In Italia tra i settori più colpiti dall’esplosione dell’emergenza COVID-19 c’è e ci sarà il turismo. Prima che l’Oms dichiarasse lo stato di pandemia, quando ancora si sperava che potesse coinvolgere solo il Nord Italia, l’Agi ha pubblicato uno studio di Demoskopika che stimava le perdite a 4,5 miliardi di euro, pari al 5% del Pil del settore, e una probabile defezione di 5 milioni di turisti. Lo scorso anno, secondo Enit (Agenzia nazionale italiana del turismo), sono stati 84,4 milioni i turisti stranieri che hanno scelto l’Italia. La situazione attuale, però, si è aggravata: con i confini dell’Ue chiusi, la crisi delle compagnie aeree italiane (Blue Panorama è ferma, Air Italy è fallita e Alitalia è all’ennesima crisi) e il progressivo divieto di volare verso l’Italia da parte dei governi internazionali, un nuovo studio di Cerved, stima che “nel biennio 2020-21, le imprese operanti nella filiera travel & tourism potrebbero subire perdite dei ricavi dai 33 ai 73 miliardi di euro, con contrazioni particolarmente significative in alcuni settori come quello alberghiero, delle agenzie di viaggio, della ristorazione e dell’autonoleggio”.
Dal momento che è stato dichiarato lo stato di pandemia, gli effetti della diffusione del virus in nazioni che prima non erano coinvolte, e che di solito sono tra le più importanti per turismo verso il nostro Paese (Stati Uniti, Francia, Germania, Cina, Corea del Sud) potrebbero far schizzare il numero dei turisti che rinunceranno all’Italia ben al di sopra dei 5 milioni: il numero di defezioni al momento, a causa dell’incertezza della situazione, non è prevedibile. L’interruzione del traffico aereo con gli Stati Uniti, così come molte compagnie hanno già deciso di fare, è una misura che potremmo poi poter dover riadottare noi, qualora ne uscissimo prima degli altri. Viaggiare per piacere, inoltre, non è una necessità: e gli effetti economici della pandemia sulle economie globali si faranno probabilmente sentire in termini di rinunce alle spese evitabili.
Il settore, nel 2017, dava lavoro a quasi 1 milione e mezzo di persone, ma bisogna pensare a due fattori fondamentali: è un settore che soffre di stagionalità, ed è, per sua natura, “interdisciplinare” visto che coinvolge altri settori in maniera capillare; dagli stagionali alle figure professionali a partita iva (guide, accompagnatori e interpreti, tanto per citarne alcune). Pertanto c’è un sommerso enorme, di difficile calcolo proprio perché ramificato in settori non apparentemente connessi col turismo. È quindi facile capire che, se non torneranno i turisti, non si potranno pagare gli stipendi di lavoratori di categorie strettamente collegate al turismo così come in quelle correlate. Con il decreto “Cura Italia”, il premier Conte ha garantito aiuti alle aziende del settore e quindi ai lavoratori. Ma se la situazione continuasse per mesi? Se il turismo estero non esistesse per tutto il 2020? Chi ha un contratto da dipendente e in regola potrà avvalersi di cassa integrazione e disoccupazione. Ma le partite Iva? Un bonus da 600 euro una tantum oltre al rischio di click day vuol dire davvero “asciugare l’inondazione con le pezze” (per citare il premier). È chiaro che è un aiuto per l’immediato, ma rimangono grandi dubbi sul futuro.
Il problema principale quando la situazione sarà lentamente rientrata alla normalità, e quindi quando non ci saranno nuovi casi in Italia né turisti che possano riportare il virus nel Paese, è che, per far sì che le persone viaggino, bisogna trasmettere loro sicurezza, far capire che non c’è nessun infetto né rischio di contagio: la certezza che quella destinazione sia sicura. Non a caso esistono siti come viaggiaresicuri e, in genere, si consulta l’ente preposto prima di andare all’estero. Nel nostro caso sarà piuttosto complicato far passare l’immagine chiara, decisa, affidabile, di destinazione sicura quando tutto sarà finito, perché il turismo, a livello legislativo, è competenza regionale. Questo riguarda anche la promozione che ogni regione fa di se stessa.
Esiste un ente preposto alla promozione turistica dell’Italia all’estero (Enit), ma il ministro per i beni e le attività culturali e per il turismo Franceschini deve trovare un accordo con le regioni per far sì che sia proprio Enit l’ente preposto a cui affidare la riabilitazione dell’immagine della destinazione Italia e la conseguente percezione di sicurezza. Da quando hanno potuto, ovvero dall’accordo con lo Stato nel 2002 in materia di turismo, le regioni hanno sempre gestito la promozione turistica in base ai loro dettami e budget. Basti pensare che spesso, alle varie fiere del turismo, c’è uno stand “Italia” e poi stand di singole regioni in altri luoghi della fiera. La mancanza di una legge quadro attuale sul turismo è la base di questo problema. L’ultima è la 135/2001, subito superata appunto dall’autonomia regionale.
Come si legge in Turismo, 20 anni senza di Stefano Landi (parte de I tascabili di Rassegna Sindacale): “Si prevedevano grandi cambiamenti, dall’istituzione dei Sistemi turistici locali (una sorta di enti per la gestione e la promozione delle destinazioni turistiche, che avrebbero dovuto avere una genesi bottom-up; una norma fortemente voluta dai Comuni) a quella dell’Assegno vacanze (una forma di sostegno pubblico alla domanda turistica più debole o ‘sociale’). Si prevedeva anche, cosa non da poco, che lo Stato si ponesse in una posizione di coordinatore delle diverse istanze regionali, nel definire i principi e gli standard unificanti per le principali questioni (classificazione alberghiera, professioni, eccetera), in modo che l’Italia potesse presentarsi sui mercati internazionali con un’offerta turistica più omogenea, evitando il tanto temuto effetto Arlecchino. Ma le regioni nel frattempo erano diventate ‘autonome’, in virtù della quasi contemporanea riforma costituzionale (legge costituzionale 18 ottobre 2001, n 3), favorita dal montante clima separatista federalista”. Nel 2002, con il Dpcm 13 settembre 2002 Stato e regioni trovano un accordo che non è un accordo: le regioni vincono il braccio di ferro con lo Stato “riaffermando, punto per punto, la loro piena ed esclusiva titolarità in materia, e sostenendo che, delle undici questioni cruciali per poter definire l’Italia una nazione turistica, si sarebbero occupate se e quando ne avessero avuto voglia. Il che, a ben vedere, non è mai accaduto”.
Si naviga a vista in totale autonomia, tutti contro tutti, fino a oggi, quando la crisi sanitaria costringe Federturismo a chiedere lo stato d’emergenza: il turismo è di fatto fermo. E questa è un’occasione unica per ritarare il sistema. Due anni fa l’ex ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali con delega al turismo, Gian Marco Centinaio, voleva accorpare il dicastero del Turismo a quello dell’Agricoltura: operazione bloccata dai giudici del consiglio di Stato. Tornato al ministero dei Beni culturali con Franceschini, appare chiaro come il settore sia considerato strategico ma senza il ruolo unico che lo distingue, eppure non ci sarebbe turismo se non ci fosse chi si prende cura dei beni culturali, così come di chi si occupa di produrre un altro fattore culturale di grande attrattiva: il nostro cibo. Così come è vero che i settori amministrati dagli altri ministeri hanno bisogno dei turisti che vivono il nostro patrimonio culturale e riempiono i nostri ristoranti, e dell’economia enorme da questi generata. È per questo che si parla di sistemi turistici. Se non si vuole tornare ad avere un ministero del Turismo, allora sta al Mibact cogliere questo momento di sospensione e risolvere conflitti legislativi che si portano avanti da un ventennio, come quello tra Stato e regioni; dare risposte ai lavoratori del settore che attendono delle linee guida nazionali che valgano per tutto il Paese ponendo anche fine al conflitto con le normative europee in ambito turistico, come quella che riguarda la liberalizzazione delle guide, così come la creazione di guide nazionali. Si potrebbero riaprire i concorsi e si contrasterebbe il lavoro nero, il sommerso, la precarietà. Facendo queste cose si potrebbe quindi ripartire compatti, quando sarà il momento.
Proprio per questo serve un ministro capace di prendere decisioni capaci di promuovere tutta l’Italia in modo da distribuire ricchezza e lavoro, valorizzando risorse come beni e musei altrimenti deserti, così da investire in cultura ovunque e non solo in alcuni luoghi, creando per di più importanti opportunità di lavoro in zone dove il tasso di disoccupazione è alto e da cui spesso i giovani si vedono costretti ad andarsene. Serve che Stato e regioni si mettano d’accordo sulla promozione dell’Italia tutta come destinazione, per promuovere la sua immagine e riabilitarla. Non si può lasciare tutto in mano alle regioni, ci vuole una coordinazione dall’alto che faccia ripartire il settore senza discriminazioni.
Rispetto agli 84,4, milioni di visitatori stranieri totali, in 58,6 hanno visitato i nostri musei (statali e non). I dati di visite a siti statali italiani sono quelli del 2018 elaborati direttamente dal Mibact, che ha registrato 55,5 milioni di visitatori. Includendo i non stranieri, la ricerca dell’Istat “L’Italia dei Musei” ci aiuta a capire meglio questo importante aspetto del turismo: sommando le cifre si arriva a quella “record di 128,6 milioni di ingressi: 63,4 milioni nei musei, 51,1 milioni nei monumenti, 13,7 nelle aree archeologiche e 488mila nelle strutture ecomuseali”. Però solo il 9,4% dei siti è a titolarità statale. Eppure le strutture statali che ne fanno parte, 460 tra musei, aree archeologiche e monumenti musealizzati, hanno attratto, solo nel 2018, circa 54 milioni di visitatori (pari al 42% del totale), con un’utenza media quattro volte maggiore di quella non statale (in media quasi 120mila persone per istituto statale contro 19mila per istituto non statale). Le 4.448 strutture non statali (rappresentate in larga parte da istituzioni a titolarità comunale) non superano le 2mila presenze nell’anno in quasi la metà dei casi (il 46,5%), svolgendo un servizio di presidio culturale spesso rivolto soprattutto alla comunità locale. In cima alla classifica dei luoghi più visitati figurano il Pantheon, il Colosseo, l’Area Archeologica di Pompei e il Museo e Parco di Capodimonte, tutte istituzioni statali che hanno registrato nel 2018 più di tre milioni di visitatori ciascuna, e che insieme ne totalizzano 21,5 milioni, pari al 17% del pubblico complessivo dell’intero patrimonio culturale italiano.
Dunque, i siti statali rappresentato solo il 9,4% del totale, ma collezionano il 42% dei visitatori. Sembra evidente che ci sia qualcosa che non funzioni. Il turismo, con questi enormi numeri, è un bene al quale in Italia non possiamo rinunciare, anche per ridistribuire la ricchezza. Una volta risolta l’emergenza sanitaria, quando sarà il momento di ripartire, bisognerà augurarsi che chi è al governo abbia la lucidità e la lungimiranza di capire che non si può più aspettare per ripensare dalle basi il sistema del turismo italiano, di cui fanno parte milioni di lavoratori.