L’isolamento ha peggiorato la vita dei tossicodipendenti. L’Italia cambi approccio contro le droghe.
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Bisogna accontentarsi di Zerocalcare per sentire parlare della situazione di chi è tossicodipendente in questo periodo. Il fumettista romano ha infatti toccato il tema in uno dei suoi video sulla quarantena, sottolineando la drammaticità delle condizioni di queste persone e di chi vive con loro. Per il momento i media si sono limitati a sfiorare la questione: la rivolta nelle carceri ha palesato a cosa possa portare la dipendenza di ben un detenuto su tre quando si bloccano le visite e aumentano le limitazioni in un ambiente già, a volte, soffocante. Oppure si è stigmatizzato, banalizzandolo, il comportamento di chi, fermato fuori casa, ha dichiarato di essere in cerca di qualche dose di cocaina. Il problema di chi dipende da stupefacenti è però reale e preoccupante: lo dimostrano i dati del rapporto Emcdda (Osservatorio Europeo sulle Droghe e sulle Tossicodipendenze), che parlano di 6 persone su mille dipendenti da oppiacei, altrettante da cocaina. Un esercito di uomini e donne ormai costretti ad assumere sostanze giornalmente, e che non possono certo aspettare il ritorno alla normalità per tornare a rifornirsi.

Rivolgere lo sguardo alle carceri italiane può aiutare a comprendere la portata del fenomeno della tossicodipendenza ed il modo in cui questo viene combattuto. Oltre un terzo dei detenuti, equivalente a circa 21mila individui, si trova in cella per reati previsti dalla legge Iervolino Vassalli del 1990. Tra questi, la maggior parte deve rispondere dell’accusa di detenzione e spaccio, mentre soltanto il 5% delle imputazioni riguarda la più grave fattispecie di traffico di stupefacenti. È indubbio come la vendita in piccole quantità coinvolga un bacino maggiore rispetto allo smercio di dosi ingenti di stupefacenti, ma le proporzioni evidenziano anche la miopia nel contrasto alla tossicodipendenza. Innanzitutto, la volontà di concentrarsi sulla punta dell’iceberg, sulla parte più visibile del traffico di sostanze, senza però avere spesso la volontà e la capacità di contrastare il fenomeno alla radice. Si è pensato, insomma, di risolvere con la detenzione una problematica che invece secondo l’associazione Antigone e il personale sanitario del settore andrebbe affrontata con misure sociali e servizi: a monte, per esempio pensando alla nascita di presidi per la collettività anche in quei quartieri e periferie diventati veri e propri ghetti; o a valle ad esempio attraverso attività relazionali e creative, già portate avanti dai centri specializzati, o con misure di riduzione del danno, quali i drop in, per contenere la pericolosità delle sostanze quando a queste è impossibile rinunciare.

Le misure restrittive prese per combattere l’epidemia di COVID-19 hanno portato le strade a svuotarsi. Dalle strade però non sono spariti soltanto coloro che passeggiavano o andavano a lavoro: è diminuita anche l’attività di spaccio, facendo calare sensibilmente la quantità di droghe presenti sul mercato. “Le sostanze sono rare e i prezzi altissimi”, afferma il sociologo Claudio Cippitelli, intervistato dall’Associazione Luca Coscioni. “Viene inoltre a mancare il rapporto con lo spacciatore di fiducia, bisogna accontentarsi”. I clienti devono quindi prendere ciò che trovano, rischiando di avere a che fare con sostanze tagliate male e ben più nocive. In parte aggirato nel Meridione, dove l’epidemia è meno potente. Il fenomeno ha i suoi effetti soprattutto al Nord: per i venditori illegali nascondersi è ora impossibile, soprattutto tra piazze e parchi vuoti dei piccoli centri.

Alla bassa offerta si somma la mancanza di entrate. La situazione finanziaria di chi vive in strada è caratterizzata normalmente da una forte precarietà: non solo lavori in nero o occasionali, ma anche l’esistenza di una vera e propria economia informale fatta di elemosina e condivisione, prostituzione e piccoli furti. Logico quindi che questa categoria sia la prima a risentire dei cambiamenti dettati dal virus: le occasioni si fanno sempre più rare a causa della mancanza di gente, la piccola criminalità vede azzerarsi il proprio margine d’azione considerato il presidio delle forze dell’ordine. Alla consueta dipendenza si somma quindi una preoccupazione per la sopravvivenza, che trova effimera soluzione in un rifugio ancora maggiore in un mondo diverso, alterato.

Credere che bastasse la quarantena a fermare la vendita di droghe però non sarebbe realistico. Don Mario Vatta, fondatore di Comunità San Martino al Campo di Trieste, da decenni si occupa di chi fa uso di stupefacenti e mette in guardia dalle conclusioni affrettate. “I canali per rifornire il mercato si sono sempre trovati”, spiega mostrandosi scettico anche verso chi ritiene che a non trovare sostanze possano essere, per lo meno, le fasce più deboli. “La separazione è tutt’altro che netta e spesso è chi vive in strada a vendere ai consumatori più altolocati”. Anche Lorenzo Frigerio, giornalista specializzato nel tema della mafia, dubita che il mercato illegale sia in difficoltà: “La criminalità organizzata si è senz’altro mossa per tempo, approfittando della corsa all’approvvigionamento nei giorni precedenti al blocco. Non dobbiamo dimenticare la forte capacità dei clan di sfruttare le emergenze”. Le cosche starebbero piuttosto scaricando sulle piazze di spaccio sostanze di infima qualità, solitamente invendibili, con l’obiettivo di prendere il controllo in questa fase di transizione e non lasciarlo una volta finita l’emergenza. Per loro, infatti, il traffico di droga rappresenta ancora la prima voce di guadagno.

Se rifornirsi non è quindi impossibile, risulta di certo più difficile e costoso: don Mario accende l’allarme per quanto riguarda allora il consumo di alcol e farmaci. Si tratta di sostanze facilmente reperibili, tra supermercati e farmacie, che vanno a sostituire, almeno in parte, la carenza di stupefacenti. Gli psicofarmaci, in particolare, sono caratterizzati da un effetto sedativo che può renderli una degna alternativa agli oppiacei. Teoricamente vengono venduti solo a chi è in possesso di ricetta medica, ma evidentemente le persone che ho intervistato non hanno incontrato difficoltà a procurarseli. La preoccupazione del sacerdote è quindi condivisa dall’intero settore che si occupa di dipendenze, consapevole anche di come la vendita di alcol e farmaci, per il suo essere legale, sfugga a un monitoraggio.

Tra le persone tossicodipendenti, solo una minima parte si rivolge ai servizi sanitari: le stime dicono che per un individuo seguito dai Sert ce ne sarebbero almeno dieci non monitorati in alcun modo – le stime del personale sanitario intervistato, di don Mario Vatta e Riccardo Magi, vanno da un 4% a un 10% delle persone tossicodipendenti affidate a servizi sanitari. Se la fragilità della seconda categoria è senza dubbio maggiore, il personale sanitario con cui ci siamo confrontati sostiene che in questo periodo crescano anche i timori che riguardano chi si rivolge alle strutture. Per la terapia sono infatti fondamentali le attività di tipo relazionale, ma con il propagarsi del virus a venire meno è proprio la rete sociale. I pazienti sono costretti a restare chiusi in casa, spesso soli o in compagnia di parenti non abituati a gestire la loro situazione. Ad alcune famiglie ben coscienti della dipendenza del proprio caro, se ne contrappongono infatti altre totalmente ignare. Non è semplice nemmeno portare avanti la terapia sostitutiva: il contatto con il paziente non può essere tanto frequente quanto in precedenza e questo obbliga ad affidare dosi di metadone che bastino per due settimane, invece che per soli tre giorni. “Le persone sono costrette ad autogestirsi,” spiega Mauro Falchetti, operatore dell’Unità di Strada della cooperativa Parsec a Roma, spiegando quanto sarebbe importante una somministrazione regolare, “ma in molti non ne sono in grado: chi cede all’impulso di consumare tutto subito rischia prima l’overdose, poi l’astinenza”.

Intanto Falchetti fa notare come dalla strada non sia sparito chi non ha dove andare: senzatetto, tossicodipendenti e altri ancora, che lui ogni sera cerca di assistere insieme alla sua squadra, scambiando due parole e fornendo siringhe e materiale sterile per la riduzione del danno. Si tratta di persone che spesso non sono nemmeno coscienti di cosa stia succedendo, per la mancanza di informazioni e a volte le difficoltà di comprendere l’italiano. Ecco perché risulta così importante la distribuzione di volantini in varie lingue, contenenti semplici indicazioni. Si tratta infatti, soprattutto, di persone vulnerabili, immunodepresse, che se ignorate potrebbero diventare vettori di contagio.

La realtà dei tossicodipendenti esiste e non sarà certo voltandosi dall’altra parte che si potrà risolvere il problema. “La reazione è stata purtroppo sempre scandalizzata, un insieme di repulsione verso chi appartiene alla categoria dei drogati e di condanna morale”, osserva con amarezza Riccardo Magi, parlamentare di +Europa. Lui e i radicali si battono da sempre per un nuovo approccio nei confronti delle sostanze stupefacenti, riassumibile in due parole: servizi e depenalizzazione. Bisognerebbe iniziare, a loro parere, potenziando ciò che già esiste e funziona, dando maggiori risorse ai Sert e a chi si occupa di riduzione del danno: i successi di questi sono infatti degni di nota, ma interessano ancora una minoranza troppo esigua tra la popolazione tossicodipendente per essere considerati soddisfacenti. Lo Stato dovrebbe capire che bisognerebbe per prima cosa sanare le cause che portano alla tossicodipendenza – la povertà, il degrado sociale, l’alienazione, l’emarginazione, i disagi psicologici – attraverso politiche sociali coraggiose. Infine, sostiene Magi, si dovrebbe capire che i disagi attuali sono in buona parte provocati da un periodo di proibizionismo fallimentare, e intraprendere con coraggio la via della depenalizzazione. Esistono delle proposte in commissione giustizia. Ma il governo si muove, purtroppo, in direzione opposta.

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