Hannah Arendt, una delle filosofe più importanti del Novecento, nel 1949 terminò un saggio che diventerà un classico della politologia: Le origini del totalitarismo. L’ultimo capitolo del testo si apre con una discussione riguardo al ruolo dei totalitarismi nelle varie fasi della storia e si sviluppa con un elenco di elementi fondamentali – come la massa, la propaganda e l’antisemitismo – che sono stati il motore di un fenomeno che l’autrice definisce come “unico” e “tipicamente moderno”, perché solo nella modernità sono presenti strumenti capaci di permettere un tale controllo della società.
Nel testo, Arendt sosteneva che il punto chiave dei totalitarismi fossero le masse, costituite per la maggior parte da persone che non aderivano a un particolare partito politico e faticavano a recarsi alle urne, gruppi di persone tipicamente considerate ignoranti, inutili o comunque innocue. I regimi totalitari del Novecento, infatti, esigevano secondo Arendt dai loro sostenitori una fedeltà cieca e incondizionata, e questo tipo di lealtà la si poteva ricevere in particolar modo da persone emarginate o escluse, che non avevano legami sociali soddisfacenti ed erano poco considerate dallo Stato, e grazie all’aderenza a questo tipo di sistemi provavano la sensazione di poter avere finalmente un posto definito nel mondo e un senso di rivalsa.
Fu proprio questo dettaglio a determinare l’ascesa del regime nazista in Germania e dei regimi dittatoriali comunisti dopo il 1930, che reclutarono i loro membri da una schiera di cittadini apparentemente indifferenti, che tutti gli altri gruppi politici avevano abbandonato, perché considerati passivi o troppo ottusi per la loro attenzione. Al contrario, questi dimostrarono che le masse politicamente neutrali potevano facilmente essere la maggioranza anche in un Paese governato democraticamente e che quindi diverse democrazie dell’epoca funzionavano effettivamente secondo le regole riconosciute in maniera attiva solo da una minoranza.
La filosofa tedesca scriveva che le caratteristiche principali dell’uomo di massa non erano la brutalità e l’arretratezza, ma il suo isolamento e la mancanza di normali relazioni sociali. Come sappiamo, con la pandemia ampie fasce della popolazione che si trovavano già in una situazione precaria hanno visto da un lato peggiorare ulteriormente le proprie condizioni economiche e dall’altro hanno dovuto accettare mesi di isolamento forzato. L’assenza di contatto diretto e di relazioni interpersonali in grado di instaurare un dialogo aperto è ormai la norma sui social – che dall’inizio della pandemia oltre che spazio eletto dove scambiarsi opinioni sulla situazione, sono diventati soprattutto luogo di sfogo per la propria rabbia verso lo Stato, le istituzioni e chiunque esprimesse pensieri dissonanti. Frustrazione e reclusione hanno nutrito sentimenti di rabbia e invidia, fino a far emergere e polarizzare le coscienze di tanti.
A differenza di un secolo fa, però, le persone che una volta venivano escluse dal discorso pubblico oggi trovano spazio nel più contemporaneo dei mezzi di propaganda politica: il web. Proprio sui social, in particolare su Twitter e Facebook, è stato possibile notare un aumento di sentimenti xenofobi e razzisti, a volte anche a causa di messaggi veicolati dagli stessi partiti: basti pensare all’aumento degli attacchi verbali e delle aggressioni fisiche contro la comunità asiatica all’inizio della pandemia, trasformata in capro espiatorio e accusata di aver diffuso il virus in Europa; ai migranti di origine africana, che sono stati spesso accusati di portare il Covid-19 e altre malattie nei Paesi d’ingresso; o ancora alle stesse accuse rivolte verso i profughi in fuga dall’Ucraina.
Secondo Arendt, i regimi totalitari esigono dai loro sostenitori una fedeltà cieca e incondizionata. Non a caso, da quando il presidente Putin ha dichiarato guerra all’Ucraina il 24 febbraio, il governo russo ha tentato in vari modi di soffocare il dissenso della stampa libera e dei manifestanti nelle piazze: il Cremlino ha bloccato quelli che erano considerati i pilastri dei pochi media indipendenti russi degli ultimi anni, la radio Ekho Moskvy e il canale televisivo Dozhd, trasmissioni indipendenti e liberali, le testate che riportavano la quantità di perdite militari in Ucraina e la maggior parte delle fonti di notizie straniere. Alcuni, per paura, hanno risposto con l’autocensura: Novaya Gazeta, famoso per i suoi reportage investigativi, ha scelto di abbandonare i reportage di guerra per evitare ritorsioni. Elena Chernenko di Kommersant – ma anche Marina Ovsyannikova, la giornalista arrestata per aver mostrato un cartello contro la guerra in Ucraina durante una diretta televisiva – è stata cacciata dal gruppo della stampa del Ministero degli Esteri per aver espresso opinioni contro la guerra, e a oggi, sono state arrestate più di 13mila persone.
Il movimento totalitario si esplica attraverso una particolare propaganda a cui si affianca una sistematica azione di terrore e censura, che diventa elemento di complemento della propaganda stessa: non è un caso oggi che bambini e giovani russi siano diventati soggetti principali della campagna russa. Il Ministero dell’Istruzione, supervisionato da Sergej Sergeevič Kravcov, ha rilasciato poche settimane fa un video di trenta minuti in cui la dodicenne Sofia Khomenko – diventata famosa a livello nazionale nel 2017 grazie al canto – spiega a studenti e insegnanti come stia procedendo una cosiddetta “missione di liberazione” dell’Ucraina. A Kazan, invece, un gruppo di bambini russi malati sono stati costretti a scattare una foto nella neve fuori da un ospedale tenendosi la mano in una formazione a “Z” (il simbolo pro-guerra della campagna militare Russa), in un disperato tentativo di spettacolo propagandistico ispirato da Putin per sostenere l’invasione. Dietro le strategie di Putin, insomma, ci sono gli stessi meccanismi descritti e analizzati ne Le origini del totalitarismo: l’aggressione del presidente russo contro l’Ucraina non si limita infatti a meri obiettivi territoriali. L’obiettivo rappresentato da un nemico comune – in questo caso la stessa nazionalità ucraina – è alimentato dall’entusiasmo di Putin per le teorie ultranazionaliste, le stesse estrapolate e riprese in passato dal regime nazista in Germania e dallo stalinismo in Unione Sovietica.
Il consenso di massa di cui i regimi totalitari hanno goduto nella prima metà del Novecento ha avuto diverse radici ma non così differenti da quelle che potrebbe avere oggi: nel 2021, coloro che sono stati dimenticati dal governo e messi in ginocchio dalla pandemia ripongono speranze e sicurezze nei partiti populisti, che sfruttano preoccupazioni e angosce della popolazione per acquisire adesioni e consensi, convogliando le paure della massa contro un nemico comune che, se eliminato, potrà finalmente risollevarci dai nostri problemi. Nel 2022, se pensiamo al totalitarismo in relazione alla situazione Russia-Ucraina, quello che a noi occidentali potrebbe sembrare un termine lontano e antiquato è invece sempre più attuale, alimentato da un livello di repressione nuovo e improvviso, da una missione propagandistica che non lascia spazio al dissenso, da una politica che presenta le stesse caratteristiche di una comune dittatura nazionalistica.
Nel 1996 in un video trasmesso dalla Cnn Putin affermava che “una svolta verso il totalitarismo per un certo periodo di tempo nel nostro Paese è possibile”. Attraverso l’imposizione di un’ideologia a senso unico e del terrore, il totalitarismo identifica se stesso con la storia del proprio Paese e tende ad affermarsi all’esterno con la guerra. La storia ci ha insegnato, però, che le cose non funzionano in questo modo. I totalitarismi fanno leva sui tratti psicologici insiti nell’essere umano e su immaginari utopici in cui vige il potere assoluto di una sola parte, incapace di conciliare le necessità e le esigenze di un mondo complesso e diversificato – come è a maggior ragione quello contemporaneo. I danni di questo idealtipo dovrebbero ormai essere noti a tutti: è necessario evitare che l’attuale situazione non ci disumanizzi al punto da cadere di nuovo in questi errori e far riemergere il pericolo di una deriva politica assolutista.