoj Žižek su Internazionale (n. 1232) quando decide chi è e cosa fa una “femminista intelligente” o Franco LaCecla che, su Doppiozero, descrive Rebecca Solnit come una pudica esaltata. Questa tendenza, pericolosa e particolarmente diffusa, ricorda una celebre citazione del Gattopardo: “Vogliamo che le cose cambino in modo da rimanere esattamente le stesse” e opera per mascherare i rapporti di potere delle nostra società, dove il genere è ancora un fattore determinante per le disuguaglianze e non un connotato identitario. Se Amazon si pronunciasse a favore della dittatura del proletariato, probabilmente grideremmo a una colossale mistificazione, se non a una straordinaria stupidaggine. “Io sono profondamente femminista,” controbattono spesso gli uomini per zittire eventuali critiche e mettere a tacere accuse prima ancora che ne possa essere verificata la veridicità. “Donne non si nasce, si diventa,” scriveva Simone De Beauvoir, ma per un uomo è effettivamente possibile diventare femminista? Se rivendicare il femminismo come un’azione identitaria e parzialmente escludente, almeno per quanto riguarda gli uomini cisgender ed eterosessuali, sembra denotare da parte di alcune donne il bisogno di un’area protetta, forse ha senso riflettere sulle cause che l’hanno resa necessaria.
Il punto di vista di chi subisce una forma strutturale di ingiustizia non è certo per questo intrinsecamente esente da obiezioni, ma è probabilmente quello meglio posizionato per criticarla, perché ne vive sulla propria pelle le modalità di funzionamento, i danni e perfino le obiezioni o le negazioni della stessa. Purtroppo, parlare di femminismo comporta spesso il rischio di trasformare un dibattito serio ed estremamente complesso in una caricaturale battaglia dei sessi, dove ci si colpisce con luoghi comuni e frasi tonificanti come “gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere.” Il punto non è tanto chi abbia il diritto di prendere parola: se tutte e tutti devono avere la possibilità di pronunciarsi, in determinati contesti non tutte le opinioni possono avere lo stesso peso, e uno di questi contesti è la violenza insita in maniera strutturale nella società etero-patriarcale. Strutture sociali basate sullo sfruttamento non possono evitare di generare gruppi con interessi contrapposti, indipendentemente dal fatto che i dominanti credano o non credano nell’uguaglianza. Se nello Stato di diritto, i diritti non devono essere concessi ma riconosciuti, lo stesso vale per il potere.
Che i rapporti di potere fra uomini e donne siano rimasti in maniera schiacciante e manifesta a favore della parte maschile è evidente proprio se si analizza come gli uomini cerchino di appropriandosi di una sfera di rivalsa e riappropriazione femminile, schiacciando ed esercitando una forma di mansplaining. Ne è un esempio la risposta al #MeToo di molti intellettuali, scrittori e accademici, come Franco LaCecla nel già citato articolo apparso su Doppiozero, che, con un tono di affettata superiorità intellettuale, insegna come dovremmo o non dovremmo reagire al desiderio maschile e rivendica il diritto di parlare e di imporsi con un “Non avrei il diritto di parlare ma.” È evidente la radice educativa del problema: cresciamo circondate (e circondati) da un’atmosfera ottenebrante di squilibri di potere tra donne e uomini, arrivando al punto in cui non ci limitiamo ad accettarli passivamente, ma addirittura li rivestiamo di un’aura romantica, desiderabile. Veniamo educate a rispondere educatamente, a non imporci e accettare il parere di tutti, anche quando non è assolutamente accettabile.
Con la scusa del perseguimento della parità, le teorie femministe vengono semplificate e ridotte a un’educazione che nega il conflitto e il cambiamento radicale a favore di una didattica gentile e del pinkwashing. Credere che uomini e donne debbano avere pari diritti e pari retribuzione salariale è come credere che bianchi e neri debbano avere pari diritti e pari retribuzione salariale: è condizione necessaria e non sufficiente a renderti un essere umano decente. Un femminismo radicale non dovrebbe limitarsi a individuare le palesi contraddizioni di una società che incita le donne ad essere sensuali a tutti i costi, continuando a proporre modelli di bellezza inarrivabili, ma decostruire la possibilità di imporre, anche in maniera viscida e intrisa di soft power, un qualsiasi modello di comportamento. In un sistema creato ad hoc per istituire e conservare la sudditanza di un genere sull’altro, il già estremamente fragile sistema di contropotere non può permettersi di attribuire lo stesso identico peso a entrambe le parti.
Descrivere la sopraffazione maschile snaturata dal suo contesto, raccontare storie isolate di “mele marce” e procedere con la retorica del maschio buono e femminista vs il machista cattivo e insensibile, non risolve il problema sistemico del maschilismo e non scalfisce la natura patriarcale della società. Un esempio è la narrazione del lavoro di cura: gli uomini che accettano una distribuzione vagamente più equa delle fatiche domestiche vengono celebrati come esempi e oggetti di desiderio per le donne, in un sempiterno “Vorrei un marito come te,”o, peggio ancora, con un: “La tua ragazza è davvero fortunata!”La mentalità patriarcale è un meccanismo complesso, da cui nemmeno le donne sono immuni e che non può essere combattuta con un pensiero schematico e semplificante. Il problema non sono gli uomini che, in buona fede, si professano femministi, ma gli uomini – e ovviamente le donne – che lo fanno per celare il perseguimento dei loro interessi e la conservazione dello status quo.
Valerie Solanas nello SCUM Manifesto (Society for Cutting Up Men), spiega bene il contrasto che esiste fra chi persegue il cambiamento e chi invece vuole che le relazioni di potere non mutino, pur proclamando il contrario. Il sistema politico economico capitalista basa il suo funzionamento su relazioni di potere piramidali, al cui vertice, da qualche tempo, hanno accesso anche le donne. Quando si tratta di allargare le maglie della distribuzione del potere, il genere conta poco: le donne privilegiate si comportano come la loro controparte maschile e sono raramente disposte a estendere il loro privilegio, soprattutto ad altre donne. Affinché il potere rimanga nelle mani di pochi, le donne in cima alla scala sociale finiscono per riconoscere alla controparte maschile il diritto di ribattere e di confrontarsi con loro prima ancora di riconoscerlo alle altre donne.
Uscire dal sistema patriarcale significa anche rinunciare ai vantaggi che elargisce, come denaro e quote di potere abbastanza gratificanti da fornirci giustificazioni sufficienti per non adottare una scelta di vita radicale. Gli uomini che parlano di femminismo sono il risultato del compromesso ideologico fra le istanze del mercato e la moda dei diritti civili. La narrativa mainstream dei diritti delle donne e della parità di genere è come la mania ambientalista a sforzo 0 di qualche anno fa, quando il riciclaggio e la raccolta differenziata erano abbastanza trendy da essere spesso addirittura argomento d’esame: un modo politicamente corretto di pulirsi la coscienza con un minimo sforzo verbale. Le femministe scomode, come la Solanas, vengono messe da parte e sostituite dall’affermazione alla volemose bene dell’attrice Emma Watson: “Dovremmo essere tutti femministi, probabilmente lo sei anche tu ma non te ne rendi conto.” Il conflitto negato e affogato in una patina rosa pastello di parole cortesi vede così negarsi il vero campo di battaglia: quello delle relazioni economiche. Gli uomini femministi non hanno problemi a riconoscere alle donne i loro diritti. A patto che facciano parte della stessa estrazione sociale.