Chi, come me, si occupa di digital marketing dà molta più importanza ai “brand” rispetto agli altri, consulta LinkedIn il doppio di qualsiasi altra categoria professionale e parla della pubblicità come fosse filosofia, costruendo centinaia di slide in Power Point su quello che a chiunque altro potrebbe sembrare il nulla, o fuffa. La cosa curiosa però è che una volta fuori dal lavoro invece torniamo a essere consumatori identici a tutti gli altri. Sul lavoro parliamo di “Brand Equity”, mentre di fronte allo scaffale (o su Amazon) alla fine guardiamo il famoso value-for-price, il rapporto qualità-prezzo. Come tutti. Ci crediamo più consapevoli rispetto al mercato e alle tecniche di vendita, ma non è così. Ci sentiamo diversi (ma come accade per tutti è un semplice pregiudizio cognitivo) e allora ecco che i social media noi sì che li usiamo coscientemente: perché sappiamo come funziona la macchina. Eppure, poco fa ho aperto TikTok e quando ho rialzato lo sguardo era passata mezz’ora. Parliamo di 1.800 secondi, più di una puntata dei Griffin. Dove sono andati? Chiunque abbia il pollice opponibile e uno smartphone sa di cosa sto parlando. L’algoritmo di Tik Tok è ipnotico e ci tiene incollati al feed: con 2 miliardi di download e oltre 800 milioni di utenti attivi sta cambiando il consumo dei social media di un’intera generazione.
Nel libro Hooked: How to Build Habit-Forming Products del 2014 Nir Eyal già spiegava come costruire prodotti tecnologici che creino dipendenza. L’edizione italiana in copertina recita “Catturare i clienti”, la dice lunga sull’approccio e l’idea di fondo: i clienti (noi tutti) sono come pesci, con la tecnica giusta presto o tardi finiscono nelle reti. Classe 1980, dopo un MBA a Stanford Nir ha fondato una società specializzata nella pubblicazione di annunci su Facebook. Ha applicato la psicologia comportamentale sul design prodotto e concettualizzato un modello a “hook” che mirava appunto a costruire abitudine e assuefazione negli utenti, con un ciclo di stimolo-azione-ricompensa. Nelle parole di Edward Tufte citate nell’ultimo documentario sul tema – The Social Dilemma, su Netflix dal 9 settembre – “Ci sono solo due industrie che chiamano ‘users’ i loro clienti: il mercato delle droghe illegali e quello dei software”.
The Social Dilemma affronta il tema etico dietro al modello di business dei social media: le migliori menti della Silicon Valley al lavoro per creare dipendenze. Col duopolio Google-Facebook del mercato pubblicitario online, di fatto si è passati da un modello di interruzione pubblicitaria – sto guardando un programma in TV, mi becco lo spot sul prodotto – a un modello in cui il programma è il feed stesso (o la ricerca: per dirla con Google, il “search intent”) mentre è l’utente a costituire il prodotto. Gli algoritmi del feed ti tengono incollato allo schermo tramite un mix di contenuti suggeriti proprio per te e in mezzo, ogni tanto, ci ficcano contenuti sponsorizzati (ovvero le vecchie pubblicità) auto-regolandosi, imparando dai tuoi feedback, vendendo il tuo profilo comportamentale agli investitori pubblicitari.
The Social Dilemma affronta molto bene le questioni etiche e morali dietro a un modello di business basato sulla massimizzazione dei profitti da investimenti pubblicitari: l’algoritmo è costruito per quello e finisce per proporci non quello che è meglio per noi, ma ciò che più risponde agli obiettivi economici delle Big Tech. Tenerci incollati al feed dandoci contenuti (o risultati) che ci piacciono, creando un’assuefazione (il comportamento abitudinario del controllare lo smartphone ogni 30 secondi) che come esseri umani non riusciamo a moderare perché sfrutta reazioni fisiologiche di base come il rilascio di dopamina. Insomma l’algoritmo e l’intelligenza artificiale vincono sempre, è un confronto impari che tramite “rinforzi positivi” ci mostra contenuti “per noi”, facilitando la polarizzazione di idee e opinioni, la propagazione di fake news e populismi.
Quello che mi ha stupito recentemente – anche in The Social Dilemma – è l’assenza discussione intorno a TikTok, che non è come tutti gli altri social: il target 13-17 (circa il 30% degli utenti), l’utilizzo esclusivo del formato video, il feed estremamente personalizzato e basato sull’idea ossessiva di “nuovi contenuti per te”, il focus sull’esibizione di sé (e del proprio corpo) lo rendono un vero e proprio esperimento sociale. Ma chi lo sta monitorando, da dove viene?
Al centro di una guerra fredda informatica tra Stati Uniti e Cina, il collettivo Anonymous a luglio definiva TikTok uno spyware del governo cinese e consigliava di eliminare l’app immediatamente. TikTok in effetti è di proprietà della cinese ByteDance, multinazionale fondata dal classe 1983 Zhang Yiming – un passato in Microsoft – che vanta ricavi per circa 25 miliardi di dollari e un valore di mercato di oltre 100 miliardi. Se volete un confronto, ByteDance è 5 volte più grande di quanto non fosse Google alla stessa età. E tenete conto che Google è stata la startup con la crescita più rapida al mondo, fino a oggi.
Zhang Yiming è un personaggio brillante e la sua storia – per quel che ne sappiamo – fa riflettere. Nel 2011, convinto che il futuro fosse negli smartphone, concentra il suo lavoro sugli algoritmi di raccomandazione dei motori di ricerca. Il risultato nel 2012 è Toutiao (Today’s Headlines), la sua prima app virale in Cina, con un feed infinito di notizie basato sui gusti dedotti degli utenti. Toutiao in due anni arriva a oltre 13 milioni di utenti giornalieri. Nel settembre 2015 Zhang replica lo stesso algoritmo intelligente per i video e lancia Douyin. Con l’acquisizione, per 800 milioni di dollari, dell’app di sincronizzazione labiale lanciata a Shanghai Musical.ly – e la relativa base utenti dell’app negli Stati Uniti – ecco che nel 2017 TikTok fa il suo esordio.
Nel 2018, Pechino bandì alcune app di ByteDance e in particolare l’irriverente Neihan Duanzi. Zhang, in una lettera ufficiale di scuse, dichiarò “Non ci rendevamo conto che la tecnologia doveva essere guidata dai valori socialisti fondamentali”, affermando anche che l’app aveva un’implementazione “debole” del pensiero di Xi Jinping e promettendo che ByteDance avrebbe “ulteriormente approfondito la cooperazione” con il Partito comunista cinese per promuovere meglio le sue politiche. È stato poi molto aggressivo nei confronti dei critici americani, accusando pubblicamente Facebook di impegnarsi in una campagna “diffamatoria” per cacciare TikTok dagli Stati Uniti, eliminando un concorrente.
Nonostante il duro confronto con Zuckerberg – che con l’introduzione del formato Reel su Instagram replica le funzionalità del competitor, un po’ come già aveva fatto a suo tempo contro Snapchat – e quello altrettanto duro con l’amministrazione Trump, TikToK continua a crescere: l’app come detto è stata scaricata 2 miliardi di volte, ha oltre 800 milioni di utenti attivi giornalmente e negli Stati Uniti da gennaio 2018 è cresciuta dell’800% (non è un refuso), superando YouTube per ricavi e pareggiando Instagram per utenti attivi giornalieri. Ora tutti ne parlano, dai quotidiani ai magazine di settore.
In Italia alla fine del 2019 si registravano 6 milioni di utenti con una crescita in soli 3 mesi del 200% per download anche nel pubblico +25 e un aumento del 75% del tempo speso sulla piattaforma. Anche gli adolescenti italiani hanno quindi a disposizione una serie di funzionalità semplicissime per realizzare brevi video in pochissimo tempo, emulando celebrity e star, sfidandosi tra loro e anche monetizzando: un piano a obiettivi (invita un amico, guarda tot minuti di video, crea tot video) con reward a monete virtuali (rappresentati da rubini e diamanti) che possono successivamente essere trasformate in denaro reale da trasferire sul profilo PayPal di turno.
A parte volti noti (i soliti Vacchi, Ferragni, eccetera) i protagonisti alla fine sono sempre ragazzi giovani e giovanissimi. Una collezione di leggerezza e balletti, gag discutibilmente divertenti, trapper, malavitosi del weekend, ragazzini tatuati, teenager seminude, qua e là scorci di quel degrado tutto italiano fatto di ignoranza e vestiti firmati, rolex finti, auto truccate, pose e posizioni, qualche accenno alla politica, moltissimi Dom Pérignon, e poi troppi santoni della finanza di ogni età che spiegano come fare i soldi e come li hanno fatti loro, sempre che sia vero perché di solito, almeno fermandosi alle apparenze, non sembra.
Gabriele Bianchi, classe 1994, picchiatore di strada con vari precedenti, accusato dell’omicidio volontario di Willy Duarte insieme al fratello e altri delinquenti, ha ancora attivo un profilo TikTok niente male: 27mila follower, 84mila like. Il video in cui sempre insieme al fratello tirano di boxe a vuoto, a marzo scorso, con la track musicale del momento in sottofondo, gli aveva portato 2600 like. Poi ci sono gag che citano Uomini e Donne, primi piani e vestiti firmati (saranno veri?), gli immancabili allenamenti in palestra.
Tra le tante descrizioni del social alla fine un utente su Quora sintetizza bene, TikTok è così capace di creare dipendenza perché combina varietà (ogni volta c’è un contenuto diverso e inaspettato), brevità (clip brevissime e quindi rapidità di scorrimento) e facilità (niente di più facile che scorrere col pollice): le stesse caratteristiche di una slot machine. Le ultime stime dicono che giovanissimi (13-17 anni) e giovani (18-24) popolano la piattaforma per quasi il 70% del totale degli utenti. Su 6 milioni di iscritti totali in Italia (stime, in crescita accelerata), parliamo di oltre 4 milioni di ragazzi che usano quotidianamente i social media e in particolare TikTok.
Sono gli stessi che, secondo i dati Ocse, a scuola hanno competenze di lettura e di scienze inferiori a quelle che avevano i loro coetanei dieci anni fa. Uno studente su quattro non comprende ciò che legge, è analfabeta funzionale. Intervistato a fine 2019, lo storico Gianni Oliva tra i colpevoli di questa situazione inseriva anche lo smartphone: “C’è l’abitudine a leggere con gli occhi e non con la testa”, “In un telefonino c’è tutto ciò che l’umanità ha prodotto, solo che non abbiamo ancora imparato a usarlo. Accumuliamo notizie che non si trasformano in conoscenza”. Oggi i ragazzi si trovano in mano una piattaforma che crea dipendenza, ruba molto tempo, limita le capacità di concentrazione ed è ben poco trasparente, dato che non è chiaro dove finiscano i dati. Però sanno ballare.