Tanti leader politici internazionali in questi ultimi anni ci hanno fatto credere che una bella battuta possa sistemare tutto, che basti ostentare una fiera ignoranza e mettere la foto sulle loro pagine social della bandiera del loro Paese o di un piatto di pasta per essere “vicini al popolo”. Che il mondo si possa governare a colpi di selfie e di tweet in caps lock. Tanti leader si sono appropriati della frase di Pirandello, “la serietà mi è parsa sempre una cosa ridicola.” Ma la commedia che i nazionalismi populisti vogliono raccontarci si trasforma giorno dopo giorno, sempre di più, in una tragedia.
Alle due di notte del 3 gennaio il generale iraniano Qassem Suleimani è stato ucciso da un raid aereo statunitense all’aeroporto iracheno di Baghdad, per ordine diretto del presidente Donald Trump.
Con la rivoluzione e la crisi degli ostaggi di Teheran del 1979, l’Iran è diventato una repubblica teocratica sciita che vede in Israele e negli Stati Uniti il “piccolo” e il “grande Satana”. Da allora la tensione tra i tre Paesi è sempre stata alta, salvo rari momenti di distensione. Nel discorso all’Unione dell’inizio 2002, George W. Bush ha inserito l’Iran, insieme a Iraq e Corea del Nord, nella lista dei Paesi dell’“asse del male”, soprattutto per l’intenzione della Repubblica islamica di lavorare al suo programma nucleare. Nel 2015 il successore Barack Obama riuscì a ottenere, lavorando con l’Unione europea, la Cina e la Russia, la firma sul Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action), un trattato che impegnava l’Iran a limitare lo sviluppo del programma di arricchimento dell’uranio.
L’elezione di Trump nel 2016 ha di nuovo cambiato le carte in tavola. Nell’America First del nuovo presidente non c’è spazio per il multilateralismo, né per la diplomazia. A fine 2018, dopo aver accusato Teheran di non rispettare l’accordo, Trump ha imposto nuove sanzioni al Paese, proibendo ai propri alleati di commerciare con il nemico iraniano, sotto la minaccia di essere tagliati fuori dagli affari con Washington. Il presidente iraniano Hassan Rouhani, espressione dell’ala più moderata del regime, si è visto costretto a reagire, come i testimoniano gli incidenti nel golfo dell’Oman che hanno coinvolto delle petroliere e l’abbattimento di un drone statunitense nell’estate del 2019.
La tensione è cresciuta fino a fine dicembre, quando alcuni miliziani filo-iraniani a Baghdad sono riusciti a fare irruzione nell’ambasciata statunitense. La reazione degli Stati Uniti è stata l’uccisione di Qassem Suleimani. Considerato uno degli uomini più potenti di Teheran e del Medio Oriente, Souleimani era a capo delle forze Quds (Gerusalemme), un’unità speciale delle Guardie della rivoluzione islamica specializzata nelle operazioni i all’estero. Considerato la mente e l’esecutore della politica estera iraniana, era secondo per fama e potere solo alla guida suprema del Paese, l’Ayatollah Ali Khamenei.
L’amministrazione statunitense ha affermato che uccidendo Souleimani ha prevenuto futuri attacchi iraniani, ma sembra non aver considerato l’equilibrio precario su cui si regge il Medio Oriente. L’Iran infatti si trova in enorme difficoltà: le sanzioni economiche hanno fermato l’export di petrolio, tra le principali fonti di guadagno del Paese. Le tensioni sociali sono cresciute e l’aumento del prezzo dei carburanti ha causato imponenti proteste di piazza, represse dal governo con il pugno di ferro. L’Iran è più fragile e più vulnerabile agli occhi della difesa statunitense. Il rischio è però che la morte di Souleimani destabilizzi ulteriormente la regione, innescando una reazione a catena che potrebbe coinvolgere gli interessi contrastanti dei vicini Iraq, Arabia Saudita, Siria e Israele. Questo potrebbe avvenire sia a causa di un cambio di regime della Repubblica Islamica, sia per una escalation militare. A questo si sommano gli interessi di Cina e Russia nell’area, soprattutto dopo il rafforzamento della presenza militare russa in Siria nel corso della guerra civile.
Le autorità iraniane hanno affermato che sono pronte a colpire obiettivi strategici statunitensi e dei loro alleati sfruttando un ramificato network di milizie sciite in tutto il Medio Oriente. Gli Stati Uniti sono già pronti a mandare altri 3000 uomini nell’area, ma il numero potrebbe crescere in pochi giorni. Ali Vaez, analista del think tank Crisis Group, ha definito la situazione “Francesco Ferdinando momentum”, paragonando la morte di Souleimani all’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando che ha innescato la reazione a catena conclusa con lo scoppio della Prima guerra mondiale.
Il caso Souleimani non è un evento isolato, ma l’ennesimo esempio di una politica estera guidata da un nazionalismo narcisista e pressapochista, pericoloso quanto demagogico. Un nazionalismo che guarda alle prossime elezioni e alla propria sopravvivenza politica più che alla sicurezza del proprio Paese e a quella internazionale.
Non è un caso che l’assassinio di Souleimani sia arrivato proprio il giorno in cui il Congresso americano ha ripreso i lavori sull’impeachment nei confronti di Donald Trump. Non è un caso che sia già iniziata la campagna elettorale per le presidenziali del 2020 e che una guerra sia il modo migliore per raccogliere dietro di sé gli elettori spaventati e influenzabili. Per fare un esempio, Bush dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 raggiunse un livello di approvazione pari al 92%.
Fa ridere, ma dovrebbe far rabbrividire vedere ora i tweet di Trump tra 2011 e 2012: “Barack Obama attaccherà l’Iran per essere rieletto”, “Come ho predetto, Obama sta preparando un possibile attacco all’Iran giusto prima di novembre”. Trump è stato eletto nel 2016 promettendo l’isolazionismo e il ritiro statunitense da Afghanistan e più in generale dal Medio Oriente.
Il problema dell’unilateralismo di Trump non è solo il danno che porta ai suoi stessi alleati, ma è soprattutto quello che riguarderà gli stessi Stati Uniti nel lungo periodo. Quello che la demagogia e la superficialità dei vari Trump del Pianeta non possono capire è che un nazionalismo egoista non può più risolvere i problemi di un mondo globalizzato. Di fronte alle disuguaglianze crescenti, alla crisi climatica, alle migrazioni di massa e a uno sviluppo tecnologico senza precedenti, nessuno Stato, anche tra i più potenti del Pianeta, può avere la presunzione di “farcela” da solo. Le grandi sfide della nostra epoca hanno una portata globale e richiedono soluzioni di respiro internazionale, come già previsto nel 2003 dal filosofo Peter Singer nel suo libro One World.
Ogni scelta dell’amministrazione Trump in politica estera e anche interna è andata nella direzione opposta. L’Europa ha pagato il prezzo della guerra dei dazi statunitense contro la Cina, che ha rallentato l’economia globale e danneggiato i Paesi con una forte vocazione per l’export come Germania e Italia. I dazi ai Paesi europei e gli attacchi all’utilità della Nato hanno indebolito ancora di più i rapporti transatlantici. Le critiche all’Onu e ad altre organizzazioni internazionali hanno delegittimato e messo in discussione l’efficacia dello strumento multilaterale e l’idea che si possa trovare una soluzione diplomatica e non violenta ai divergenti interessi degli Stati. Il ritiro statunitense dalla Siria del Nord, deciso a giugno con un tweet da Trump senza consultare nessun partner strategico e probabilmente lo stesso Pentagono, ha dato via libera alla Turchia per l’offensiva contro i curdi del Rojava, le donne e gli uomini che hanno sconfitto l’Isis sul campo, dimostrando la saggezza del proverbio africano “quando due elefanti combattono è sempre l’erba a rimanere schiacciata”.
Il Pianeta e miliardi di persone sono ostaggi di leader politici mossi da un totale disinteresse per il futuro mossi esclusivamente da un narcisismo che in alcuni casi sfiora la patologia mentale. Ogni scelta guidata dal mero interesse nazionale o addirittura personale non è più sostenibile. Ogni decisione che non contempla le conseguenze per gli altri diventa un’ipoteca sul futuro delle prossime generazioni e minaccia la sopravvivenza stessa dei cittadini che i populisti di tutto il mondo sbandierano ogni giorno di voler proteggere.