Gli studenti universitari conoscono bene la massima “Il professore è buono, l’assistente è stronzo.” Una regola che, quando ci si accinge a dare un esame, spesso si rivela corretta. Nella maggior parte dei casi, l’assistente ti guarda accigliato mentre cerca con puntiglio di scovare le lacune nella tua preparazione. Al contrario, il professore è solitamente frettoloso: bastano due domande per permettergli di scarabocchiare sul libretto il voto finale. Per anni mi sono chiesto il motivo di questa dicotomia, perché gli assistenti sembrassero sempre stressati, indaffarati a correre nei corridoi del dipartimento, mentre i professori si rilassavano nei loro uffici stipati di libri. Poi, una volta finito il percorso universitario con il massimo dei voti, ho provato a partecipare al concorso di dottorato, e allora sono entrato in contatto con la grande beffa dell’università italiana.
Provare ad accedere a un corso di dottorato è una pratica stressante: bisogna confrontarsi con molte variabili che spesso non dipendono dal proprio livello di preparazione. Innanzitutto, pur essendo un concorso pubblico, in molti atenei è necessario prima prendere contatto con i professori, trovarne uno di riferimento, cercare di entrare nelle sue grazie e presentargli il progetto. È una regola non scritta, ma di fatto è il passo più importante per avere qualche chance in sede d’esame. Di solito, il progetto che si presenta alla commissione ha specifiche molto precise: numero di battute ristretto, bibliografia minima, riassunti brevi e difficilmente esaustivi. Non è possibile che una commissione possa rilevare realmente la preparazione di uno studente da un documento così stringato. Per questo subentrano altri fattori: l’orientamento dell’università, gli interessi dei professori, le lettere di presentazione. Senza l’aiuto – che funge da raccomandazione implicita o esplicita – di un professore, è davvero difficile accedere a molti dottorati. Il confronto con il docente è già di per sé il primo passo di un rapporto di vassallaggio: spesso il proprio referente dà indicazioni precise, intima di cambiare il progetto in maniera coatta, indirizza lo studente verso ambiti a cui non é interessato, o che stravolgono il senso della ricerca. In questo modo, il candidato finirà per presentare in commissione una bozza rivista, più in linea con gli interessi del professore che con i suoi, in cui la capacità critica si è trasformata in quella di accodarsi a un linea di studio già concordata.
Il secondo ostacolo è la burocrazia: ogni ateneo chiede documenti diversi, come diverse sono le modalità di consegna. Inoltre, è pratica comune far pagare una tassa aggiuntiva per l’iscrizione. Quando si decide di voler entrare a un dottorato bisogna mettersi l’anima in pace: per aumentare il numero di possibilità è necessario provare in più di un ateneo. Questo comporta pomeriggi interi spesi al computer, a cercare di orientarsi nei siti delle diverse università, oppure ore passate al telefono a battibeccare con segreterie supponenti, nella speranza di capirci qualcosa della burocrazia universitaria. E poi bisogna avere la valigia sempre pronta, perché le università comunicano data, luogo e ora della prova d’esame, o l’ammissione alla stessa, solo pochi giorni prima dello svolgimento. Se la prova d’esame è strutturata in uno scritto e un orale, allora l’attesa è doppia, perché quest’ultimo può avvenire a settimane di distanza dal primo, così come dopo settimane viene comunicato l’esito della prova.
È abbastanza comico pensare a ragazzi che spendono mesi interi in giro per l’Italia, col solo scopo di sostenere esami, parlare con professori, vedere il proprio nome sempre basso nelle graduatorie, ingoiare la delusione e ripartire verso una nuova destinazione. Eppure è così: spesso – da Palermo a Udine – si incontrano le stesse facce, si leggono gli stessi nomi nelle classifiche, lo studente talentuoso annaspa alla ricerca di un luogo in cui fare ricerca, e viene continuamente rimbalzato. A ogni concorso si trova di fronte cinquanta, cento, persino centocinquanta pretendenti: nella maggior parte dei casi vincerà chi è il protetto del barone in commissione, chi è abbastanza fortunato da imbattersi in una domanda sull’argomento su cui ha scritto la tesi. Ovviamente, non è sempre così, ma anche solo il fatto che simili pratiche esistano, e siano diffuse, mette limiti alla ricerca.
Alla fine però c’è qualcuno che entra, qualcuno che ce la fa e può finalmente intraprendere la sacrosanta ricerca. Ma il dottorando capisce presto che l’ambito in cui sta impegnando così tante energie è solo il primo gradino di una vita di precariato. Secondo il rapporto Ocse del 2018, l’Italia spende in istruzione e ricerca il 28% in meno rispetto ai Paesi del Primo Mondo: con queste premesse è difficile credere di poter avere un futuro nel contesto accademico. Nel 2017, Almalaurea ha rilevato l’indice di soddisfazione dei dottorandi e i dati non lasciano dubbi sul feedback negativo dell’esperienza: se l’8%, tornando indietro, cambierebbe scelta di vita, ben il 25% – uno su quattro – proverebbe lo stesso dottorato all’estero. I dottori pensano che le prospettive di ricerca nell’università italiana siano risicate: solo il 29% dei dottori in discipline umanistiche pensa che proverà la ricerca post-dottorato in Italia, un dato che si abbassa al 16% per le discipline scientifiche. In generale, solo il 21% prospetta la ricerca nel pubblico, a fronte di un grande interesse per il privato, soprattutto non in Italia.
Il rapporto fotografa un quadro desolante in cui dominano lo sconforto e l’immobilismo sociale: solo il 77% dei dottorati è finanziato, un dato che risulta dalla media fra dottorati scientifici (circa l’89% dei posti coperti) e dottorati umanistici (solamente il 69% dei posti coperti da borsa di studio). Eppure, dal 2014 a oggi, i posti di dottorato sono scesi di circa tremila unità: da 12.093 a 9.297. La ricerca continua a essere un ambito per chi ha la giusta disponibilità economica: se appare normale che più del 44% dei dottori abbiano almeno un genitore laureato, più preoccupante il dato che vede solo il 13% dei dottorandi provenire da famiglie di operai, dipendenti e con posizioni subalterne. Al contrario, un dottorando su tre proviene da famiglie socialmente elevate o appartenenti alla classe dirigente.
Non stupisce che i dottorandi siano sottoposti a grande stress mentale: hanno alle spalle anni di studio e fatica, vivono il presente in balia di un’istituzione che non li tutela, gli si prospetta un futuro di precariato. Secondo una ricerca belga del 2017, condotta su un campione di 3.600 dottori in tutte le discipline, un terzo di essi presentava un rischio elevato di sviluppare malattie mentali come la depressione. Più del 50% del campione presentava almeno due indicatori di disagio, il 40% ne dichiarava 3, il 30% 4. “Sintomi comuni sono il sentirsi costantemente sotto pressione, l’infelicità, la depressione, problemi del sonno dovuti alle preoccupazioni, l’incapacità di superare le difficoltà e di godersi le attività quotidiane,” scrivono i ricercatori della rivista Research Policy. Praticamente una richiesta d’aiuto.
Due anni fa, l’allora ministro del Lavoro Giuliano Poletti aveva ribadito che “La finalità del dottorato di ricerca non è fornire prestazioni lavorative, ma permettere al fruitore della borsa di studio di perfezionare la propria formazione.” Per Poletti i dottorandi e i ricercatori non sono lavoratori, quindi non hanno diritto a specifiche tutele. Se questa è la percezione attorno a chi compie il primo passo del cursus honorum accademico, non stupisce la delusione espressa dalla ricerche. Di fatto i dottorandi lavorano, sono gli aiutanti dei professori a cui sono affiliati, li seguono nelle faccende quotidiane, spesso accollandosi compiti che nemmeno competono loro: ricerche d’archivio, interventi, testi per convegni, lezioni, prove d’esame.
Il dottorando sa che gli toccherà scrivere una serie di testi o articoli in cui non figurerà il suo nome, oppure che dovrà cambiare la propria ricerca in corso d’opera, solo perché al professore non va bene. Fa tutto questo ingoiando la rabbia, nella speranza che qualcuno più in alto di lui gli prospetti una chance di carriera. Ma arriva anche per lui il turno di sfogarsi: lo fa con gli alunni che gli siedono di fronte in sede d’esame. Nei loro occhi scorge ancora l’ingenua infatuazione per lo studio che lui, invece, ha perso da anni. Per questo li tormenta con domande pignole, come ad ammonirli di non fare lo stesso errore, non credere che sia così facile studiare in Italia. I precari della ricerca in verità non sono dei poveri stronzi, è solo l’università che li tratta come tali.