Da piccolo ero manesco con gli altri bambini e non volevo stare a scuola. A volte scappavo, uscivo, girovagavo per strada. Avevo uno stato d’animo teso e tanta adrenalina addosso e questo mi portava ad allontanarmi e mettermi in pericolo.
A casa non ero sereno. I miei genitori naturali, purtroppo, sono nati entrambi sordomuti e per parlare con me e mio fratello utilizzavano quello che comunemente si chiama Lis, la lingua dei segni. Io non la conoscevo, nessuno me l’aveva insegnata. Non la conosco tutt’ora, a dire il vero. Per comunicare avevamo trovato un modo tutto nostro e vivevamo in un mondo in cui ognuno di noi, bene o male, si capiva. Però non era abbastanza. Mia mamma, a un certo punto, ha chiesto aiuto. La situazione era diventata troppo complessa e lei non era in grado di gestirla, mentre mio padre è sempre stato molto assente. Io ero solo un bambino, non capivo cosa stesse succedendo. Dentro di me, però, sapevo che c’era qualcosa che non andava.
Ricordo che un giorno sono arrivati gli assistenti sociali a casa nostra. Mi hanno chiesto di salire sull’autobus e io l’ho fatto. Guardando fuori dal finestrino, ho salutato i miei nonni con la manina, ma ancora non avevo capito dove mi stavano portando. Avevo 4 o 5 anni la prima volta che sono stato allontanato dai miei genitori naturali e non è stato facile. Insieme a mio fratello sono stato portato in una comunità.
La vita lì era strana. Da un lato era bello, perché ho avuto la fortuna di incontrare degli educatori che mi seguivano costantemente. Nella testa di un ragazzino è possibile che questo diventi un problema e che inizi a ribellarsi e rifiutare gli insegnamenti o le raccomandazioni. Per me non è stato così: è scattato qualcosa in me, non so bene cosa, ma ho capito che dovevo ascoltare. Nonostante fossi un casinista sempre con la testa tra le nuvole, mi son detto “Credi in quello che ti dicono”. Questo mi ha salvato. Per mio fratello non è stato così.
Una volta compiuta la maggiore età lui ha deciso di trasferirsi di nuovo a casa di mia mamma. È stato uno sbaglio enorme. Lei non riusciva a seguirlo e nella mia famiglia non c’è mai stata una stabilità economica o relazionale sufficiente. Così mio fratello ha preso una brutta strada, quella della droga, che l’ha portato dove è oggi, in una comunità psichiatrica dove è in cura per un problema cognitivo aggravato dalle sostanze chimiche.
Dopo un paio d’anni di affidamento con i miei zii, io invece sono tornato in comunità. Non che sia stato facile. Certo, c’erano gli educatori e gli assistenti sociali con cui provare a costruire un rapporto, ma era tutto molto meccanico. C’era il momento in cui dovevi parlare e allora ti portavano in una stanza e ti chiedevano cosa avessi fatto, come stesse andando, cosa pensassi o provassi. Lo facevano per il mio bene, ma sembrava un interrogatorio. Anche il rapporto con gli altri bambini non era facile. Lì dentro era come un ghetto. Il motto era “Se tu mi porti rispetto, io ti porto rispetto”. C’erano ragazzi di 16, 17 anni e altri che avevano la mia età. Un giorno, quando avevo 9 anni, un ragazzo molto più grande di me venne da me e mi disse “Io stanotte ti ammazzo.” Gli avevo fatto un semplice scherzo, nascondendo un gioco della Play sopra l’armadio, però lui sembrava serio e io ricordo che passai tutta la notte sotto al letto, nel panico più totale.
Alle elementari facevo fatica perché mi sembrava di non capire niente. Mi scocciava fare i compiti, mi arrabbiavo se non risolvevo immediatamente i problemi o se le operazioni di matematica non venivano. Per questo me la prendevo con me stesso e con gli altri, picchiavo gli altri bambini o rompevo le cose.
Poi ho conosciuto S. e A., i miei genitori affidatari. Loro non possono avere figli e quindi hanno deciso di prendere un ragazzo in affidamento. Li ho incontrati per la prima volta in comunità, avevo 9 anni. Un giorno gli educatori mi hanno preso da parte e mi hanno detto che sarebbe venuto qualcuno a trovarmi. Io ero molto curioso e continuavo a chiedere “Chi sono?” Dopo la prima volta sono venuti una seconda, una terza, una quarta e così via. Mi venivano a trovare a mi portavano in giro per la mia città, nei parchi per una passeggiata, nei musei o a mangiare un gelato. Sapevo che volevano prendere in affido un bambino o una bambina. Sapevo che la scelta sarebbe ricaduta su di me o su V., un’altra ragazza della comunità. Ricordo che inizialmente erano più propensi a prendere lei, almeno così mi sembrava. Una sera, però, eravamo seduti per cena e io, quasi per ridere, ho chiesto a uno degli educatori “Posso andare a vivere con loro?”. Loro mi hanno dato il telefono in mano e mi hanno detto “Dai, chiamali”. E così ho fatto, gliel’ho detto e loro mi hanno risposto che avevano già questa intenzione. Così mi sono trasferito da loro.
È stata una sensazione molto bella, ero contentissimo. Mi ricordo le prime notti che ho passato con loro in inverno. Mi avevano comprato un piumone con i pupazzi disegnati e io mi ci sono affezionato tantissimo. Ci tenevo così tanto che ogni mattina aggiustavo il letto in maniera quasi maniacale, facendo attenzione a ogni minimo dettaglio. Guai se la coperta pendeva un po’ a destra o un po’ a sinistra. Era la prima volta che avevo una camera tutta mia: avevo 9 anni e da loro mi sono sentito accolto.
All’inizio ero nervoso, ma penso sia normale per un bambino. Però i miei genitori affidatari sono due persone splendide e mi hanno sempre sostenuto, senza mai farmi mancare nulla. Io li ringrazio ancora perché mi hanno dato un’opportunità. Chiedo sempre consiglio a loro prima di prendere una decisione. Per questo l’affido è importante, perché ti può tirare fuori da un contesto che magari è pericoloso e che può portarti sulla cattiva strada. Non necessariamente per colpa dei tuoi genitori naturali, ma a volte perché semplicemente non riescono a prendersi cura di te, per i motivi più diversi. È vero, non è facile: quando ti portano via fisicamente dalla tua famiglia di origine è abbastanza traumatico. Però, maturando e invecchiando ci rifletti, elabori il distacco e capisci che può essere un bene. Certo, non per tutti è così e molti non lo accettano, continuano a ribellarsi e a scappare per tornare dai genitori. Ho visto ragazzi scavalcare i muri di cinta per tornare in famiglia, come il mio stesso fratello che non ha mai accettato di essere dato in affido. Non voglio parlare per loro, ma solo per me ed è così che dovrebbero fare tutti. Tendiamo sempre a parlare senza conoscere e questo non va bene, specialmente in situazioni così delicate. È importante ascoltare i bambini, i ragazzi e le loro storie, prima di giudicarle.
Ora ho 23 anni, ho finito la scuola alberghiera e lavorato in Italia e all’estero in ristoranti e alberghi di lusso. Sono anche membro di un’associazione che si occupa di aiutare i ragazzi che hanno vissuto esperienze fuori famiglia, di adozione o affido. È bello ascoltare le loro storie, relazionarsi con chi magari viene da altri continenti e ha viaggiato per mesi, magari a piedi o stipato con altri dentro un furgone, per arrivare in Italia alla ricerca di una vita migliore. Uno dei miei più cari amici, per esempio, arriva dal Nepal: lui ha vissuto davvero la povertà e, anche se le nostre culture sono molto diverse, la nostra esperienza è simile e ci permette di comunicare. Sono passati anni dall’ultima volta in cui sono entrato in comunità, ma ogni volta che sento qualcuno che ne parla, magari qualcuno che ci vive ancora, mi smuove qualcosa dentro. Penso che bisognerebbe ascoltare di più i ragazzi. E anche raccontarsi: è bello anche poter aiutare gli altri con la tua storia.
Mio papà solo ora, con il passare degli anni, sembra che si stia accorgendo di avere un figlio in una comunità psichiatrica e un altro che sta diventando grande. Lui si è distaccato per scelta e si è sempre fatto vivo solo quando gli faceva comodo. Mia mamma la vado a trovare ogni tanto. Lei sta bene, è seguita dagli assistenti sociali perché non riesce ad auto gestirsi. Può sembrare banale, ma anche prepararsi un pranzo o fare la spesa è un’impresa per lei. Per mia scelta non ho rotto i rapporti con la mia famiglia di origine. Ho la fortuna di aver trovato due persone che mi hanno cambiato la vita, ma non mi devo dimenticare che esiste l’altra faccia della medaglia. Mio padre, mia madre, mio fratello resteranno per sempre mio padre, mia madre, mio fratello. Però mi sono anche emancipato, sto tracciando una mia strada e non tornerò mai indietro. Ho la fortuna di poter guardare avanti e non tutti ce l’hanno.