Ecco com’è oggi la vita in un ospedale psichiatrico. In Svizzera ne esistono ancora. - THE VISION

Negli anni Settanta, il movimento antipsichiatrico italiano e la spinta politica di Franco Basaglia hanno raggiunto anche la Svizzera, eppure qui gli ospedali psichiatrici esistono ancora. I reparti però, a differenza di quanto ci si potrebbe immaginare, sono unità aperte, con rare eccezioni: tutti possono entrare, tutti possono uscire. Il parco che circonda le unità è interrotto da una lunga strada centrale, una linea retta su cui passano lentamente i mezzi di trasporto e si passeggia o si fa jogging. I camici bianchi dei medici e degli operatori sanitari svolazzano tra le tenute da jogging, gli animali al guinzaglio, i bastoni degli anziani, i pazienti seduti sulle panchine, quelli che se ne vanno in giro e basta. Non c’è nessun cancello e l’ospedale, suddiviso in edifici sparsi all’interno del parco, si trova in una zona periferica della città come storicamente accade agli ospedali psichiatrici.

Una signora porta a spasso i suoi cinque cani, tutte le mattine alle sette e cinquanta incrocia il vicolo che porta verso le Unités de Psychiatrie Communautaire (Unità di Psichiatria Comunitaria), i reparti in cui sono ospedalizzati i pazienti e le pazienti che, oltre a soffrire di una malattia in fase acuta, hanno bisogno di un supporto sociale e comunitario. L’obiettivo è la stabilizzazione psichica, una possibilmente rapida reintegrazione nel tessuto sociale e una continuità di cure garantita in ambito ambulatoriale in pieno centro città. Non ci si riesce ogni volta, ma ci si prova sempre. Non si possono scavalcare tutti gli ostacoli del cervello. È un terreno di cui sappiamo così tanto, e allo stesso tempo ancora poco. George L. Engel, noto psichiatra statunitense, sul finire degli anni Settanta propone il modello biopsicosociale per spiegare la malattia come frutto di una predisposizione genetica che interagisce con fattori sociali, in gran parte indipendenti dall’individuo. Quindi la neurobiologia non è tutto. L’essere impotente è una delle capacità negative descritte da Adam Phillips, psicanalista inglese che riprendendo le parole del poeta John Keats definisce “negative capability” il saper “stare nell’incertezza, nel mistero e nel dubbio senza correre con agitazione verso i fatti e la ragione”. Capacità essenziali, quelle negative, per qualunque terapeuta o persona a contatto con i pazienti, alla fine utili a ognuno di noi nell’interazione con l’altro. 

Adam Phillips

Nell’Unità di Psichiatria Comunitaria, la riunione del mattino inizia spesso così: il Sig. Grivet è in fuga, Marini è in fuga, la Sig.ra Morand è in fuga. Per lei è stata lanciata una ricerca urgente. Costanzo era in fuga, poi è rientrato verso le due stanotte. Voleva rinfrescarsi le idee, ha detto. Ci siamo un po’ preoccupati, dicono gli infermieri, “fuori fa freddo e non è da lui prendere e uscire così la sera, oggi sarebbe bene fare una chiacchierata con il medico”. Ché la notte di medico ce n’è uno solo, per tutto l’ospedale, c’è tempo solo per le urgenze. E comunque, la notte non è buona per parlare di certe cose.

Si dice fuga, si intende che il paziente non ha avvisato di essersene andato e non si trova in reparto. L’unità aperta è il diritto del malato all’autodeterminazione e un continuo esercizio all’alleanza terapeutica. Santa pazienza e santo spazientirsi. È la seconda volta che la polizia accompagna in reparto la signora ricoverata qualche giorno fa per un disturbo delirante di persecuzione. Quando esce senza avvisare se ne corre in qualche negozio a raccattare scarpe da ginnastica e vestiti comodi. Li ruba. Da qualche mese è in fuga psicotica per mezza Europa, è convinta la vogliano uccidere, ha toccato le principali capitali, poi l’arrivo in Svizzera. Dal secondo giorno di ospedalizzazione non parla più la sua lingua madre, usa solo lo spagnolo e sostiene di essere figlia dei reali. Il suo accento la tradisce. Non vi erano, all’inizio, criteri di pericolosità per se stessa o per gli altri che potessero indicare la necessità di una misura di limitazione della libertà. La contenzione, quando necessaria, si chiama “chambre de soin intensif” (camera di isolamento), è una misura temporanea. Nessuna cintura al letto. Una stanza sicura con una grande finestra, un bagno e un materasso, colazione, pranzo e cena in camera. Solo che è chiusa a chiave. Un trattamento farmacologico d’urgenza è proposto per bocca, spesso in caso di agitazione psicomotoria, una trattativa che a volte appare infinita alla ricerca di un dialogo, dell’accettazione di uno stato clinico alterato che non sempre la persona è in grado di riconoscere. Laddove il dialogo proprio non è possibile, il trattamento è somministrato in intramuscolo, su indicazione, e in questo caso sì, contro la volontà del paziente. Il protocollo in questi casi però è molto preciso: il o la paziente può sempre fare ricorso alla misura con un’udienza e una decisione stabilita da un giudice. Nella camera a porte chiuse sono molteplici i passaggi degli infermieri e del medico durante la giornata e in realtà sono anche concesse delle pause all’esterno in funzione dello stato clinico del paziente. Per chi fuma una soluzione si trova sempre.

La possibilità di adottare misure di privazione della libertà, come la camera di isolamento, che mettano al primo posto la tutela della salute del malato nel rispetto della dignità e dei diritti umani richiede risorse apparentemente reperibili solo in sistemi sanitari de facto privati (come quello svizzero), e sembra invece ancora difficilmente attuabile in Italia. In realtà, misure di questo tipo possono esistere anche in sistemi sanitari pubblici, come il Servizio sanitario nazionale. Previa allocazione di risorse: strutture adatte e personale. Se in Italia l’ospedalizzazione contro la volontà ha indicazioni molto simili a quelle svizzere, l’agitazione psicomotoria è invece gestita con contenzione al letto, spesso in camerate, con gli occhi di tutti addosso. La culla dell’antipsichiatria è un sogno in parte interrotto. C’è qualcosa che ancora non va.

A seguire la prima riunione ci sono i colloqui del mattino, i nuovi ricoveri, i trattamenti in urgenza per chi si trova in un momento di crisi. Quel dover e poter scavare nella storia del malato per capire meglio i sintomi, metterli nel contesto di una vita che oltrepassa queste unità. I sintomi e i segni sono una cartina al tornasole di qualcosa che sta al di fuori di qui e di cui non si può sempre individuare l’origine. L’essere perduti è un’altra delle capacità negative di Phillips.

Il Signor Herrera ha 35 anni, è al suo terzo giorno di ospedalizzazione per uno stato di catatonia nel contesto di una schizofrenia diagnosticata ormai più di cinque anni fa. La catatonia può manifestarsi in varie forme. Nel suo caso si tratta di uno stato di stupore e indifferenza al mondo circostante. Resta sdraiato tutto il tempo, immobile, inaccessibile, inespressivo. Non mangia, beve pochissimo. Assume posizioni di negativismo e oppositività. Se gli si prende il braccio per muovere l’articolazione, mostra una leggera resistenza e poi durante la visita il braccio se non riposto nella posizione di partenza resta sollevato: una flessibilità cerea. Sono situazioni rare, ma le benzodiazepine cominciano a fare effetto. Oggi ci ha guardato negli occhi e per la prima volta ha risposto a una domanda, un primo segnale di miglioramento. Vuoi un succo di mela? Sì.

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Camminando nel corridoio capita di incontrare la Signora Pascal. Capita, perché per la maggior parte del tempo se ne sta nella sua stanza, non vuole vedere nessuno. Rifiuta tutto. Tranne il metadone e i suoi ansiolitici. È una signora sulla cinquantina, molto conosciuta per le sue innumerevoli ospedalizzazioni. Subite, dice lei. Necessarie, rispondono gli infermieri che l’hanno seguita negli ultimi vent’anni. Sorride con l’unico incisivo che le resta, ha perso la dentiera nell’autobus qualche mese fa e non ne vuole un’altra. Il suo senso dell’umorismo pungente è quanto di più sano si possa ascoltare in una paziente che contiene in sé tutto il manuale diagnostico di psichiatria. È complessa. Una dipendenza da oppiacei e cocaina, dipendenza da benzodiazepine, un disturbo schizo-affettivo. Niente alcolici, preferisce il tè perché è più “protestante”, dice che sono i cattolici a bere vino, i protestanti no. Il primo giorno in reparto l’ho vista camminare in fondo al corridoio, a una ventina di metri da me sbottando “Nonono” a più riprese, non voleva un medico donna. “Lei è religiosa?”, mi chiede per testarmi. Non so come rispondere, vorrei dire in modo secco che non è rilevante, ma il primo giorno si è deboli, allora borbotto un “Non lo so”. Mi fissa per una manciata di secondi, l’espressione disgustata che non posso decifrare distintamente al di sotto della mascherina. La sento. “Lo sapevo,” ribatte, “siete tutti troppo scienziati qui dentro”. Si allontana, riprendendo a camminare per il corridoio. Il mio turno è finito.

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