Nel 2003, in un post pubblicato sul suo sito But you don’t look sick! (“Ma non sembri malata”), la blogger statunitense Christine Miserandino descrisse la cosiddetta “teoria dei cucchiai” (spoon theory), una metafora da lei elaborata per spiegare a un’amica che cosa significasse convivere con una malattia cronica – nel suo caso il lupus. “Ho raccolto dodici cucchiai”, scrive Miserandino, “li ho dati alla mia amica e le ho detto: Ecco, ora hai il lupus”. Ogni cucchiaio, spiega Miserandino, rappresenta un’unità di energia finita; ogni mattina, chi è in salute può disporne di una scorta illimitata, mentre chi è malato deve pianificare la propria giornata, sapendo esattamente con quanti “cucchiai” sta iniziando. Ogni azione quotidiana, comprese le più semplici – come alzarsi dal letto, lavarsi, decidere cosa indossare – implica il sacrificio di uno o più “cucchiai” ed esaurirli significa dover rinunciare a qualsiasi altra attività.
La teoria dei cucchiai si applica anche ad alcuni disturbi mentali, come la depressione, che costringono chi ne soffre a fare i conti, ogni giorno, con la quantità di energia a propria disposizione, da centellinare per poter portare a termine almeno una parte delle attività in programma. La depressione, infatti, pone un limite invalicabile al numero di persone con le quali potrai interagire, la quantità di spostamenti che sarai in grado di fare, i contesti sociali nei quali ti potrai immergere senza lasciar intendere alle persone intorno a te che il solo fatto di essere lì è sufficiente a dar fondo alle tue riserve di energia quotidiana. Andare al lavoro, all’Università, persino a fare la spesa con la depressione è come uscire di casa con la batteria del cellulare quasi scarica e una decina di telefonate da fare. Ti chiedi fino a che punto resisterai prima di arrivare a zero.
Tutto ciò non appartiene, però, all’immaginario collettivo della malattia, dominato da quell’idea univoca e fuorviante per cui depressione implica ritiro, apatia, lacrime e sguardo perso nel vuoto e se non soddisfi in ogni momento queste caratteristiche, se ogni tanto ti azzardi a sacrificare tutti i “cucchiai” della tua giornata in cambio di una passeggiata o di un aperitivo, se addirittura ti mostri sorridente, “Allora lo vedi che è tutto nella testa?” ti diranno le persone intorno a te. Non importa se nel frattempo stai solo desiderando di andare a letto il prima possibile, ricacciando indietro le lacrime, tentando di respirare a un ritmo più o meno regolare o pregando affinché il tuo viso assuma un’espressione almeno parzialmente adeguata al contesto: ciò che importa è l’efficacia prestativa dei tuoi sforzi, è incarnare il ruolo giusto, quello più confondibile, coerente con quanto ci si aspetterebbe da una persona “sana” perché l’alternativa è conformarsi a quanto ci si aspetterebbe da una persona “malata”, ma tu non sei solo quello e fai il possibile per dimostrarlo – agli altri, prima che a te stessa.
Se per la società depressione è sinonimo di tristezza e tu non sembri triste, allora per il mondo non sarai depressa; anche se tu lo fossi, d’altra parte, l’invito a farti una risata, un bicchiere o una scopata è sempre dietro l’angolo, perché la tristezza si combatte così: distraendosi. Allo stesso tempo, che tu possa trovare in alcune attività – come camminare, fare sport o guardare un film – una precaria valvola di sfogo con cui esorcizzare – seppur per solo un’ora – il tuo malessere è fuori discussione, perché sarebbe in contrasto con la totale svogliatezza che, in quanto persona depressa, dovresti manifestare. Nel momento in cui l’apatia prenderà il sopravvento, però, non andrai comunque bene, perché ti sarai adeguata alle attese dei tuoi interlocutori, ma avrai fallito nel soddisfare la loro richiesta di “reagire” al dolore.
Le persone con cui interagisci – specialmente se l’interazione avviene in un contesto pubblico e ancor di più se si presume che tu ti debba divertire – non sanno che in quel momento non stanno parlando con te, ma con la maschera che indossi per le occasioni speciali. La vera “te” ti sta guardando, poco distante, assistendo a quella messinscena caotica come una terza esclusa, aspettando che l’ultima unità di energia a disposizione si esaurisca per poter tornare a casa. La tua non è finzione o ipocrisia: daresti qualsiasi cosa per un po’ di autenticità, ma comportarsi in modo autentico in quel momento implicherebbe non essere lì, bensì rannicchiata sul letto a occhi chiusi o seduta sul divano ad aspettare sera. Le esperienze dissociative di questo tipo ti consumano, aggiungono alla tua già frantumata autostima il senso di colpa legato alla consapevolezza di non essere completamente sincera con persone che, da te, se lo aspetterebbero. A volte, però, disconnettersi temporaneamente dal mondo è l’unica strategia possibile per affrontarlo.
La rappresentazione stereotipica della depressione è, come tutti gli stereotipi, imprecisa e parziale, frutto della semplificazione ai limiti della banalizzazione di una patologia complessa ed eterogenea per tipo, frequenza e intensità dei sintomi – generalmente riconducibili alla percezione di sé come spettatori passivi della propria esistenza, nei confronti della quale sembra, ormai, quasi impossibile provare interesse. Fra le cause della depressione rientrano fattori psicologici, sociali e ambientali, ma anche organici, principalmente legati a un abbassamento dei livelli di serotonina e dopamina nel cervello (neurotrasmettitori con un ruolo importante nella motivazione, nella regolazione dell’umore e nella risposta allo stress). Depressione non è, quindi, alzarsi dal letto con il piede sbagliato, non è pigrizia, e non riguarda nemmeno “solo” la sfera emotiva, ma è un disturbo che, insieme alla mente, coinvolge anche il corpo. Fra i sintomi fisici possono rientrare, per esempio, disturbi del sonno, della digestione o della sfera sessuale, mancanza di energia, dolori o alterazioni del ciclo mestruale. Ogni individuo può reagire (o non reagire) in modi più o meno espliciti, a seconda della sua personalità, dell’origine del disturbo e dell’ambiente in cui vive. Certo è che, nella stragrande maggioranza dei casi, la realtà smentisce le aspettative popolari.
Crescere in una società in cui avere una malattia mentale semplicemente non rappresenta una possibilità – fingere che la depressione non esista o ricondurla a un immaginario immediatamente riconoscibile – consente di ridurre al minimo la complessità degli schemi con cui interpretiamo il mondo, insegna alle persone che ne soffrono a vergognarsene e a tutte le altre a fraintenderla o ad averne paura. L’assenza della depressione dal discorso pubblico, unita allo stigma sociale che la circonda, si traduce così in una netta diminuzione delle richieste di aiuto e, quindi, della possibilità di curarsi, soprattutto quando la terapia implica anche l’assunzione di farmaci. Se da un lato, infatti, le conseguenze psicologiche della pandemia hanno contribuito ad accrescere, anche nella popolazione generale, la dignità attribuita al concetto di salute mentale (e a chi se ne occupa di professione), lo stesso non vale sempre per gli psicofarmaci, verso cui ancora in molti ambienti vige un’aura di sospetto e scetticismo.
Riprendendo la teoria dei cucchiai, nelle persone depresse il ruolo dei farmaci è quello di rallentare l’esaurimento delle riserve di energia della giornata, quel tanto che basta per iniziare un’attività senza lasciarla a metà o uscire di casa senza apparire eccessivamente disadattati. Da un punto di vista biochimico gli antidepressivi agiscono in modo da aumentare, nel cervello, la disponibilità dei neurotrasmettitori coinvolti nella malattia, sollecitando i neuroni a produrne di più o inibendone il riassorbimento. Nei fatti, ciò si traduce in più energia (mentale e fisica) da dedicare non solo alle proprie occupazioni quotidiane, ma anche al costante monitoraggio dei propri pensieri, nell’estenuante tentativo di non darla vinta a quell’istinto che ti suggerirebbe di non provarci nemmeno perché, come la malattia ti ha insegnato, sacrificare più “cucchiai” oggi significa averne meno a cui attingere domani. Dopo mesi spesi nel tentativo di tenere insieme i propri pezzi, infatti, il rischio è quello di abituarsi a sopravvivere, convincendosi di non essere in grado di fare altro – figuriamoci farlo con passione o, addirittura, ricavarne piacere. Guarire significa ricordarlo, oppure impararlo da capo.
Non è facile abbandonare certezze che, seppur illogiche o completamente false, donano l’illusione di sentirsi protette da ciò che non conoscono – e la malattia mentale rientra a pieno titolo in questa categoria. Impegnarsi a sospendere il giudizio, accogliere l’esperienza di chi vive in prima persona condizioni diverse dalla propria, abbattere una volta per tutte la nostra presuntuosa illusione di vivere in un mondo allineato con il nostro immaginario e sostituirla con l’empatia, la presenza e l’ascolto, è un atto di cura fondamentale nei confronti del prossimo, ma anche di noi stessi. La depressione è una malattia, non una colpa, né tantomeno una scelta, e qualsiasi essere umano, al di là delle proprie condizioni di salute del momento, desidererebbe appartenere a una società in cui, se starà male, non verrà respinto, né frainteso, né biasimato per questo.