Ieri sera, durante un comizio a Roma per la sua campagna elettorale permanente, Matteo Salvini ha dichiarato di aver avuto “una telefonata cordiale” con il primo ministro ungherese Viktor Orbán e ha annunciato: “Lavoreremo per cambiare le regole di questa Unione europea”. Salvini ha sempre strizzato l’occhio a Orbán, non è una novità. Ha attinto a piene mani dal sovranismo del presidente di Fidesz, vincitore di tre tornate elettorali consecutive, e ha usato in Italia gli stessi slogan che hanno decretato il plebiscito di Orbán in Ungheria: no agli immigrati, no all’Europa ladrona, no a Soros. C’è però un particolare non trascurabile: l’Ungheria è a pochi passi dall’autocrazia.
Il progetto politico di Orbán ruota attorno alla promozione della sovranità nazionale. Tutto quel che viene dall’esterno è dipinto come un pericolo per la nazione e, per evitare queste intrusioni, il leader di Fidesz si affida a un controllo totale che tocca tutte le sfere dello Stato. Quando il governo non detiene il potere necessario a raggiungere determinate zone di controllo, bastano un ritocco alla Costituzione o la conquista degli organi di informazione. Niente di difficile per Orbán, che ha capito subito il ruolo fondamentale dei media e si è appropriato di testate giornalistiche e canali televisivi che potessero assicurargli il controllo della popolazione. Nel 2010 è stato infatti inaugurato un Consiglio per i media che ha trasformato l’editoria pubblica in un mezzo di propaganda. Ma Orbán è andato oltre: ha introdotto anche una tassa sulla raccolta pubblicitaria di tv, radio, giornali e siti Internet, volta a colpire l’unico canale televisivo non al servizio del governo, Rtl Klub, di proprietà del gruppo tedesco Bertelsmann. Da quel momento i media che si sono opposti alle politiche di Orbán sono stati costretti alla chiusura, come i quotidiani Nepszabadsag e lo storico Magyar Nemzet, il settimanale Heti Valasz e la radio Lanchid. Con poche, precise mosse il primo ministro è riuscito a spegnere qualsiasi forma di protesta.
Nel 2011 e nel 2013 sono state apportate rilevanti modifiche alla Costituzione: la Corte Costituzionale è stata esautorata; sono stati vietati nelle radio e nelle televisioni private i dibattiti elettorali; è stata emanata una legge che costringe i neolaureati a rimanere in patria, vietando loro di cercare lavoro all’estero per un periodo di tempo che va dai tre ai dieci anni. A seguito dei provvedimenti di Orbán, alle coppie non sposate, senza figli o omosessuali non vengono riconosciuti gli stessi diritti delle coppie eterosessuali, né la definizione di “famiglia” – un aspetto che ricorda da vicino le ultime esternazioni del ministro Lorenzo Fontana e di certi ideali ben radicati nell’ideologia leghista. La Lega e Orbán hanno in comune la battaglia contro l’immigrazione. Già nel 2015, per bloccare l’ingresso ai migranti provenienti dai Balcani, il governo ungherese aveva installato una barriera di filo spinato lungo i confini con Serbia e Croazia. Il primo ministro ha poi imbastito le sue campagne elettorali aizzando le folle contro la minaccia islamica e contro lo straniero e alcuni giorni fa il Parlamento ungherese ha approvato una nuova legge, “Stop Soros”, che impedisce alle Ong di fornire qualsiasi tipo di aiuto ai clandestini. L’Onu ha immediatamente protestato, accusando le misure previste dalla legge di xenofobia e di violazione dei diritti di chi fugge da zone di guerra.
Orbán porta avanti da anni una vera e propria battaglia contro il filantropo americano George Soros. A Budapest sono stati chiusi gli uffici della sua Open Society, e il premier ungherese ha promesso che “La lotta contro Soros, la sua ideologia liberal, le sue iniziative sui migranti, continuerà ovunque si trovino le sedi della sua fondazione”. Se Matteo Salvini ha definito Soros uno “speculatore senza scrupoli”, Giorgia Meloni è a sua volta salita sul carro di Orbán, pronta a chiedere una legge “anti Soros” anche in Italia: “Vogliamo perseguire come illecito penale ogni forma di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, compresa quella fatta dalle Ong,” ha dichiarato. In questo scenario, sarà fondamentale il ruolo del M5S. Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente grillino del Parlamento europeo, si è schierato apertamente contro Orbán, definendo la sua recente rielezione una “vergogna europea”. Secondo Castaldo, “in troppi casi in Ungheria sono stati calpestati i diritti fondamentali dei cittadini”. C’è da chiedersi se i Cinque Stelle manterranno la linea di Castaldo o seguiranno l’impronta salviniana. Sono loro l’ago della bilancia: possono attutire gli estremismi della Lega o dare il via libera alla sfrenata deriva sovranista. Almeno su quest’aspetto il leader di Fidesz preferisce non schierarsi, e quando gli si pone una domanda sulla politica italiana, risponde di essere uno“vecchio stile, leale: in Italia il mio amico è Silvio Berlusconi”.
Orbán è sempre stato abile nell’intrecciare i fili per proteggere il proprio potere, ma la collocazione del suo partito nel Parlamento europeo rimane uno dei più grandi paradossi: il primo ministro ungherese ha infatti da sempre ringhiato contro l’Europa, le banche e i poteri forti, eppure Fidesz a Bruxelles fa parte dell’European People’s party, il principale partito europeista. Diventare compagno di banco di Angela Merkel – tattica già testata dall’austriaco Sebastian Kurz, interno all’Epp e unito al presidente di Fidesz sul fronte contro i profughi – si è rivelata un’ottima strategia per ottenere maggiore libertà di movimento. La Lega di Salvini siede invece su un ramo opposto del Parlamento, tra le fila di Europe of Freedom and Direct Democracy. Eppure i contatti con Fidesz non si limitano allo schieramento contro i nemici comuni, ma riguardano anche i provvedimenti sull’economia.
La flat tax al 15% non è un cavallo di battaglia solo della Lega, ma la principale misura economica che Orbán ha attuato in Ungheria a partire dal 2011. Salvini ha spesso fatto notare gli aspetti benefici di tali provvedimenti (il Pil che è cresciuto del 4,2% nel 2017), senza però soffermarsi su quelli negativi. La flat tax in Ungheria ha favorito i ceti medio-alti, mettendo in difficoltà quelli inferiori. Si è creata una fascia di sottoccupati, quei lavoratori che guadagnano meno della metà del minimo salariale, con una conseguente disuguaglianza sociale netta. Il risultato è che dal 2010 sono più di 500mila gli ungheresi under 30 che hanno abbandonato il Paese per cercare fortuna altrove e che la crescita economica è oggi inferiore a quella degli altri Paesi del gruppo di Visegràd: negli ultimi vent’anni l’Ungheria è stata scavalcata per Pil pro capite dalla Polonia, dalla Slovacchia e dalla Repubblica Ceca. Le prospettive future non sembrano migliori e oggi, secondo uno studio dell’Hungarian Central Statistical Office, sarebbero 370mila gli ungheresi intenzionati a lasciare il Paese entro i prossimi due anni per farsi una vita altrove. Gli esiti di una flat tax in Italia rischierebbero di essere gli stessi: ampliare il divario tra la classe medio-alta e quella bassa e un conflitto con il reddito di cittadinanza, che polarizzerebbe nuovamente l’intesa della Lega con il M5S, poiché questi provvedimenti stonano tra loro. A sorprendere non solo le posizioni della Lega, chiare ancor prima dell’inizio della campagna elettorale, ma lo stupore che in questi giorni pervade le analisi politiche degli addetti ai lavori. Avvicinarsi alle derive ungheresi potrebbe innescare un cortocircuito politico, per le sfumature progressiste dei Cinque Stelle, ma anche per un posizionamento europeo non conforme alla storia italiana degli ultimi decenni. Lodare l’assolutismo di Orbán, i diritti civili calpestati senza pietà, il ridimensionamento di ogni forza d’opposizione, il potere di un unico partito, a cui asservire i media, la democrazia masticata più volte e poi sputata con tracotanza, non è una buona idea. All’Italia non conviene avvicinarsi alle politiche di Fidesz non soltanto per l’autoritarismo di Orbán, ma principalmente perché l’Ungheria non è il paradiso che viene dipinto da Salvini: è una nazione sommersa da contraddizioni e disuguaglianze sociali. Ovvero tutto ciò di cui non abbiamo bisogno.