Nel febbraio del 2020 la televisione italiana ha preso una direzione nuova. Nessuno di noi sapeva quanto sarebbe durato e nessuno lo sa tuttora: gradualmente, in tutti i programmi si è cominciato a parlare solo ed esclusivamente di un virus che veniva dalla Cina, poi di mascherine, di distanziamento, di lockdown e infine di vaccini e green pass. Nei due anni di pandemia che abbiamo vissuto fino a questo momento sembrava davvero impossibile che qualcosa potesse cambiare le sorti del discorso pubblico. Poi è arrivata la guerra e le cose sono cambiate.
Dalla televisione fatta di virologi, pseudo-esperti, personaggi senza alcuna competenza se non quella di avere opinioni strambe – lo chiamano “il contraddittorio”, nella realtà è fin troppe volte un fantoccio travestito da opposizione – siamo passati ai salotti della geopolitica, dei generali, degli storici, degli inviati di guerra. Non c’è voluto molto prima che Massimo Giletti si sentisse in dovere di trasmettere il suo Non è l’Arena in diretta dall’Ucraina, con caschetto e giubbotto antiproiettile in bella mostra, tra i sacchi di calce. Il talk show oggi è lo spazio adibito all’infotainment monotematico, in una progressiva e irreversibile delegittimazione di qualsiasi forma di dialogo civile.
In un articolo del Corriere della Sera del 1997, il giornalista Paolo Calcagno intervistava sei tra i personaggi più eminenti in campo televisivo per sottoporli a un quesito: cosa ne pensassero del crollo degli ascolti televisivi. Il titolo dell’articolo è piuttosto eloquente: “Italia 1997: la grande fuga dalla televisione”. Da Gianni Minoli a Enrico Ghezzi, passando per Angelo Guglielmi e Antonio Ricci, tutti gli intervistati proponevano delle soluzioni per arginare il crollo di ben tre milioni di spettatori rispetto all’anno precedente. Trent’anni fa il timore della televisione quindi era già la perdita di spettatori, pur non avendo la minima idea di ciò che sarebbe arrivato dopo, con la grande epoca del reality e della tv spazzatura. Oggi, il panorama è molto simile a quello dell’era pre-Duemila, con una lenta e costante caduta degli ascolti tv, grazie a internet e alla disintermediazione dei contenuti. In sostanza, non è il pubblico che guarda meno tv perché ha cominciato a sfogliare Guerra e pace la sera accanto al caminetto, sono gli schermi che si sono moltiplicati, insieme alle piattaforme, all’offerta che è tanto grande da disorientare. La televisione, in questo quadro che sembrava potesse essere molto più tragico di quanto poi non è stato o ancora non è – alcuni programmi continuano a fare ascolti ottimi, come per esempio tutte le fiction Rai – reagisce con il doping. Invece di alzare la qualità del contenuto, dovendo competere con la moltitudine dei nuovi media, lo ha abbassato, drogando le sue prestazioni con trucchi di scena.
In un’intervista recente di Bianca Berlinguer al Corriere della Sera, la presentatrice di uno dei talk show più in vista del momento, Cartabianca, spiega una cosa fondamentale: tutto ciò che succede in televisione è una conseguenza dei contratti pubblicitari. Meno ascolti ci sono, meno pubblicità vengono trasmesse, meno soldi vengono investiti in un programma; sembra una constatazione ovvia, ma da spettatori spesso tendiamo a dimenticarlo o a illuderci che ciò che vediamo non sia la conseguenza del mercato libero in cui naviga la tv. Il caso di Cartabianca, nella baraonda recente dei talk a tema guerra, è particolarmente emblematico perché la trasmissione che va in onda tutti i martedì – mentre su La7, alla stessa ora, va in onda un altro talk show politico, DiMartedì, e su Rete4 un altro ancora, Fuori dal coro – è stata al centro di un’importante polemica che ha di fatto spinto la commissione di vigilanza Rai a cambiare le regole per questo genere di programmi.
Parliamo di Alessandro Orsini, docente della LUISS e oggi volto ufficiale della lotta al pensiero unico imposto dalla maggioranza, personaggio molto televisivo – nel senso spettacolare dell’accezione, non è infatti da tutti gli accademici essere così disinvolti davanti a una telecamera – perfetto per i salotti dove si spinge sul pedale dello share. Se un tempo era Mauro Corona a dare quel tocco di grottesco al programma – spesso oltre i limiti del buongusto e del rispetto della presentatrice stessa – da quando ci sono stati prima il Covid e poi la guerra a dettare l’agenda del discorso pubblico non serve neanche più avere un personaggio strambo, basta cercarlo tra le fila del “contraddittorio” e il gioco è fatto.
Ciò che succede a Cartabianca non è certo una singolarità, né una prerogativa di giornalisti notoriamente famosi per il sensazionalismo; al contrario, stupisce proprio perché tocca nomi come quello di Bianca Berlinguer. In DiMartedì – talk show di Giovanni Floris, presentatore conosciuto di certo non per la sua vis polemica ma al contrario per una certa pacatezza – gli ospiti del parterre si alternano per tutta la durata del programma come se si dovesse smaltire una lunga lista d’attesa, tanto che è il presentatore stesso a dire ai presenti “Chi deve andare può uscire, chi vuole rimanere rimanga”. Il talk show, infatti, è un format in cui la maggior parte degli ospiti non viene pagata, specialmente se sono politici: come nota su Il Fatto Quotidiano Mariano Turigliatto, siamo di fronte a una sorta di all you can eat del dibattito. L’alternanza di nomi e idee, che di blocco in blocco vengono sostituiti in un rullo di opinionismo, è spesso dettata dagli scopi promozionali. Negli anni, l’intensificarsi di questa pratica del salotto televisivo con funzione di vetrina, in alcuni casi legittima, in altri influisce per forza di cose sulla qualità dell’intervento dell’ospite chiamato in causa – persona che magari non ha nulla a che vedere col tema della puntata. Ma dal momento che il personaggio coinvolto ha magari scritto un libro di recente, viene chiamato a titolo gratuito per dire la sua in diretta sugli ultimi bombardamenti in Ucraina o sull’arsenale bellico della Russia di Putin.
Una vera e propria indigestione di pareri e di volti, il più delle volte inutili ai fini del dibattito, ma fondamentali per colmare il flusso di un tipo di format che punta tutto sulla quantità. Da un lato, dunque, il meccanismo riempitivo classico della televisione nel talk show politico fa uno strano effetto insalata mista di personaggi e idee; dall’altro, il trucco della spettacolarizzazione e della lite a tutti i costi, a livello di share, purtroppo premia. La lite in diretta, le opinioni urlate, le classiche frasi da circostanza come “Io ho fatto parlare lei ora lei fa parlare me”, gli exploit dei vari collegamenti che vengono staccati per il troppo frastuono, infatti, generano ascolti, creano notizie e spostano l’attenzione sul programma che più di tutti in questo fiume infinito di informazioni riesce a emergere. Questa pratica, però, non favorisce certo il pluralismo, come spesso viene detto per giustificarla: al contrario, lo penalizza.
Al di là del macro-tema del momento, che si tratti di Covid o di guerra, e di ciò che domani monopolizzerà i salotti televisivi con nuovi esperti, nuovi volti fissi e nuovi personaggi scomodi, è l’idea stessa su cui si basa il talk show contemporaneo a non poter garantire altro che uno spettacolo di opinionismo narcisistico senza alcun apporto al dibattito, se non quello di un informazione scadente travestita da pluralità. Si stabilisce un filone dominante, all’interno del quale devono essere tutti d’accordo, e si affida a un personaggio eccentrico e volutamente fazioso il ruolo di contraddittorio. Questa forma di trappola mediatica, fatta non per stimolare il dibattito con opinioni diverse, ma per creare volutamente lo scontro tra due parti inconciliabili, alimenta da un lato la percezione che ci sia una “dittatura del pensiero unico” – e dunque complottismo e altri fenomeni contemporanei – e dall’altro la pigrizia omologante di uno schema di rappresentazione fatto per arrivare a una conclusione che si conosce già in partenza. È quindi il grado zero del dibattito, dove l’unica voce contrastante è una parodia del contraddittorio, funzionale allo spettacolo, non all’informazione né all’analisi.
Il problema dei talk show contemporanei, dunque, non è il contenuto – che varia a seconda del tema centrale del momento e che negli ultimi anni è arrivato al punto di saturazione con un unico enorme argomento, ma è piuttosto la forma che la televisione è arrivata a dare a questo tipo di programma: una struttura che si regge sull’induzione allo scontro tanto sterile quanto di intrattenimento. È come se nella dialettica del talk show politico contemporaneo mancasse la parte finale, quella della sintesi, che viene immolata per il caos generale, il frastuono che alza gli ascolti. Eppure, nella televisione italiana non mancano gli esempi di programmi simili in cui a prevalere era la parte positiva, quella del confronto, anche pittoresco, ma con un obiettivo finale che potesse prescindere dallo spettacolo grottesco delle urla – come Match di Arbasino, Mixer di Minoli (specialmente nella sua variante Mixer Cultura di Arnaldo Bagnasco), il primo Samarcanda di Santoro. La tv può fare molto meglio di così, prima di tutto per i suoi spettatori, ma anche per il suo futuro, che è già piuttosto incerto: non sappiamo cosa verrà dopo, ma forse possiamo pensarci migliorando quello che c’è adesso.