Quando in Italia qualcuno mi chiede l’argomento del master che ho seguito nel Regno Unito posso anche dire la verità, e cioè “Women’s Studies”, ma difficilmente vengo capita. Se ripiego sulla formula “Studi di genere” almeno risulta più facile e chi mi parla inquadra almeno vagamente l’ambito di riferimento. Non mi stupisco, dato che fino a qualche anno fa anche io ignoravo completamente l’esistenza di questi studi.
L’Italia è innegabilmente molto indietro in questo ambito e se gli Women’s Studies non si sono ufficialmente mai diffusi nelle università, i Gender Studies sono un fenomeno relativamente nuovo che fatica a prendere piede. Ben diversa è la situazione negli Stati Uniti e nei Paesi anglosassoni dove questi studi vantano una tradizione accademica duratura. Nel Regno Unito i dipartimenti di Women’s Studies o Gender Studies sono presenti in moltissime università e basta una veloce ricerca su Google per trovare una vastissima offerta di corsi in materia. In Italia non esistono dipartimenti di Studi di Genere, ma solo centri interdisciplinari di ricerca. I master e i dottorati disponibili si contano a fatica sulle dita di una mano, e non sono nemmeno così facili da individuare. Secondo un’indagine presentata all’Università di Roma Tre, nel 2012 solo 16 università pubbliche su 57 mettevano a disposizione almeno un corso in Studi di Genere ed erano 6 i master di secondo livello legati a queste materie (e alcuni ormai non sono più attivi). Nel 2016, invece, stando ai dati raccolti da Marta Prandelli, Ricercatrice presso l’Università di Padova, solo 24 tra le 91 università pubbliche e private presenti in Italia proponevano corsi legati al genere. La situazione è sconfortante, soprattutto se si pensa che in Europa l’attenzione a questi studi è in crescita con i Paesi del Nord a fare da apripista, seguiti da Germania e Francia, mentre l’Unione stessa incentiva la creazione di cattedre per l’insegnamento di queste materie.
Il nome “Gender Studies” è relativamente nuovo: fino agli anni Ottanta la denominazione usata infatti era “Women’s Studies”. I Women’s Studies nascono negli Stati Uniti negli anni Settanta per poi prendere piede nel Regno Unito circa un decennio dopo. Sono studi interdisciplinari che pongono l’esperienza delle donne nella storia, nella società e nella cultura al centro dell’analisi, utilizzando le costruzioni sociali legate al genere come chiave di lettura delle dinamiche di potere. I Women’s Studies si sviluppano come diretta conseguenza del movimento femminista degli anni ‘70. Le femministe dell’epoca, infatti, criticavano, tra le altre cose, il fatto che l’istruzione fosse ancora in gran parte di stampo maschile e spesso ignorasse il contributo e l’esperienza femminile. Era quindi parte dell’agenda femminista “riappropriarsi della conoscenza” introducendo nei principali “centri del sapere” una prospettiva che tenesse conto del punto di vista delle donne. Ecco dunque che molte attiviste docenti universitarie iniziarono a premere per la creazione di corsi di studio e dipartimenti, portando le teorie femministe dall’ambito del puro attivismo a quello accademico dell’insegnamento e della ricerca.
Questo processo non è stato stato certo privo di ostacoli e difficoltà: la natura prettamente politica di questi studi, infatti, se da un lato faceva sì che le femministe temessero un’eccessiva “istituzionalizzazione” del movimento con conseguente perdita del legame con l’attivismo, dall’altro causava scetticismo da parte del mondo accademico. Anche per questo motivo a metà degli anni ‘80 molti corsi di “Women’s Studies” negli Stati Uniti e in Gran Bretagna hanno iniziato ad adottare la dicitura “Gender Studies”, più inclusiva e meno “politica”, dando origine a un dibattito sul valore e il significato dei due nomi. Il risultato è stato una commistione tra la due diciture: c’è chi le considera equivalenti, chi in contrasto, chi vedeva l’una comprendere l’altra. Quest’ultima posizione è forse la più diffusa. Negli anni, infatti, in connessione con i Women’s Studies sono nati altri studi legati al concetto di genere come i Queer Studies (o LGBTQ+ Studies), i Masculinity Studies e gli Studi sulla sessualità. Il nome “Gender Studies”, ha quindi iniziato a essere comunemente usato per comprendere tutte queste aree di studio che pongono al centro della loro analisi l’identità di genere e la sua rappresentazione.
Nel contesto italiano, la formula “Studi di genere” è quella più utilizzata. Infatti, nonostante il movimento femminista italiano negli anni Settanta fosse molto attivo dal punto di vista della riflessione teorica, è mancata un’istituzionalizzazione dei Women’s Studies. Questi, come spiega Paola di Cori, sono entrati nelle università solo “sotto mentite spoglie” inseriti dalle docenti all’interno di corsi “non sospetti” riconosciuti dall’ateneo. Alla base di questo mancato riconoscimento da parte delle università ci sono diverse ragioni ben riassunte da Bianca Gelli. Da un lato alcune femministe dell’epoca non vedevano di buon occhio che il movimento avesse stretti legami con l’establishment maschile e la cultura dominante, preferendo mantenere un certo livello di autonomia; dall’altro l’ambiente universitario italiano era particolarmente conservatore e ostile ad aprirsi verso questi studi che rappresentavano una rottura con la didattica classica. Il sistema accademico italiano, inoltre, prima della riforma del 1999, era notevolmente rigido nella regolazione dei piani di studio e l’introduzione di nuovi corsi presupponeva l’approvazione del senato accademico. E infine, sempre secondo Gelli, va considerata la bassa percentuale di docenti di sesso femminile e il loro limitato livello di potere decisionale rispetto alle colleghe oltre oceano.
Per ottenere l’ingresso ufficiale nel mondo accademico italiano i Gender Studies hanno infatti dovuto aspettare fino alla riforma degli ordinamenti universitari del 1999, che ha introdotto formalmente la possibilità di aprire ambiti disciplinari nuovi e creare strutture istituzionalizzate di ricerca e trasmissione gender oriented. Da quel momento gli Studi di genere hanno potuto iniziare la loro ufficiale diffusione nelle università, con quasi trent’anni di ritardo. L’Italia è gradualmente entrata a far parte di programmi europei per il loro sviluppo (come l’ATHENA – Advanced Thematic Network for Activities in Women’s Studies in Europe), sono stati creati centri di ricerca come il Cirsde presso l’Università di Torino o il centro di ricerca GENDERS dell’Università di Milano, oltre a master e dottorati in materia (come il Master Europeo GEMMA a cui partecipa l’Università di Bologna o il Master in Studi e Politiche di Genere dell’Università di Roma Tre).
Nel corso degli anni sono stati fatti molti passi avanti, ma la strada è ancora lunga e le resistenze e i pregiudizi tanti. La limitata diffusione degli Studi di Genere nelle università italiane, pur non avendo mai impedito alla ricerca in materia di svilupparsi indipendentemente dall’ambito accademico, non è, però, priva di ripercussioni. La forte presenza di studiosi universitari che si occupano di una determinata materia ha, infatti, da sempre influenzato la visibilità e il fervore culturale a essa collegati. Di conseguenza, lo scarso impegno delle istituzioni universitarie nell’ambito degli Studi di Genere priva il dibattito su questi argomenti (al giorno d’oggi sempre più acceso) di un ulteriore grado di approfondimento che potrebbe derivare dalla presenza sul territorio di docenti, ricercatori e studenti specializzati in tale settore.
Un altro elemento da considerare, poi, è il valore sociale di tali studi che si collegano a importanti tematiche quali la configurazione e il rapporto tra i generi e gli orientamenti sessuali, la lotta alle discriminazioni e alla violenza di genere, le pari opportunità, la tutela e i diritti delle minoranze di genere. A questo proposito l’Unione Europea è chiara nel sottolineare il ruolo fondamentale dell’istruzione nel promuovere la parità di genere e in quest’ottica incentiva lo sviluppo dei Gender Studies come strumento di miglioramento sociale. Va poi considerato un altro aspetto, legato al riconoscimento del valore scientifico e accademico di tali studi e al conseguente modo in cui queste tematiche vengono percepite e trattate dai media e in generale dalla società italiana.
In un Paese dove la tradizione universitaria è antica e radicata, un forte collegamento con il mondo accademico è, infatti, considerato garanzia di rispettabilità e valore. Le tematiche di genere, però, vengono spesso trattate in modo superficiale e del tutto svincolato dalla letteratura nell’ambito. Un esempio è la cosiddetta “ideologia gender”, tanto temuta ed osteggiata dai conservatori e dai cattolici sostenitori della “famiglia naturale”. La retorica dietro a questa espressione (che più che alla gender theory, una reale teoria, fa riferimento ad una sorta di complotto per eliminare le differenze tra i sessi e minare “l’ordine naturale delle cose”) riduce il concetto di genere a una mera battaglia politica, ignorando completamente il valore scientifico di anni di studi accademici. Un maggiore investimento in questi studi da parte delle università aiuterebbe a vedere nelle teorie femministe e queer (e in generale nei Gender Studies) non solo l’elemento politico, che pure è chiaramente presente, ma anche il fondamentale bagaglio socio-culturale e didattico.
In un mondo globalizzato dove le tematiche legate al genere sono all’ordine del giorno il panorama culturale italiano continuerà a evolversi in questo campo, anche indipendentemente dal mondo universitario, grazie al contributo di studiosi, professori, giornalisti, scrittori e attivisti che si occupano di questi temi. Ai vertici delle istituzioni universitarie resta una scelta: continuare a dare poca considerazione a questi studi o impegnarsi davvero per colmare il gap italiano. In ciascuno dei due casi, però, non potranno ignorare il ruolo e la responsabilità che le università hanno verso la società.