Tra meno di un anno, nel novembre del 2024, si terranno le prossime elezioni presidenziali americane. Secondo recenti sondaggi condotti da vari enti e giornali statunitensi, sembra che Donald Trump, attualmente considerato il candidato principale per il partito repubblicano, abbia un leggero vantaggio sul presidente democratico in carica, Joe Biden. In particolare, secondo un report stilato a novembre dall’organizzazione Morning Consult, Trump starebbe addirittura guadagnando terreno nell’elettorato afroamericano, ispanico e in quello più giovane – gruppi demografici generalmente associati al Partito Democratico. Simili risultati sono stati confermati anche da una serie di sondaggi del New York Times, condotti in collaborazione col Siena College.
Sempre secondo il NYT, Trump sarebbe al momento in vantaggio in cinque dei sei swing states necessari per vincere le elezioni – Arizona, Georgia, Michigan, Nevada e Pennsylvania. A differenza di stati federali come New York e la California, in genere solidamente democratici, gli swing states tendono a passare da un partito all’altro a seconda del candidato, spesso decretando proprio il risultato delle elezioni nazionali. Al momento, Biden guida i sondaggi solo di pochi punti percentuali nel Wisconsin, cosa che ha sollevato diverse domande, considerando soprattutto che su Trump pendono oggi 91 capi d’imputazione, dalla tentata frode elettorale all’uso improprio di documenti classificati.
Secondo quanto riportato dal NYT, gli elettori residenti negli stati contestati sembrano mostrare una mancanza di entusiasmo nei confronti di Biden per due motivi principali: la sua età avanzata, 81 anni, e la percezione dello stato attuale dell’economia del Paese. Quest’ultima, in particolare, potrebbe suonare immotivata, soprattutto agli occhi di un osservatore europeo: attualmente, l’inflazione negli Stati Uniti sta diminuendo rapidamente; inoltre, l’occupazione registrata è la più alta dal 2008, tanto che i lavoratori a basso reddito hanno recuperato circa il 25% dell’ineguaglianza salariale accumulata a partire dagli anni ‘80. In sostanza, quindi, non solo l’economia sta vivendo una forte ripresa, ma la società statunitense sta anche attraversando un periodo di riduzione delle diseguaglianze. L’eccellente performance dell’economia non toglie tuttavia che l’inflazione abbia comunque fatto salire i prezzi, nonostante l’aumento dei salari. Inoltre, gli Stati Uniti stanno attraversando da tempo una profonda crisi abitativa, con i prezzi delle case e degli affitti stessi nelle città spesso fuori portata per buona parte della popolazione, specialmente se giovane. Tale problema non è iniziato con Biden, ma ha raggiunto un picco negli ultimi tempi a causa dell’enorme discrepanza tra domanda e offerta nel mercato immobiliare. Insieme, questi due fattori potrebbero spiegare il motivo per cui la solida performance economica del Paese durante l’amministrazione Biden non si è tradotta, almeno per ora, in un vantaggio elettorale significativo per i democratici.
Ovviamente, la maggior parte dei presidenti americani uscenti tende ad attraversare un calo del consenso dopo un’iniziale luna di miele con l’elettorato. Tuttavia, la posta in gioco appare oggi più che mai elevata, data la natura del candidato repubblicano. Trump non è infatti un contendente qualsiasi: sia lui che i suoi elettori sostengono ancora oggi che le ultime elezioni siano state “rubate” dai democratici, in pratica rifiutando il risultato elettorale del 2020. Se poi si aggiunge l’assalto al Campidoglio del sei gennaio 2021, allora diventa chiaro come Donald Trump e il nuovo Partito repubblicano non siano solo un pericolo per la credibilità dell’America presso i suoi alleati, ma anche per il futuro stesso della democrazia statunitense.
Trump stesso, in privato, non fa segreto delle sue intenzioni in vista di un ipotetico secondo mandato: secondo fonti anonime riportate dal Washington Post, l’ex presidente starebbe già delineando piani specifici per servirsi del governo federale per punire critici e oppositori, tra cui funzionari dell’FBI e del Dipartimento di Giustizia. Nemmeno gli ex alleati sarebbero al sicuro. Sempre secondo il Washington Post, una volta presidente, Trump avrebbe intenzione di usare il sistema giudiziario per indagare anche su funzionari e alleati che gli avrebbero voltato le spalle negli ultimi quattro anni, dal suo ex capo di gabinetto, John F. Kelly, all’ex procuratore generale William P. Barr. Per quanto riguarda invece Biden e la sua famiglia, Trump ha già annunciato in pubblico di avere intenzione di nominare un procuratore speciale per “perseguirli” e, nonostante le accuse di corruzione da lui sollevate contro i Biden non abbiano alcuna base, proprio in queste ore la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, a maggioranza repubblicana, si appresta a votare una risoluzione per approvare un’inchiesta di impeachment nei confronti del presidente.
Tuttavia, nonostante i sondaggi diano Trump in vantaggio, almeno per il momento la realtà sta dando riscontri abbastanza contraddittori, specialmente in stati generalmente conservatori. Per esempio, il sette novembre scorso, il governatore democratico del Kentucky, Andy Beshear, è stato riconfermato, vincendo persino in distretti minerari dell’Appalachia che erano considerati ormai da anni persi a favore dei repubblicani. Inoltre, sempre il sette novembre, in Ohio, uno stato che Trump aveva vinto facilmente nel 2016 e nel 2020, è stato approvato un referendum per includere l’accesso all’aborto nella costituzione statale, con il 57% dell’elettorato a favore dell’iniziativa. Questo risultato sembrerebbe confermare che il ribaltamento da parte dei giudici conservatori della sentenza Roe v. Wade dell’anno scorso abbia unito l’elettorato, sia democratico che conservatore, in modi che i repubblicani non avevano previsto.
Mentre quindi i sondaggi suggeriscono un interesse esclusivo degli americani per le questioni prettamente economiche, nella realtà, il voto sembra invece guidato da questioni legate alla democrazia e ai diritti riproduttivi. In breve, nonostante l’apparente debolezza di Joe Biden come candidato, i democratici potrebbero avere ancora un vantaggio generale sui repubblicani, cosa che ha portato giornali, come lo stesso NYT, a chiedersi se i sondaggi oggi catturino davvero le intenzioni di voto, soprattutto dopo che lo stesso fenomeno era già avvenuto durante le elezioni di metà mandato del 2022. Malgrado ciò, la particolarità del sistema elettorale statunitense, basato principalmente sul premio di maggioranza dell’Electoral College e non sul voto popolare, potrebbe comunque portare a risultati inaspettati, come è accaduto nel 2016 quando Trump vinse la presidenza nonostante avesse ricevuto tre milioni di voti in meno rispetto a Hillary Clinton.
È anche possibile che sia i sondaggi che i risultati elettorali delle ultime settimane raccontino parte di un cambiamento nelle dinamiche dei due principali partiti. Da una parte, il tiepido consenso per Biden potrebbe indicare un desiderio di volti nuovi dell’elettorato democratico. Dall’altra, il partito repubblicano fa ora i conti con la sua radicalizzazione interna. In particolare, i conservatori dal 1992 a oggi hanno vinto il voto popolare solo nel 2004, in condizioni molto particolari all’indomani della mobilitazione post-undici settembre. Per ogni altra vittoria, come nel 2000 e nel 2016, hanno invece dovuto fare affidamento sull’Electoral College, cosa di cui i vertici del partito sono ben consci. Altro elemento rilevante è il fatto che Biden non stia necessariamente perdendo elettori progressisti, quelli in genere più critici rispetto alle scelte del partito, ma piuttosto quelli al centro. Secondo infatti un sondaggio della Quinnipiac University, ha un forte vantaggio nell’elettorato più liberale, con un netto 96% contro il 6% di Trump, numeri addirittura migliori di quelli registrati da Biden nel 2020. Tuttavia, nello stesso sondaggio, il consenso per Biden scende in modo significativo rispetto all’elettorato moderato.
La ragione di questa tendenza non sembra essere al momento chiara, ma se dovesse portare a una sconfitta potrebbe indurre il Partito Democratico stesso a ripensare la sua strategia per il futuro. Biden ha infatti governato a livello nazionale molto più a sinistra dei suoi predecessori. Una débâcle potrebbe essere interpretata come un segnale che questo tipo di strategia non gode in realtà di popolarità agli occhi della maggioranza degli elettori. Allo stesso modo, una nuova sconfitta per Trump potrebbe invece indurre i repubblicani a rigettare una volta per tutte la sua retorica autoritaria, abbracciando un conservatorismo moderato che rispetti le istituzioni.
Il ritorno di Trump sulla scena politica si inserisce in una più ampia tendenza elettorale che sta attraversando nuovamente le democrazie liberali. La recente elezione di leader politici reazionari, come Geert Wilders nei Paesi Bassi, o Javier Milei in Argentina, indica che, almeno per il momento, la popolarità delle ideologie radicali e anti-establishment di destra è ancora molto estesa. Il persistere di queste tendenze rappresenta una vera e propria sfida esistenziale per il liberalismo, che ancora oggi fatica a ricostruire una solida legittimità popolare. Almeno per ora, parte dell’elettorato sembra essere ancora fortemente attratto dalle promesse semplificate e spesso polarizzanti dei movimenti populisti, e malgrado i risultati più incoraggianti in Paesi come la Polonia, non è ancora chiaro quale sia la ricetta adeguata per affrontare il problema. Nel caso di Trump, il problema va ben oltre le questioni di politica interna statunitense. La retorica isolazionista dell’ex presidente, infatti, minaccia di portare a un ritiro improvviso dell’America dall’Europa e dal Pacifico, lasciando un vuoto geopolitico pericoloso in un momento in cui Paesi come Russia e Cina stanno cercando di rafforzare la loro influenza. Queste elezioni, quindi, non rappresentano solo un enigma per gli americani, ma costituiscono un’incognita per l’intero panorama geopolitico mondiale, dato che influenzeranno profondamente le relazioni internazionali, la nostra sicurezza e l’equilibrio di potere tra le varie nazioni. Malgrado il 2016 ci abbia dato una chiave di lettura del problema, è chiaro che la democrazia in Europa e negli Stati Uniti non sia ancora fuori pericolo.