Lo scorso gennaio, Flavio Briatore, il noto imprenditore famoso per i suoi locali di lusso in cui bazzicano frequentatori di spicco come Daniela Santanchè, su Instagram – dove conta più di settecentomila follower – ha postato una foto in cui appare una cartina dell’Africa e al centro, sovrapposta, un’immagine dell’Italia in rosso. La didascalia dice: “Forse così sarà più chiaro il motivo per cui non possiamo accoglierli tutti”, sintetizzando la questione dei migranti in un mero quesito di geometria da terza elementare che di certo non può racchiudere la complessità di un fenomeno come il flusso migratorio che proviene dall’Africa. Ed è probabilmente superfluo sottolineare come la foto in sé non abbia nessun rilievo dal punto di vista dell’analisi, mentre sia perfetta per illustrare quanto sia facile per un personaggio del “calibro” di Flavio Briatore spargere le sue idiozie in un momento storico in cui per farlo bastano un social e dei followers a cui parlare. Ciò che è emblematico di questo episodio apparentemente irrilevante tuttavia è proprio intrinseco alla sua banalità: io sono consapevole che quella foto è un’idiozia, ma quanti tra i settecentomila follower dell’imprenditore della Costa Smeralda ne hanno davvero coscienza? Tra tutti loro, per svariate ragioni contingenti e contestuali da imputare ad anni di politiche in cui l’impoverimento culturale è stato all’ordine del giorno, ci sarà qualcuno che ha pensato davvero “Caspita, ha ragione Flavio, mica ci entra tutta l’Africa in Italia!”. Da un’idea simile, che nel caso specifico si limita ad alimentare semplicemente un ragionamento sbagliato, possono scaturirne altre. Da un bombardamento mediatico praticato da chi ha un grosso seguito, molto più grande di quello di Briatore, una foto dopo l’altra, ogni giorno, sommata a video, comizi, dirette social e tutto quello di cui si compone la comunicazione politica oggi, deriva la maturazione di idee che nutrono sentimenti di odio e repulsione verso capri espiatori che di fatto c’entrano ben poco con i problemi reali dell’Occidente.
Negli Stati Uniti, dove il fenomeno della ricerca di un target su cui scaricare frustrazione e malcontento sta alla base della propaganda di Donald Trump, da un po’ di tempo circola un termine che è stato coniato online, ossia “stochastic terrorism”. Con questa espressione – che unisce il concetto di “stocastico”, ossia un processo casuale, e “terrorismo”, ovvero atti di violenza perpetrati con intenti politici e ideologici – si intende non tanto un modo di agire, quanto la causa che incita alcune persone a commettere crimini a scopo terroristico. Il terrorismo stocastico, in sostanza, ha luogo nel momento in cui un personaggio con un grande impatto mediatico – perlopiù politico – instilla in modo indiretto l’idea che programmare un attentato ai danni di una persona o un gruppo etnico o politico possa essere un’idea praticabile. Ovviamente non sto dicendo che tali personaggi invitino qualcuno a sparare ai migranti attraverso un post su Instagram, il peso della loro opinione in materia è pressoché nullo né c’è traccia di un incitamento simile nelle loro parole. Ma l’uso di un linguaggio ambiguo, fallace e strumentale a una propaganda politica sovranista – magari a uso e consumo, che so, di un ex ministro per esempio – in una scala molto più grande, può trasformarsi in uno spunto per quelli che sempre gli anglofoni definiscono in modo sbrigativo “lone wolves”, i lupi solitari. Il terrorismo stocastico è particolarmente insidioso proprio perché ha la caratteristica di essere statisticamente prevedibile ma individualmente imprevedibile: nessuno sa che effetto possa avere la campagna mediatica di Matteo Salvini contro gli immigrati, ma nessuno può neanche negare che esista una persona da qualche parte in Italia che si senta legittimata a fare una strage e liberare il suo Paese dalla causa di tutti i suoi mali. Cosa che è infatti già successa.
Il caso più prototipico che si usa per descrivere questo tipo di terrorismo mediatico – che comunque non è ancora stato riconosciuto legalmente come illecito vista la sua affermazione molto recente e in continuo cambiamento – è quello che viene usato dall’autore del blog che nel 2011 ne ha messo per iscritte le caratteristiche principali del fenomeno. Il terrorista stocastico non è chi esplode in nome di Allah, ma chi gli ha suggerito di farlo attraverso un uso subdolo ma abbastanza mirato della retorica. Tuttavia, né i politici sovranisti né i personaggi che li sostengono o chiunque abbia qualche tipo di risonanza mediatica e la usi per diffondere idee che mirano a targettizzare gruppi di persone come capri espiatori è automaticamente un terrorista al pari di Bin Laden, questo è scontato. Ma il fatto che si possano usare i discorsi e le parole di un leader per fare montare una forma di rabbia che sfocia in atti di vera e propria violenza imprevedibile – perché messa in atto da qualcuno di insospettabile, non da un gruppo preciso e organizzato – è una realtà che oggi più che mai oggi deve essere tenuta in conto, visto che viviamo un momento storico in cui, grazie a internet, la politica ha esteso in modo esponenziale la sua base comunicativa.
Nel caso degli Stati Uniti questo pericolo è molto più concreto, dal momento che banalmente esistono percorsi molto più semplici per entrare in possesso di armi. Il caso più recente, l’attentato di El Paso dello scorso 3 agosto, è uno dei tanti esempi: un uomo di ventun anni ha ucciso venti persone e ne ha ferite altre ventisei in un centro commerciale texano, pubblicando un manifesto in cui usa termini come “invasione” riferendosi alla migrazione ispanica e accusando i Democratici di fare il loro gioco per ottenere voti. Un discorso molto simile sia per i toni che per i contenuti a quelli fatti spesso dal Presidente degli Stati Uniti, il quale si è più volte riferito ai migranti ispanici accusandoli di un’ipotetica invasione, tanto da volerli chiudere fuori con un gigantesco muro.
Il legame non è diretto, Trump non ha chiamato l’attentatore per telefono né lo ha ricevuto nello Studio ovale per istruirlo su come liberare il Paese dall’invasione di una razza inferiore che dovrebbe stare confinata al di là di un muro, ma la sua retorica e il suo bombardamento mediatico hanno innescato una reazione che non si può legittimare solo con la scusa del “lone wolf”. Patrick Crusius non è semplicemente un lupo solitario impazzito, è il frutto di una campagna politica che fa leva proprio su questi sentimenti istintivi e irrazionali, nati da ignoranza e mancanza di strumenti interpretativi, per indirizzarli verso il proprio schieramento. Se poi nel frattempo qualcuno prende così alla lettera la questione, sono i rischi del mestiere, e del resto come facciamo a provare che sia direttamente colpa di Trump?
Nel 2016, per esempio, l’occasione in cui l’espressione “terrorismo stocastico” è riemersa nel discorso politico è stata quella di Trump che si appellava ai “Second Amendment People” – i possessori di armi – durante la sua campagna elettorale per sistemare una questione con la sua principale oppositrice, Hillary Clinton. In sostanza, Trump stava letteralmente dicendo ai suoi supporter armati di far fuori quella che lui chiamava simpaticamente “Crooked Hillary”, senza però rischiare di non potersi parare il culo dietro all’ambiguità linguistica di una metafora. Certo, si può dire che stesse scherzando, come si può dire che quando Matteo Salvini si appella a una donna chiamandola “zingaraccia” siamo noi che ci leggiamo del razzismo a non capire il vero intento della sua espressione colorita, come dire “So’ ragazzi”, no? E così, in questa costante oscillazione tra verità, metafora, realtà distorte e linguaggio figurato, ognuno può rifugiarsi dietro al porto sicuro dell’esagerazione e dello scherzo. Così come Trump chiedeva ai suoi pistoleri di aiutarlo con la questione di Hillary Clinton, anche Salvini, guarda caso, aizza i suoi seguaci contro una donna, sostenendo che Laura Boldrini sia, tra le altre mille accuse che le ha rivolto, anche la responsabile di un piano dei “buonisti” per la sostituzione etnica dell’Italia in favore di una “grande invasione”.
Il linguaggio che Salvini usa attraverso i social, supportato dall’ausilio del suo fidato social media manager Luca Morisi, è infarcito quotidianamente di messaggi che contengono il germe di un potenziale risvolto violento da parte di chi ritiene che sia legittimo farsi giustizia da soli eliminando il problema alla radice. Quello che è successo a Macerata il 3 febbraio del 2018 – quando Luca Traini ha sparato venti colpi di pistola con l’intento di colpire persone di colore – non sembra soltanto il risultato di una follia personale che si è innescata in modo casuale, ma la manifestazione concreta di quello a cui porta una propaganda che include al suo interno messaggi di odio mirato verso chi è ritenuto responsabile di mali che hanno ben altre radici. Così come Gian Marco Saolini, il noto burlone di internet che crea video finti di propaganda anti-migranti – e non solo – si nasconde dietro all’escamotage della satira per legittimare un processo che crea ancora più confusione e rischi in un momento in cui il linguaggio necessita di essere chiaro e lineare proprio perché moltiplicato nelle sue forme, allo stesso modo qualsiasi leader politico deve assumersi la responsabilità dei messaggi che veicola.
Il terrorismo stocastico non è qualcosa che si può individuare attraverso i mezzi che siamo abituati a impiegare per stanare focolai di violenza, è il sintomo più chiaro di un presente postmoderno in cui la discrepanza tra linguaggio e realtà è più che mai accentuata. Non sarà certo una singola foto pescata su Facebook in cui si sostiene che tutti questi immigrati stanno qua in Italia a bighellonare col telefono in mano a innescare un potenziale atto terroristico nei confronti di un determinato gruppo etnico, piuttosto è l’insieme dei discorsi che si accumulano su questo tema, propagati da chi ha enorme seguito sui social, che sommati l’uno con l’altro si accumulano fino a sfociare in aggressività, irruenza e brutalità imprevedibili. Essere capaci di distinguere ciò che viene detto da un politico con milioni di follower per per manipolare l’informazione e portare acqua al suo mulino non è semplice, così come non è semplice spiegare a un ottantenne, ma a volte anche a un sessantenne, che quel video su Facebook non è vero. Solo che le conseguenze possono andare ben oltre a un litigio con un conoscente, possono diventare la scusa per agire in modo disumano in nome di una realtà che non ha niente di reale.