Non ricordo molto dei sogni che faccio, ma alcune costanti passate mi sono particolarmente chiare: il cibo, il sesso, l’idea di salvare una persona cara dalla morte. Non è per chissà quale pericolo incombente né per una volontà di assomigliare agli dèi, quanto per la sensazione di gratitudine che nasce anche dal più banale eroismo. Riuscire a evitare agli altri il dolore, ci raccontavamo un tempo, o resistervi noi stessi, era ciò a cui più di ogni altra cosa potevamo ambire per sentire di avere valore. Oggi, invece, questa dinamica sembra essersi ribaltata: ingigantiamo ogni dolore per sentirci ascoltati, alzarci al di sopra del rumore. Sembra quasi che non vogliamo essere salvati né salvare, ma soffrire per poterlo raccontare.
Un fenomeno che coinvolge soprattutto i social, dove ci sono espressioni che a forza di ripeterle stanno sbiadendo, perdendo forza, finendo per non significare niente e tutto il contrario. La sociologa Eva Illouz le chiama concetti bulldozer, tanto ampi e omnicomprensivi da non riuscire più a cogliere e rappresentare la complessità dei fenomeni a cui fanno riferimento, come “cancel culture”, “fake news”, “hate speech” o “mascolinità tossica”. Binomi ormai così vaghi da poter essere utilizzati senza specificare il contesto o venir argomentati. Un processo che, credo, ha coinvolto non solo espressioni di fenomeni sociali, ma anche singoli attributi legati alla sfera della sofferenza, soprattutto psicologica: “tossico”, per esempio, con cui etichettiamo tutto ciò che ci risulta difficile da gestire o che per qualche ragione si esprime attraverso modalità che non condividiamo, dai genitori al lavoro; o “abuso”, con cui confondiamo la dimensione del conflitto, sfidando sconosciuti – sempre e solo nei commenti su Internet – a chi ce l’ha più grosso invece di uscire arricchiti, o almeno più rasserenati, da un confronto positivo; oppure “traumatico”, aggettivo che ormai descrive anche il più piccolo inconveniente quotidiano. Un collega che ci chiede di fare daccapo una presentazione, un amico che per un inconveniente ci molla da soli il sabato sera, o un date che ci dà buca, la nonna che non capisce la differenza tra menù vegetariano e vegano: ogni cosa viene descritta come “traumatica”, senza alcuna gerarchia, contestualizzazione o capacità di porsi nello stato d’animo o nella situazione dell’altra persona.
Non si tratta di stabilire se il concetto di trauma oggi si sia esteso troppo o invece prima lo fosse troppo poco, o di imporre gerarchie, ma nella maggior parte dei casi sembra davvero descrivere solo dei semplici intoppi. È come se non sapessimo più esprimere il nostro disaccordo o le nostre difficoltà utilizzando un linguaggio non psicologico. Ciò che stiamo vivendo, non a caso, viene definito “trauma creep”: il fenomeno per cui il linguaggio clinico, o afferente, finisce per riferirsi a un insieme sempre più ampio di esperienze, ampliando – a dismisura – i possibili significati di un termine. Così, oggi, la parola “trauma” sembra indicare qualsiasi cosa ci infastidisca, in ogni modo, a ogni ora. Eppure non è sempre stato così. In origine, il vocabolo indicava infatti solo una lesione fisica – un braccio rotto, un cranio spaccato –, tanto che la sua stessa etimologia significa trafittura, perforamento. È tra la seconda metà del Novecento e l’inizio del nuovo millennio che il termine acquista maggiore rilevanza culturale, venendo sempre più associato a “psicologico” e “stress” – anche con l’introduzione della diagnosi di disturbo da stress post-traumatico – e sempre meno alla corporeità, con uno slittamento nel campo psicologico e psichiatrico. Dal 1970 al 2000, il suo uso nei libri è aumentato di circa tre volte.
È innegabile che viviamo in un tempo in cui il disagio mentale è sempre più presente nella nostra quotidianità, ma parte del motivo per cui oggi tendiamo a usare il termine “trauma” indifferentemente dal contesto si lega anche alla diffusione e al successo dei social, dove tutti ci sforziamo – chi più chi meno – di elevarci al di sopra dei reel di ricette in uzbeko, delle fitness mom e delle altre centinaia di contenuti che ormai fruiamo passivamente, per essere presi sul serio, per “sentirci ascoltati” e, soprattutto, per diventare qualcuno, cioè acquisire successo, follower ed engagement. Come hanno osservato molti filosofi, da Michel Foucault al sociologo Peter Conrad, utilizzare il linguaggio clinico nel quotidiano eleva chi parla: affermare che il nostro vicino ha un “disturbo bipolare di personalità” solo perché un giorno era troppo sovrappensiero per salutarci ci ammanta di autorità, mentre patologizza il comportamento altrui. In questo modo – e sui social, tra caroselli e psicoterapeuti improvvisati, avviene molto spesso – si spogliano le relazioni di qualunque complessità, applicando il mantra del prendersi cura di sé nell’evitare ogni cosa possa metterci in difficoltà o spingerci al confronto e riducendo la propria identità a quella di vittima, incapace di confrontarsi con qualunque differenza, secondo una nuova formula cartesiana sintetizzabile in: “Soffro, dunque sono”. Questa tendenza a enfatizzare l’autocommiserazione è amplificata dal modo in cui il trauma, spesso, conferisce legittimità politica e virtù morale.
Com’è ovvio, non si parla delle vittime reali, ma della trasformazione dell’immaginario della vittima in uno status dietro cui trincerarsi per evitare di essere messi e di mettersi in discussione, così la possibilità di dichiararsi vittima diventa una posizione strategica da occupare a ogni costo. In questo, definire ogni cosa “traumatica” aiuta la causa: dichiarare di aver subito un trauma significa infatti prima di tutto porsi come vittima di qualcuno o qualcosa – che sia un amico, un datore di lavoro o la vita stessa. Gli algoritmi social premiano contenuti simili, con una logica per cui, dove registrano maggiore attenzione, intervengono per aumentarla ulteriormente. È una sorta di traumabait, spesso generato da chi sembra solo voler arrivare a pubblicizzare un prodotto o posizionarsi come un determinato e riconosciuto creatore di contenuti. Alla base c’è l’antico assunto per cui il trauma vende – niente di più ovvio.
Inoltre, ormai da tempo assistiamo a un assottigliamento del confine tradizionale tra pubblico e privato. Se è vero che i social incentivano i contenuti emotivi, lo è altrettanto che vivere una crisi di solitudine globale, avere pochi amici o non poter ottenere un supporto psicologico a causa dei costi e della carenza del servizio sanitario nazionale – una realtà sempre più diffusa – rendono le piattaforme lo strumento più facilmente accessibile per esternare il proprio malessere. La conseguenza è che spesso finiamo per condividere eccessivamente esperienze angoscianti con persone – in questo caso i follower – che non hanno accettato o non sono preparate per ricevere tali informazioni. Anche l’inserimento dei trigger warning – avvertimenti che segnalano la presenza di una tematica considerata problematica – serve a poco. In questo contesto, è quindi ancora più facile estendere il linguaggio clinico all’immaginario pubblico e alla vita di tutti i giorni.
Lo sviluppo semantico del termine “trauma” non è del tutto negativo. Abbiamo infatti una migliore comprensione di alcuni aspetti psicologici e una maggior sensibilità rispetto a comportamenti scorretti che in precedenza venivano tollerati, ignorandone i conseguenti danni. Mano a mano che le parole acquisiscono nuovi significati, però, rischiano anche di essere meno precise ed efficaci. Invocare il trauma come concetto dominante per spiegare tutto ciò che ci accade significa contemporaneamente appiattire il panorama degli eventi della vita e rappresentare ogni avversità come travolgente, dandogli il peso della calamità. Il modo in cui interpretiamo un’esperienza influenza come rispondiamo a essa. Quando iniziamo a parlare di difficoltà ordinarie come di traumi alimentiamo l’incertezza che ci porta a considerarle più difficili da superare, incoraggiando un senso di impotenza, pessimismo e sconfitta, amplificando la disperazione e la passività con cui valutiamo i possibili danni subiti. Scegliere le parole che utilizziamo per parlare dei nostri problemi, invertendo la narrazione, deve essere un atteggiamento che va coltivato, perché molte sfide potrebbero diventare più facili se affrontate partendo da una diversa cornice interpretativa.
Da un po’ di tempo non ricordo più nemmeno il sesso o il cibo nei sogni, solo un’ambizione: quella di essere nessuno. L’eroismo prima e l’iper-vittimismo poi, quando ancora mi attraggono, non sono altro che il tentativo vano di cambiare per rispondere alle pressioni sociali. Sotto al rumore si sta bene, dovremmo dircelo più spesso. Facendo affidamento sul trauma per comprendere le nostre vite, infatti, non facciamo altro che appiattirle, contribuendo a rendere l’estensione del linguaggio psicologico in quello comune più nociva che utile, come invece potrebbe essere per aumentare la consapevolezza collettiva. Dovremmo fare lo sforzo di immaginare nuove storie, in cui sentirci riconosciuti e ascoltati senza convincerci che sia solo il dolore a renderci interessanti. Anche perché, se tutto è traumatico, nulla più resta a esserlo.