Da domenica 9 agosto in tutta la Bielorussia, dai piccoli paesini alle più grandi città, le persone non vanno a lavoro, non dormono, molti camminano per chilometri per prendere parte alle manifestazioni, escono per strada urlando: “Vai via!”, “Libertà!”, “Viva la Bielorussia!”, “Lasciateli uscire!”, “Vergogna!”. A unirle – come mai prima d’ora – è un nemico comune: Alexander Lukashenko, che ha scambiato la sua poltrona da presidente per il trono dello Zar, pensando di poterci restare seduto per sempre. Peccato che la Bielorussia sarebbe una repubblica, in cui tutt’ora si respira l’aria del passato sovietico, è vero, ma non una monarchia e i cittadini avrebbero il diritto di scegliere il loro capo del governo.
La sera della seconda domenica di agosto gli exit poll ufficiali hanno annunciato per la sesta volta la vittoria di Lukashenko, che avrebbe preso l’80,23% dei voti. Un numero però molto improbabile, visti i risultati del sondaggio preliminare svolto su internet, in cui solo il 3% della popolazione l’avrebbe votato e, soprattutto, vista la considerevole partecipazione ai comizi organizzati dalla sua diretta rivale, Svetlana Tikhanovskaya (ora in esilio volontario in Lituania), che ha dichiarato truccati gli exit poll. Per questo i bielorussi si sono sentiti imbrogliati e sono scesi nelle strade per protestare contro un presidente che non solo sembrerebbe aver falsificato i risultati dei voti, privandoli di fatto di un diritto fondamentale, ma che poi ha anche dato il via libera alla polizia di usare la forza bruta contro di loro.
Alexander Lukashenko, ex militare e sovietico di ferro, ricopre la carica di presidente dal 1994 e da allora non ha fatto altro che accentrare sempre più il potere nelle sue mani. Nel 2004 ha istituito un referendum nel quale il 79,42% della popolazione avrebbe approvato la sua decisione di eliminare i limiti dei mandati presidenziali, e in questo modo è rimasto alla guida del Paese per 26 anni ininterrottamente. Lukashenko ha limitato brutalmente i diritti alla libertà di associazione ed espressione, uno dei motivi per cui viene soprannominato “l’ultimo dittatore d’Europa”. Nel corso di quello che a tutti gli effetti è regime, il rispetto dei diritti umani è gradualmente diminuito fino ad arrivare all’esplicita repressione degli oppositori politici sia durante le elezioni del 2006, che in quelle del 2011 e del 2015, accompagnata da un conteggio dei voti ben poco limpido. Il suo regime è sostenuto da Vladimir Putin, che non solo ha riconosciuto come validi i risultati delle elezioni, ma ha anche assicurato a Lukashenko il supporto militare per la gestione delle proteste.
Lo stesso scenario si sarebbe dovuto ripetere anche quest’anno. Nei mesi precedenti alle presidenziali ai tre principali avversari politici di Lukashenko è stato infatti impedito con la forza di candidarsi: Viktar Babaryka e Sergei Tikhanovsky sono stati arrestati, mentre Valery Tsepkalo è stato costretto a fuggire coi figli all’estero. Eppure, alla linea dura di Lukashenko sono sfuggite tre donne, che hanno avuto il coraggio di mettere in discussione il sistema e di farlo vacillare. Svetlana Tikhanovskaya, in seguito all’arresto di suo marito, ha infatti deciso di coalizzarsi con l’opposizione, ovvero con Veronica Tsepkalo, la moglie di Valery Tsepkalo rimasta in patria, e Maria Kolesnikova, direttrice della campagna presidenziale di Viktar Babaryka. La sua candidatura è stata accettata come pura formalità per far sembrare credibili e democratiche le elezioni e perché per Lukashenko non rappresentava alcuna minaccia. Ma il dittatore ha commesso un grave errore a sottovalutarle.
Svetlana Tikhanovskaya ha 37 anni, è madre e casalinga, senza alcuna pregressa esperienza politica. Il suo obiettivo non è mai stato quello di diventare un leader nazionale ma di dare luogo, una volta eletta, ad autentiche elezioni e di scarcerare tutti i prigionieri politici. Questa promessa è stata accolta con grande consenso ed entusiasmo dalla popolazione e il 30 luglio, a Minsk, si è svolto il più grande comizio nella storia della Bielorussia. A sostenere Tikhanovskaya sono venute più di 60mila persone. Inoltre la campagna del trio femminile ha avuto un grande seguito anche nelle altre città e nei piccoli centri.
Fin dalle prime ore del mattino del giorno delle elezioni è stato proclamato uno stato di allerta in tutta la Bielorussia: Internet è stato parzialmente bloccato, le città più grandi sono state circondate dai militari e dalla polizia antisommossa, e i cittadini hanno cominciato a formare lunghe code di attesa fuori dai seggi elettorali per poter votare. La sera, quando la Tv nazionale ha mandato in onda i risultati inattendibili delle elezioni e le persone hanno iniziato a protestare, manifestando pacificamente il loro dissenso e chiedendo un nuovo conteggio dei voti, le forze di sicurezza hanno avuto il via libera per utilizzare manganelli, proiettili di gomma, granate con palline di piombo, cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e proiettili sulla folla disarmata. Una volta che le persone sono state messe in fuga la polizia, in cospicui gruppi, ha iniziato a bloccarle, picchiandole e caricandole sui camion, senza fare distinzioni di sorta. Quella notte è morta una persona e molte hanno riportato gravi ferite causate dalle granate. Il mattino dopo, Tikhanovskaya è stata costretta a lasciare il Paese ed è stata trasportata in Lituania per motivi ancora poco chiari. Gli scontri tra il popolo e le autorità sono continuati anche nelle sere del 10 e dell’11 agosto, con altri due decessi. In soli tre giorni sono state arrestate più di 6000 persone, di cui circa 80 sono date per scomparse.
Le testimonianze più agghiaccianti, però, arrivano dalle carceri, in particolare da quella di Akrestino, da cui sono stati rilasciati alcuni dimostranti qualche giorno dopo. Le persone venivano segregate in 40/50 in camere da quattro, nuovamente picchiate, private dell’acqua, del cibo, del sonno e dell’aiuto medico e sottoposte a diversi tipi di torture. Molti degli scarcerati hanno riportato danni cerebrali, al retto, ai reni e ai genitali. Durante gli interrogatori la polizia chiedeva chi li pagasse e chi fosse il loro coordinatore. In realtà, però, non esiste nessuna figura del genere, le persone si radunano grazie ai passaparola su Telegram.
Il corpo di polizia antisommossa bielorusso, il cosiddetto Omon, è particolarmente violento e spietato perché, insieme a Kgb, l’Agenzia per la sicurezza dello Stato, non è mai stato riformato dai tempi dell’Urss. Le reclute dell’Omon vengono istruite per distruggere fisicamente e psicologicamente i nemici dello Stato che non ne rispettano l’ideologia, proprio come succedeva un tempo e come succede ancora oggi sotto qualsiasi forma di regime, più o meno dichiarato che sia. Sono una schiera di “cani da guardia” pronti a eseguire ogni ordine, con stipendi molto più alti rispetto al resto della popolazione, la cui unica paura è quella di perdere il proprio “padrone” insieme alla paga che gli elargisce.
Nonostante le violenze compiute nei confronti dei manifestanti nei giorni precedenti, il 12 agosto, a Minsk, 250 donne hanno manifestato davanti al mercato di Komarovka, stando semplicemente in silenzio, vestite di bianco e con i fiori in mano, per protestare contro le violenze delle forze di sicurezza, dando vita al movimento delle “donne in bianco” che si è diffuso poi in tutto il Paese. Di fronte a loro anche la polizia si è fermata: ancora una volta sono state le donne a fare la differenza. Da quel giorno i bielorussi non hanno mai smesso di uscire sulle strade per protestare pacificamente: non arrecano nessun danno ai beni pubblici, si tolgono le scarpe prima di salire sulle panchine, raccolgono la spazzatura, condividono acqua e cibo e le uniche cose che hanno nelle loro mani sono i fiori e le bandiere bianche e rosse, quelle usate prima della rivoluzione russa e dopo la caduta dell’Urss, simbolo anti-sovietico e anticomunista, in contrapposizione a quella ufficiale rossa e verde.
Domenica 16 agosto, sempre a Minsk, si è svolta la “Marcia della libertà” a cui hanno preso parte almeno 200mila persone, la più grande manifestazione antigovernativa nella storia della nazione. Un corteo di simile portata è stato replicato anche il 23 agosto. Quello che esige il popolo bielorusso si può riassumere in tre punti principali: l’immediato rilascio dei prigionieri politici; giustizia per tutti coloro che hanno subito atti di violenza o sono stati uccisi; e che Lukashenko lasci il posto di Presidente. Per quanto riguarda l’ultimo punto, Tikhanovskaya ha istituito un Consiglio di coordinamento per aprire un dialogo con Minsk e garantire il passaggio di potere. Ha inoltre chiesto aiuto ai Paesi europei di mediare le negoziazioni. Lukashenko, però, per ora ha risposto che finché lui non verrà ucciso non ci saranno altre elezioni, dichiarandosi inamovibile dalla sua carica.
Io ho 23 anni e da bielorussa posso dire che la mia generazione, nata dopo il crollo dell’Unione Sovietica, non ha mai visto il Paese governato da un leader diverso. Quello che sta succedendo adesso in Bielorussia ha avuto bisogno di molti anni per prendere forma: in una nazione in cui gli eventi di massa sono considerati illegali e ogni tipo di opposizione viene repressa è sempre stato difficile riuscire a cambiare qualcosa in modo sistematico. Tikhanovskaya ha risvegliato la popolazione, le ha dato speranza in un cambiamento tangibile. I bielorussi hanno preso d’esempio il coraggio di una donna a cui lo Stato ha sottratto il marito e il padre dei figli e che davanti a un’ingiustizia del genere invece che abbassare la testa impaurita e umiliata ha deciso di reagire. La popolazione lo sa, e la sostiene per questo, uscendo in strada a manifestare tutti i giorni, nonostante gli arresti continuino ad aumentare, e le maggiori aziende statali si siano fermate proclamando un massivo sciopero nazionale. Nella videoconferenza con l’Europarlamento, Tikhanovskaya ha dichiarato: “La Bielorussia si è svegliata. Non siamo più l’opposizione. Adesso siamo la maggioranza. La rivoluzione pacifica è in atto”. L’ultimo baluardo dell’Unione Sovietica stavolta deve crollare.