In Italia, secondo i dati forniti dall’Istat, nel 2017 hanno alloggiato nelle strutture ricettive circa 60 milioni di turisti stranieri. I richiedenti asilo e i migranti sbarcati lungo le coste italiane nel 2018 sono stati circa 23mila. Se avessero potuto viaggiare in aereo probabilmente nessuno di questi sarebbe neanche passato per l’Italia, visto che per la maggior parte di loro il nostro Paese è solo una tappa attraverso cui raggiungere il Nord Europa. Mentre ministri e media catalizzano l’attenzione sull’inesistente “emergenza” migranti, i centri storici di tutte le città italiane si stanno svuotando dei residenti autoctoni per lasciare il posto ai trolley dei turisti mordi e fuggi, che arricchiscono pochi privilegiati danneggiando la qualità della vita della collettività. È l’effetto combinato di due dei mercati più globalizzati del Pianeta: quello turistico e quello immobiliare.
In Paesi come la Germania, l’impatto della speculazione immobiliare incontrollata viene denunciato ormai da tempo da intere comunità di abitanti. A giugno scorso, il governo locale della città-stato di Berlino ha approvato una misura preventiva, non ancora convertita in legge, per congelare per la durata di cinque anni gli affitti degli appartamenti cittadini. La decisione è il risultato delle proteste, petizioni e manifestazioni di decine di migliaia di berlinesi contro l’aumento dei prezzi degli affitti nella capitale tedesca. I canoni di locazione sono infatti raddoppiati negli ultimi 15 anni, mentre i prezzi degli immobili in vendita sono cresciuti del 120%.
Berlino, negli ultimi trent’anni, è stata la città che più di ogni altra in Europa ha saputo attirare l’attenzione di studenti, giovani e immigrati da tutta la Germania e non solo. A sedurli è stato il fermento umano e culturale di una società che si ricomponeva dopo aver abbattuto il muro tra Est e Ovest, ma anche la maggiore sostenibilità sul piano economico e la qualità della vita. Oggi tanti berliner denunciano con preoccupazione l’allineamento del mercato immobiliare a quello di capitali europee come Parigi e Londra, dove risiedere nel territorio urbano è ormai impossibile, e l’accesso agli immobili dei centri storici e delle prime periferie è un lusso riservato ai turisti e agli speculatori. Negli ultimi anni alcuni grandi gruppi hanno acquistato centinaia di migliaia di appartamenti nella sola Berlino, come nel caso della Deutsche Wohnen SE, che è passata dall’essere proprietaria di 25mila appartamenti nel 2007 ai 110mila del 2019. Oggi la cittadinanza chiede a gran voce l’esproprio delle case – previsto dagli articoli 14 e 15 della Costituzione tedesca – alle holding che ne possiedono più di 3mila, per una lotta contro la speculazione che tuteli il diritto basilare a un’abitazione dignitosa.
La battaglia degli abitanti di Berlino li accomuna a quelli di tante altre città in Europa e non solo, rivolte quasi sempre contro il colosso delle locazioni turistiche Airbnb. In Italia, l’esplosione del sito si è tradotta in un giro d’affari di 5 miliardi di euro nel solo 2018 (siamo il quarto mercato mondiale di Airbnb dopo Stati Uniti, Francia e Spagna) e nella decisione di migliaia di proprietari e affittuari di convertire gli spazi abitativi di cui dispongono in locazioni turistiche. Dal punto di vista di chi affitta, i vantaggi di questa scelta sono numerosi: la possibilità di alzare il prezzo fissandolo su base giornaliera, disporre più spesso della casa rispetto agli affitti tradizionali, e soprattutto la certezza del pagamento gestito direttamente da Airbnb.
La locazione su Airbnb si è diffusa tanto rapidamente da causare in pochi anni un terremoto nella vita delle città, scacciando dalle loro abitazioni migliaia di residenti e di lavoratori, che non trovano più appartamenti destinati all’uso abitativo regolare. La massa dei turisti mordi e fuggi ha anche trasformato l’economia dei quartieri secondo le sue esigenze, come accaduto a Firenze, Venezia o Napoli, la città dove l’offerta di alloggi su Airbnb è raddoppiata negli ultimi due anni superando i 7mila. Secondo i dati raccolti dal Sunia della Cgil, per esempio, a Firenze tra ottobre 2017 e giugno 2018 quasi 500 persone sono state sfrattate per lasciare spazio ad affitti a breve termine e Airbnb.
Il boom delle piattaforme di home sharing non interessa solo i centri storici, ma anche le prime periferie, comprese quelle che non hanno mai rappresentato una meta turistica e per questo prive di strutture ricettive adeguate. È il caso del quartiere Pigneto – Torpignattara, nella prima periferia di Roma, già oggetto nei primi anni Duemila di una gentrificazione massiccia che fece aumentare i prezzi delle abitazioni fino a oltre 5mila euro al metro quadro. Oggi il Pigneto, che ha una popolazione residente di circa 50mila abitanti (oltre a migliaia di studenti e lavoratori fuori sede o stranieri non residenti), ospita, a fronte di un solo albergo in tutta l’area, almeno 300 appartamenti in condivisione. Migliaia di turisti giovani e meno giovani alloggiano in stanze subaffittate, spesso proprio dagli studenti e lavoratori fuori sede, che in questo modo riescono a permettersi l’affitto che devono ai proprietari. Nel quartiere, tuttora uno dei più accessibili di Roma, il prezzo medio di una stanza singola in un appartamento condiviso si aggira intorno ai 480 euro di media, cifra che è rimasta stabile negli ultimi dieci anni nonostante la crisi economica.
La speculazione dei proprietari innesca un processo a catena che spinge gli affittuari, o i giovani proprietari con un mutuo da pagare, a speculare a loro volta ospitando i turisti nelle proprie abitazioni. È uno degli effetti dell’assenza di un welfare della casa in questo Paese. Attualmente, l’Italia è uno dei Paesi in Europa con il più alto numero di proprietari immobiliari in relazione alla popolazione (circa l’80%, mentre la media europea è del 70%), ma è anche uno di quelli con la più alta densità edilizia, con oltre 56,4 milioni di abitazioni, ossia poco meno di una per cittadino. Queste cifre sono il risultato della speculazione edilizia senza freni che, soprattutto durante gli anni Cinquanta e Sessanta, ha distrutto il territorio e l’ecosistema italiani per creare soluzioni abitative a basso costo e con bassi standard di qualità e sicurezza. Per fare un confronto, la Spagna, che ha conosciuto lunghi periodi di crescita del settore edilizio dopo la fine del franchismo, conta 25,6 milioni di abitazioni per un totale di 46,5 milioni di cittadini.
Il mercato immobiliare in Italia ha sempre attirato gli interessi economici di numerosi soggetti: dalla Chiesa, ai palazzinari, alle mafie, fino ai piccoli proprietari che hanno lucrato per decenni affittando in nero le loro seconde e terze case acquistate negli anni del boom economico. Anche quando era regolato dalla legge sull’equo canone (abolita dal governo D’Alema nel 1998), il mercato ha sempre viaggiato sul doppio binario dell’economia legale e di quella in nero. Ancora oggi l’economia sommersa nel settore immobiliare italiano è così diffusa che lo Stato non è in grado di ricostruire l’utilizzo di oltre 7 milioni di abitazioni, di cui oltre 6 milioni sono di proprietà di persone non fisiche, vale a dire holding, società o banche. Dietro questo dato si nascondono il riciclaggio del denaro operato dalle mafie, l’acquisizione dei beni immobili venduti all’asta da parte dei grandi gruppi e i giri di capitale delle società.
Mentre a Roma l’assegnazione delle case popolari in estrema periferia continua ad alimentare guerre tra poveri come avvenuto di recente a Casal Bruciato, a Torre Angela o a Torrenova, i centri storici delle città stanno finendo da almeno vent’anni in mano agli speculatori privati, che acquisiscono fette importanti dell’edilizia italiana, senza alcun controllo da parte dello Stato sull’utilizzo che poi ne fanno. Spesso è proprio la classe politica a favorire la degenerazione del mercato. Da una parte con il classico metodo dei favori, come emerso durante lo scandalo Affittopoli degli anni Novanta, con case vista Colosseo affittate a prezzi irrisori ad amici e parenti (e magari subaffittate a prezzo di mercato ai turisti). Dall’altra, grazie a leggi come quella sulle cartolarizzazioni immobiliari, che hanno consentito nel tempo ai vari governi di fare cassa mettendo in vendita numerose porzioni del patrimonio immobiliare pubblico attraverso la creazione di società apposite. Fortemente volute dal governo Berlusconi nel 2001, che dismise una buona fetta del patrimonio immobiliare degli enti previdenziali (fino a quel momento utilizzato come garanzia del pagamento delle pensioni), e poi perfezionate da diversi governi successivi, sono ben viste anche dal governo di Lega e M5S che ha infatti deciso di favorire ulteriormente l’accesso alle cartolarizzazioni immobiliari.
Se da una parte si grida all’invasione per poche migliaia di migranti in transito, in Italia l’industria del turismo si sta impossessando delle strade, delle piazze e persino delle abitazioni, cambiando il volto delle nostre città storiche e stravolgendone il tessuto sociale, oltre che ambientale. Nonostante i proclami dei mesi scorsi di una parte del governo di aver finalmente abolito la povertà, nulla continua a modificare una strategia che prosegue da decenni, senza distinzione di colore politico: trasformare la casa da diritto di tutti a fonte di profitto per pochi.