Da anni la Chiesa è chiamata a riconoscere gli abusi dei prelati sui bambini. L’ultimo caso arrivato alla cronaca è di poche settimane fa, il cosiddetto “Rapporto su McCarrick”, l’ex cardinale pedofilo ridotto allo stato laicale da Papa Francesco. La Chiesa, tuttavia, deve fare i conti da secoli anche con un altro problema che la attraversa in maniera endemica: gli abusi sessuali sulle suore, storie di violenza che negli ultimi trent’anni hanno lottato strenuamente per venire alla luce e che, a solo un anno dalle dichiarazioni a riguardo del Papa, rischiano già di tornare nel dimenticatoio. Ancora oggi, infatti, è difficile comprendere quanto questi crimini siano diffusi negli ambienti ecclesiastici, dato che esistono pochi dati e testimonianze rispetto a quanto si stima possa essere la rete delle vittime. Da tempo, però, alcune di queste donne hanno deciso di far sentire la loro voce, anche se nessuno sembra volerla ascoltare.
Il primo giornalista a interessarsi a questa vicenda è stato Tom Roberts, ex-editor del National Catholic Reporter. Nel 1999, un informatore segreto aveva lasciato sulla scrivania della redazione, a Kansas City, in Missouri, due rapporti contenenti documenti che provenivano dalla Santa Sede, classificati come “riservati”. Il primo risaliva al 1994, quando la sua autrice, suor Maura O’Donohue, coordinava gli aiuti destinati alle zone colpite dall’epidemia di AIDS per il Catholic Fund for Overseas Development. Nei suoi sei anni di servizio, suor O’Donohue aveva ricevuto le prime segnalazioni da parte di sorelle in missione che venivano violentate da vescovi e preti. La situazione era particolarmente grave in Africa dove, a causa dell’AIDS, i missionari prediligevano le suore – oltre alle bambine – perché sicuri che fossero sane. In molti casi, gli stessi uomini di Chiesa che le avevano violentate le obbligavano poi ad abortire.
Il rapporto conteneva il caso emblematico di un vescovo che, in Malawi, aveva avuto rapporti sessuali con molte suore della sua congregazione, 29 delle quali erano rimaste incinta. Per una di esse, aveva organizzato un’interruzione di gravidanza, la suora però era morta durante l’operazione e lo stesso vescovo ne aveva celebrato il funerale. Dopo aver compilato il rapporto, suor O’Donohue aveva prontamente informato i funzionari del Vaticano delle sue sconcertanti scoperte, eppure la sua grave inchiesta era stata accantonata.
Il secondo rapporto, scritto da suor Marie McDonald, madre superiora dell’istituto religioso femminile Suore Missionarie di Nostra Signora d’Africa, metteva nero su bianco le cause del problema: il celibato e la scarsa comprensione della vita religiosa da parte di certi membri del clero, la posizione d’inferiorità delle donne nella gerarchia ecclesiastica, l’epidemia di AIDS, le difficoltà di adattamento culturale delle suore inviate in missione – specialmente delle novizie – e l’omertà. Nel 1998 questo rapporto era stato presentato dalla madre superiora al Consiglio dei Sedici, un gruppo composto da membri dell’Unione delle Superiore Generali di Roma, dell’Unione Internazionale delle Superiore Generali e della Congregazione per gli istituti di vita consacrata e le società di vita apostolica, ma anche in quel caso non era stato preso alcun provvedimento.
Due anni dopo aver ricevuto questi documenti, Tom Roberts, finalmente certo della loro veridicità, pubblica un articolo in cui rivela questa fitta rete di abusi, composta dalle denunce provenienti non solo dall’Africa, ma anche da altri 23 Paesi, inclusa l’Italia. Quasi vent’anni dopo, lo stesso giornalista ha dichiarato: “[In tutto questo tempo] non è successo molto. Non esiste un’opinione pubblica in merito agli abusi sessuali sulle suore: è ancora tutta da costruire”.
Dal 2011 a oggi molte suore hanno trovato il coraggio di denunciare i loro molestatori e i casi si sono moltiplicati in tutto il mondo. Grazie al #MeToo, poi, le loro testimonianze hanno iniziato a ricevere sempre più ascolto e sostegno. Spesso, tuttavia, arrivano a molti anni dai fatti, come nel caso di una suora indiana che ha accusato il vescovo che dirigeva il suo convento di averla violentata 13 volte nell’arco di due anni. Poco dopo la sua denuncia, un gruppo di monache ha lanciato una protesta durata due settimane per ottenere l’arresto del vescovo: un’iniziativa senza precedenti nel Paese, che ha spaccato in due la comunità cattolica del Kerala, dove attualmente queste donne ribelli sono considerate alla stregua di paria, isolate dal resto delle sorelle che credono all’innocenza del vescovo.
Questo è il destino riservato a molte suore: dal momento in cui denunciano, infatti, sono obbligate dalla loro congregazione a dismettere il velo dato che il voto di castità a quel punto risulta rotto – anche se a causa di un abuso e contro la loro volontà. La vita da ex-religiosa, quando non si può contare sul supporto della famiglia o non si ha una professione, però può essere molto difficile, oltre che non desiderata da tante donne che avevano invece scelto un percorso d’altro tipo. Per questo Papa Francesco, come racconta il cardinale João Braz de Aviz, ha deciso “di creare a Roma una casa per accogliere dalla strada alcune suore mandate via da noi e dalle superiore, in particolare nel caso che siano straniere”, e continua, “Ci sono casi molto duri in cui i superiori hanno trattenuto i documenti di suore che desideravano uscire dal convento, o che sono state mandate via. Queste persone sono entrate in convento come suore e si ritrovano in queste condizioni”. Forse, invece di creare case di accoglienza, la Chiesa dovrebbe trovare il modo di punire chi non rispetta le regole e tutelare le vittime con azioni concrete.
Qualcosa in questo senso si è mosso quando, nel febbraio del 2019, il supplemento mensile del quotidiano della Santa Sede L’Osservatore Romano, Donne Chiesa Mondo, ha pubblicato un articolo di denuncia firmato dall’allora direttrice Lucetta Scaraffia, docente di Storia contemporanea oggi in pensione. Una settimana dopo il Papa ha finalmente ammesso davanti ai giornalisti gli abusi sessuali sulle suore commessi da preti e vescovi. Poco dopo aver denunciato la portata dello scandalo, però, la direttrice Lucetta Scaraffia e l’intero staff del supplemento si sono dimessi a causa del “clima di sfiducia e di delegittimazione progressiva” da parte della Chiesa.
A marzo del 2019, come ci ha raccontato la stessa Scaraffia, L’Osservatore Romano ha pubblicato una recensione di Religieuses abusées, l’autre scandale de l’église, un documentario francese realizzato da Eric Quintin, Marie-Pierre Raimbault e Elizabeth Drevillon. Nell’articolo, però, la giornalista Monica Mondo sosteneva “posizioni opposte” rispetto a quelle già espresse dal mensile il mese prima, definendo l’opera “priv[a] di spirito cristiano”. Questo articolo sarebbe stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso per Scaraffia e le sue collaboratrici, che a oggi continuano a ricevere molte testimonianze di suore vittime di abusi e sono ancora attivamente coinvolte in questa battaglia.
Lo stesso documentario è stato al centro di una serie di polemiche, dato che la testimonianza di una delle ex-suore è stata smentita dal Tribunale di Amburgo. Questa falsa denuncia, purtroppo, ha invalidato l’intero progetto, che tuttavia racconta una vicenda molto importante: la storia di Michelle France, abusata per 35 anni dal sacerdote francese padre Marie-Dominique Philippe, fondatore dell’organizzazione “Famille Saint-Jean”, che conta più di 800 adepti in 24 Paesi del mondo. Il credo di padre Philippe era fondato su una bizzarra teoria di sua invenzione chiamata “l’amour d’amitié” che, mischiando sessualità e spiritualità, giustificava i suoi abusi e quelli dei suoi discepoli. Il documentario si conclude con Marie France e altre donne vittime di abusi da parte dei prelati che nel 2018 vengono finalmente ricevute a porte chiuse da Papa Francesco. A causa della falsa denuncia, però, il tribunale ha ordinato la rimozione del filmato dal catalogo di ARTE – anche se la registrazione integrale in francese rimane disponibile su YouTube.
A oggi, la Santa Sede non ha preso alcun provvedimento, anche se a detta di Scaraffia “i dicasteri sono sommersi dalle denunce”. Il motivo è chiaro: “Non hanno nessuna intenzione di passare all’azione. Dal loro punto di vista, gli abusi sono semplici trasgressioni al voto di castità e, per giunta, violazioni condivise da entrambe le parti, dato che nella maggior parte dei casi le suore violentate sono maggiorenni. In questo caso, le violenze sono peccato, ma non vengono considerate come reati”.
Come ci ha spiegato Francesco Zanardi, responsabile della Rete L’ABUSO, un’associazione che dà supporto ai sopravvissuti agli abusi sessuali del clero, la situazione per le suore che decidono di denunciare è particolarmente complessa. Le suore, infatti, vivono nella maggior parte dei casi in conventi, ambienti piccoli e blindati, dove le donne abusate temono le ritorsioni della Madre Superiora e delle sorelle, che potrebbero non credere alle loro dichiarazioni. Vero è che potrebbero sporgere una denuncia civile, ma in questi casi di solito vengono dissuase dall’ordine a cui appartengono, queste sono pressioni sì informali ma molto forti per chi abita nel mondo ecclesiastico e ha contatti solo al suo interno. Nel caso in cui le suore, però, riescano a far riconoscere gli abusi davanti al tribunale davanti al tribunale ordinario, i preti possono essere condannati al carcere o – come succede più spesso – ai domiciliari.
Come raccontano infatti l’ex numeraria dell’Opus Dei Emanuela Provera e il giornalista Federico Tulli nel libro-inchiesta Giustizia divina, dei 300 casi di preti condannati al carcere, solo 5 stavano scontando la pena in prigione. Tutti gli altri, compresi quelli destinati ai domiciliari, finiscono in altri centri religiosi che poco somigliano alla detenzione. In alcuni di essi, i preti intraprendono percorsi di psicoterapia volti a migliorare la loro condizione psicologica e a tutelare la società, in modo che la possibilità di recidive si riduca. Non esiste però una lista ufficiale di questi centri: Zanardi ne ha contati 24 “ricavando i nomi dagli atti giudiziari. Quando la magistratura manda ai domiciliari i preti che hanno commesso abusi nel 99% dei casi vanno in questi posti”. Una volta scontata la pena i preti possono tornare alla loro vita di prima: se durante il processo canonico, infatti, la Santa Sede assolve l’imputato, il prelato non è obbligato a dismettere l’abito, e lo Stato non può obbligarlo a farlo. Insomma, dopo il processo civile, quello canonico, ed eventualmente il carcere, il prelato viene semplicemente trasferito in un’altra sede. Per avere un’idea della gravità della situazione degli abusi sessuali su donne e minori, la Rete L’ABUSO ha creato una mappa interattiva che indica tutte le Diocesi non sicure, ovvero dove sono situati tutti i casi noti, quelli giunti al terzo grado di giudizio, quelli attualmente in corso e quelli di cui non si è più saputo nulla. Secondo l’associazione, i preti denunciati, indagati, in attesa di giudizio o in attesa di sentenza definitiva per reati sessuali e molestie a danno di minori in Italia sarebbero 151, mentre quelli condannati in via definitiva o reo confessi dal 2000 a oggi sarebbero 154.
Alcuni sostengono che una possibile soluzione al problema potrebbe essere l’accesso per le donne al sacerdozio e al cardinalato, in modo da riconoscere loro più potere all’interno della gerarchia ecclesiastica. Eppure, per quanto importante, questo non è sufficiente, dato per tutte le donne che nella Chiesa occupano i gradini più bassi le cose continuerebbero come prima. Chi di dovere dovrebbe assumersi le proprie responsabilità e decostruire questo sistema bacato in cui gli abusi sono normalizzati e pesano sistematicamente sulle spalle dei più deboli. Non è possibile che i sacerdoti possano commettere violenze del genere e venire coperti, ne va dell’immagine e della credibilità della Chiesa stessa.
Questi abusi di potere avrebbero i giorni contati se la Chiesa iniziasse a rispettare le donne, in primis in quanto persone portatrici di diritti inalienabili e in secundis come lavoratrici, studiose e professioniste. Papa Francesco ha fatto un tentativo di aprire la strada, almeno a parole, ora si tratta però di avere il coraggio di percorrerla fino in fondo senza tentennare. Invece che punire le vittime che denunciano questi abusi, è arrivato il momento di ascoltare le loro testimonianze e fare in modo che i prelati, come tutti gli altri cittadini, si confrontino con la legge dello Stato, oltre che con quella della Chiesa, e che invece di essere semplicemente spostati da una parrocchia all’altra scontino le loro pene come tutti e se ritenuto necessario da chi di dovere (un organo super partes) vengano sollevati dai loro incarichi.