Stavo da poco con il mio ragazzo, era fine maggio, si avvicinavano le vacanze e soprattutto gli esami all’università. Quell’anno c’era anche la maturità di mia sorella, in casa si sentiva un po’ di nervosismo, io mi ero beccata anche una tonsillite ed ero reduce da una confezione di antibiotici. Le ultime mestruazioni mi erano sembrate strane, non solo molto leggere, ma anche brevi. Ma come sempre ero tranquilla: le avevo avute, e anche per questo mese ero a posto, non c’era nulla di cui preoccuparsi, a volte il ciclo fa scherzi strani. Poi cominciai a stare male e a vomitare qualsiasi cosa mangiassi. Una volta mi capitò anche mentre ero fuori con degli amici: vomitai del riso in bianco in mezzo alla piazza del paese. Era difficile nasconderlo e tutti mi chiedevano cosa avessi, se stessi male. Io lo sapevo perfettamente, me lo sentivo, ma cercavo di ignorarlo: ero incinta e non volevo.
La cosa che mi faceva stare più male è che avevo questi conati quando vedevo il mio ragazzo. Non so se fossero gli ormoni o semplice suggestione, ma ogni cosa annusassi mi stimolava la nausea. E in più il mio olfatto era diventato particolarmente efficace. Avevo praticamente smesso di mangiare per paura di stare male in seguito. La sera del mio compleanno tutti mi facevano complimenti del tipo “Ma come sei bella! Hai fatto qualcosa? La tua pelle è più luminosa”, come in quelle leggende metropolitane secondo cui le persone capiscono se sei incinta guardandoti negli occhi. Temevo che la gente si accorgesse di quello che io sapevo già, ma che negavo a me stessa. C’era la nausea, dimagrivo a vista d’occhio perché non assimilavo niente, cominciavo a preoccuparmi. Però le mestruazioni c’erano state.
Così mi decisi a fare il test: positivo, ma tu vatti a fidare di questi test di farmacia. Così feci anche le analisi del sangue. Una volta ricevuta la risposta, la lessi quattro volte. Sapevo benissimo cosa c’era scritto, ma non volevo capire. Tornai indietro a chiedere: “Mi scusi, io non le so leggere. Cosa significa?”. “Signorina, lei è incinta”.
Incinta, io? Che già a dodici anni mi ero fatta la solenne promessa di non avere mai figli? Avevo ventitré anni, stavo finendo l’università, vivevo coi miei in un paesino in provincia di Reggio Calabria ed ero pronta a dare gli ultimi esami per poi partire, se per Milano o per Londra non lo avevo ancora deciso. Per di più stavo con il mio ragazzo da poco tempo, anche se poi lui si è rivelato il mio compagno di vita e tutt’ora stiamo insieme. La genitorialità è qualcosa di complesso che ti cambia la vita per sempre. Non per forza in positivo o in negativo, ma è comunque qualcosa che fa saltare tutti i tuoi piani, diversi da persona a persona. Ora, a 45 anni, non ho avuto figli e questa è stata la mia prima e unica esperienza con una gravidanza. Ammetto che mi piacciono molto i bambini, ma è stato un processo graduale: ho capito che potevo farmi piacere i bambini senza sentirmi in dovere di averli. Un concetto simile alla classica domanda che ti fanno al servizio militare: “Ti piacciono i fiori?” “Sì”, “Vuoi aprire un negozio di fiori?” “No”. Io non volevo nessun negozio di fiori, volevo solo continuare a vivere con serenità la vita che stavo facendo prima.
E con la stessa serenità presi la mia decisione. Non ho mai avuto dubbi o ripensamenti, ma il sentimento peggiore che ho provato a quel tempo è stato senza dubbio l’ansia: l’ansia di non farcela in tempo. Come ho detto prima, vivevo con i miei genitori in provincia di Reggio Calabria, in un piccolo paese dove tutti conoscevano tutti. Non volevo che i miei lo venissero a sapere, perché sapevo che avrei dato loro un dispiacere. Non potevo certamente andare dal medico di famiglia, che era tra l’altro un grande amico di mio padre. Così andai all’ospedale, quando erano ormai passati quasi due mesi dal concepimento. Se qualcosa fosse andato storto, sarei finita decisamente nei casini. A essere sincera, non avevo pensato a un piano B perché dentro di me ero talmente convinta che tutto si sarebbe risolto che non mi sono nemmeno posta il problema di potermi trovare di fronte un obiettore.
Fortunatamente, non lo trovai. Quando feci la prima visita con il ginecologo non mi sentii giudicata, anzi. Ero io, col senno di poi, a cercare una giustificazione di fronte a lui che non me ne stava chiedendo nessuna. La prima cosa che mi venne in mente furono gli antibiotici. Non so perché gli dissi che negli ultimi mesi li avevo dovuti prendere, forse sperando che mi dicesse che avrebbero causato una qualche malformazione che avrebbe reso necessario un aborto terapeutico. Lui in realtà non ha battuto ciglio e sapeva perfettamente che io cercavo un’interruzione di gravidanza volontaria, che ero rimasta incinta e non volevo tenerlo. Non gli serviva altro per firmare il certificato. Io invece ero convinta che una scusa sarebbe stata più forte della mia volontà, che ero convinta non mi sarebbe bastata da sola. Mi sbagliavo, ma all’epoca non lo sapevo. Ci sono arrivata molto tempo dopo.
Ho fatto l’operazione a luglio e faceva caldissimo. Non ricordo se la feci in una sala operatoria o in una sala parto, ricordo solo che mi accompagnò il mio fidanzato e che c’erano molte altre donne che aspettavano. L’anestesista mi mise la mascherina e durante il conto alla rovescia un pensiero mi attraversò la mente: “E se mi succede qualcosa? E se non mi sveglio e devono chiamare i miei genitori?” Neanche il tempo di farmi prendere dal panico, che mi ero addormentata. Il ricordo di quello che successe dopo è molto confuso. Mentre uscivo dalla sala dove mi avevano operata ebbi un momento di lucidità quando sentii il mio ragazzo vicino a me. Gli chiesi: “Era maschio o femmina?” Una domanda abbastanza scema, non so nemmeno perché glielo chiesi, forse ero ancora intontita dall’anestesia, anche perché ovviamente al secondo mese è impossibile saperlo. Crollai senza sentire la sua risposta.
Quando mi svegliai – per davvero questa volta – stavo vomitando, una delle mie occupazioni principali negli ultimi mesi. Ma stavo anche piangendo, lacrime non di tristezza, ma di sollievo. Era finito quello che per me era stato un incubo: la vita poteva ricominciare. “Sono viva,” pensai guardando il mio compagno. Lui non aveva mai messo in dubbio la mia scelta e non mi aveva mai fatto pressioni di alcun tipo. Anche se stavamo insieme da pochissimo e quando gli avevo detto della gravidanza era rimasto sconvolto almeno quanto me, non si è mai intromesso nella mia decisione, perché sapeva che quella scelta avrebbe cambiato prima la mia vita, che la sua.
Non c’è stato alcun trauma, una parola che odio. Non c’è stata nemmeno sofferenza, che capisco profondamente possa esserci in una donna che decide di fare un’interruzione volontaria di gravidanza. Non pretendo che la mia esperienza valga per tutte, ma non voglio nemmeno il contrario: non ho commesso un peccato né un crimine, e non mi sento in colpa. Certo, è stato un evento importante, e come per ogni cosa importante, che sia in positivo o in negativo, acquisisci esperienza, impari. Ma il ricordo del mio aborto non mi tormenta, anzi, non ci penso quasi mai. È una cosa che è successa ed è rimasta lì. Paradossalmente sta riemergendo adesso che sento che questo diritto è sotto attacco, quando sento parlare di aborto solo come una cosa di cui pentirsi di fronte agli altri o a Dio. So che molte donne si sono pentite, e mi dispiace molto per loro. Io no, io voglio la mia vita e voglio essere lasciata in pace da chi la pensa diversamente da me.
Non mi sono chiesta nemmeno cosa sarebbe stato della mia vita se avessi deciso di tenerlo. Ci ho riflettuto prima di abortire, ma pensavo solo a quanto la mia vita sarebbe stata sconvolta. Anche questa, come molte altre domande, contribuisce al peso che è sempre la donna a doversi sobbarcare, insieme a quella narrazione a senso unico che la vuole incapace di prendere una decisione senza pentirsene. La mia è stata una scelta, forse minoritaria, ma va comunque rispettata, così come io rispetto una donna che decide di non interrompere la gravidanza.
Qualche tempo fa ho avuto di nuovo un ritardo importante. Ero terrorizzata all’idea di essere nuovamente incinta, anche ora che sono più adulta e la mia vita è meno incerta. Ho pensato che questa volta, rispetto a venti anni fa, forse sarebbe stato più difficile trovare un medico per abortire, anche se ora vivo in una grande città e non più in provincia di Reggio Calabria. Il giorno dopo il test di gravidanza, negativo, mi arrivarono le mestruazioni. Ero nel panico solo al pensiero di dover ripetere la cosa da capo, di dover vivere altri tre mesi di ansia e incertezza. Forse oggi noi donne abbiamo abbassato la guardia e pensiamo che quello dell’aborto sia un diritto al sicuro, ormai quasi scontato. Ma non è così. Vedo che sempre più spesso i fatti medici, oggettivi, vengono travisati, per ignoranza e per calcolo. Ad esempio vedo che sempre più persone parlano di bambino e non di embrione: è un fatto che non va sottovalutato, perché pensare di “abortire un bambino” è ben diverso dalla possibilità di una donna di scegliere per sé. Si fa leva sulla pietà per aggirare la tua volontà, quasi come se il corpo non fosse il tuo, ma degli altri che decidono se sei una brava donna o meno perché hai interrotto una gravidanza, non ti sei sposata e non hai avuto figli. Perché nessuno fa queste domande agli uomini?
L’aborto è stato un puntino nella mia timeline, un evento che mi ha segnata perché mi ha lasciata libera di scegliere per me, per la mia vita. Ne ho parlato con qualcuno in questi anni, con la mia analista, con un paio di amiche e con mia sorella. Nessuna di loro mi ha giudicata e io mi sono sentita liberata di un peso. Non del peso di aver abortito, ma del peso di poterlo dire a qualcuno senza essere considerata un’assassina.