Alle cinque di mattina del 28 febbraio, il carabiniere in servizio appuntato a Velletri ma residente a Cisterna di Latina, Luigi Capasso, ha aspettato fuori di casa la moglie dalla quale si stava separando, Antonietta Gargiulo, le ha sparato tre colpi ed è salito in casa, dove ha ucciso le due figlie di 8 e 13 anni. Si è poi barricato nell’appartamento per ore, mentre le forze del Nucleo negoziatori del comando provinciale di Roma cercavano, ignare del duplice omicidio, di farlo uscire. Capasso si è tolto la vita intorno alle 13:00 e quando i carabinieri sono entrati in casa hanno rinvenuto i tre corpi. Antonietta Gargiulo è sopravvissuta alla sparatoria ed è stata portata all’ospedale San Camillo di Roma, dove è stata operata alla mandibola per estrarre il proiettile, e dove è rimasta per una settimana in coma indotto. Sta lentamente riprendendo conoscenza, ma è ancora ignara della morte delle due figlie e del marito.
Quello di Cisterna di Latina è un fatto che ha delle implicazioni importanti, che vanno al di là della semplice “cronaca nera”. Bisogna prima di tutto considerare che a sparare, con la pistola d’ordinanza, è stato un carabiniere in servizio, un rappresentante della legge e dello Stato. Inoltre Antonietta Gargiulo – contrariamente a quanto “vorrebbe” la narrazione dei casi di femminicidio nei media tradizionali, che contempla solo donne deboli e incapaci di reagire contro uomini “accecati dalla gelosia” – ha subito agito chiedendo aiuto, eppure si ritrova in terapia intensiva con tre ferite da arma da fuoco nel corpo.
Come fanno ipotizzare le telefonate tra i due coniugi e come conferma Maria Concetta Belli, avvocato della donna, le figlie erano terrorizzate dal padre. Capasso qualche mese fa si era presentato allo stabilimento Findus dove Antonietta lavorava e l’aveva aggredita davanti ai colleghi. La donna aveva dunque presentato un esposto e si era rivolta al comandante dell’arma dei Carabinieri di Velletri e a un centro antiviolenza senza tuttavia denunciare Capasso, forse a causa delle minacce a cui lui l’aveva sottoposta. Tramite denuncia, infatti, si informa la pubblica autorità della presenza di un reato perseguibile. Con un esposto, invece, ci si limita a informare le autorità dell’esistenza di dissidi rilevanti tra le parti – situazioni connotate da accesa conflittualità, che si ritiene debbano essere monitorate per prevenire la commissione di reati ed eventuali epiloghi drammatici dei rapporti. La differenza delle due procedure, insomma, consiste nel riconoscimento della perpetrazione di un reato o nell’intenzione di prevenirlo.
Il marito, a sua volta, aveva presentato un esposto contro di lei, accusandola di averlo allontanato dalle figlie. In questa occasione Antonietta aveva avuto modo di ribadire le violenze del carabiniere davanti alla questura. Antonietta aveva agito dunque nel modo più corretto e nei limiti delle sue possibilità senza avere una denuncia in mano, rifiutando di incontrare l’uomo da sola e facendo in modo di sospendere le sue visite alle bambine, tutelando così, almeno teoricamente, la sua incolumità e quella delle sue figlie. Eppure nulla ha impedito a Capasso di sparare a tutta la sua famiglia.
Viene spontaneo chiedersi come sia possibile, dato il suo comportamento anormale, che Capasso fosse ritenuto idoneo al possesso di un’arma da fuoco. L’omicidio di una moglie da parte del marito molto spesso proviene da una dinamica di potere ben chiara: il marito esercita il suo “diritto di proprietà” nei confronti della moglie e, quando quest’ultima si ribella a questo “diritto”, ad esempio chiedendo la separazione, il marito lo esercita al massimo grado, privandola della vita. Capasso si è spinto oltre, uccidendo anche le figlie ed estendendo questo “diritto” anche su di loro: non c’entrano gelosie e passioni, che sempre vengono chiamate in ballo quando una moglie viene uccisa dal marito o dall’ex. È troppo riduttivo pensare che un assassinio del genere sia solo il frutto di un raptus o di un atto di follia, magari motivato dal troppo amore o dalla troppa passione. La passione non ti porta a pianificare un omicidio plurimo alle cinque di mattina, lasciando lettere con indicazioni su eredità e funerali ai tuoi parenti, e un assegno da cinquemila euro per l’altra donna con cui hai una relazione.
L’avvocato Belli, con cui Antonietta era già in contatto prima dei fatti tramite il centro antiviolenza a cui si era rivolta, si pone le stesse domande. Belli parla di un “cortocircuito” che avrebbe a un certo punto interessato la vicenda dell’idoneità al servizio di Capasso: a quanto pare il carabiniere era stato sospeso dal servizio per otto giorni a seguito di quel colloquio di Antonietta con il comandante dei carabinieri di Velletri, il quale promise alla donna che “avrebbe fatto ragionare” l’appuntato. Evidentemente otto giorni lontani da una pistola non bastano a “far ragionare” un potenziale assassino che perseguita la moglie e le figlie, un violento che molti nel paese riconoscono come tale, che aggredisce una donna davanti a decine di persone sul posto di lavoro.
E così si aggiunge un’altra questione fondamentale, che rende questo fatto di cronaca un caso che va ben al di là delle dinamiche di una famiglia e dell’omertà di una cittadina di provincia. Un carabiniere è un rappresentante della legge, e la legge dice di non uccidere. Un carabiniere è un rappresentante dello Stato. Anziché riflettere sul fatto che un rappresentante dello Stato abbia utilizzato la pistola d’ordinanza, per il cui possesso era risultato idoneo, per uccidere due bambine e una donna, si preferisce sottolineare come sì, Antonietta avrà pur presentato un esposto, ma un esposto non è mica una denuncia, e quindi cosa si aspettava di ottenere. E non si tiene conto, invece, di come un intero comando di carabinieri, che con quel rappresentante dello Stato egomaniaco e violento stava a stretto contatto tutti i giorni, non sia stato in grado di evitare una strage simile. Si preferisce, piuttosto, intervistare passanti, parenti e vicini di casa, che lo definiscono un “bravo ragazzo”. La retorica dei “bravi ragazzi”, solo perché in quanto militari sarebbero automaticamente dotati di valori civili e moralità, ritorna spesso quando si vuole elogiare l’operato delle Forze di Polizia come un corpus unico di giovani che si sacrificano per la patria e che non commettono mai errori.
Per ottenere l’idoneità al servizio oggi si effettua un colloquio con un’equipe medica e si utilizza il cosiddetto “test Minnesota”, attraverso cui si valutano le attitudini psicologiche dell’individuo. Il test è stato creato nel 1942 dall’Ospedale dell’Università del Minnesota, da cui prende il nome, ed è stato aggiornato più e più volte fino all’ultima revisione, datata 2001. Esso consta di una serie di domande, a cui si deve rispondere “vero” o “falso”, su aspetti anche molto banali della vita quotidiana. Lo scopo di questo test è valutare la presenza di stati di depressione, paranoia, mania, ansia, tossicodipendenza e persino disagio coniugale. L’idoneità psichica viene data una volta per tutte, senza che vengano effettuati controlli periodici, a meno che non ci siano sospensioni dal servizio – come nel caso di Capasso – che rendano necessaria la ripetizione dell’esame.
Al momento, non è possibile trovare registri o dati statistici ufficiali che riguardino i delitti commessi dai rappresentanti delle Forze di Polizia. La “Relazione al Parlamento sull’attività delle Forze di Polizia, sullo stato dell’ordine e della sicurezza pubblica e sulla criminalità organizzata” che viene svolta ogni anno contiene dati che riguardano la mafia, il traffico di stupefacenti, la contraffazione, i furti di rame, l’immigrazione clandestina e la violenza di genere, ma non c’è traccia dei crimini commessi dalle Forze di Polizia stesse. Negli Stati Uniti, una nazione che con la violenza della polizia ha un problema ben noto, questi dati vengono monitorati: l’FBI pubblica ogni anno un rapporto sui reati commessi nel territorio che ha una sezione dedicata agli omicidi compiuti dalla polizia. Secondo quanto calcolato da Alessandra Ziniti su La Repubblica del 2 marzo, in Italia gli uomini in divisa che hanno una pistola in dotazione sono circa 450mila, meno del 2,5% della popolazione maschile, ma l’anno scorso hanno commesso l’8,5% dei femminicidi, 10 su 117.
Esistono, invece, molti dati statistici ufficiali che riguardano la violenza di genere. Nell’ultima Relazione sull’attività delle Forze di Polizia disponibile online, che contiene dati che riguardano l’anno 2015, si traccia una panoramica della violenza esercitata nei confronti del “sesso debole” (c’è scritto davvero sesso debole). C’è un dato interessante ai fini dell’analisi del caso di Cisterna di Latina: nel 2015 i soggetti allontanati con effetto immediato dalla casa familiare in caso di atti persecutori o di violenza sono 246, con un aumento del 236% rispetto al 2013. Gli ultimi dati Istat disponibili, pubblicati nel 2014, riscontrano che 1 milione 524 mila donne ha subìto atti persecutori dall’ex partner. Le donne separate o divorziate hanno inoltre subìto violenze fisiche o sessuali in misura maggiore rispetto alle altre (51,4% contro 31,5%). Quindi, per un milione e mezzo di persone come Antonietta, ne vengono allontanate meno di 250 come Capasso.
La discussione su questo caso di cronaca si sta dimostrando superficiale, pietistica, se non addirittura scandalistica. È la sconfitta di un sistema mediatico, che anziché porre le giuste domande risponde a quello che nessuno ha mai chiesto, come dettagli irrilevanti sulle vite private di vittime e assassini. È la sconfitta di un Paese che nello scorso anno ha tagliato il Fondo per le Politiche sociali (i soldi che servono per finanziare i centri antiviolenza) da 313 milioni a 99,7 milioni di euro. Presto ci si dimenticherà del caso di Cisterna di Latina e delle sue implicazioni sociali e politiche, mentre tanti altri fatti di cronaca continueranno a invadere i nostri media, con interviste ai vicini e immagini di parenti in lacrime ai funerali. È questo il giornalismo di cui abbiamo bisogno, un giornalismo che indugia su particolari simili e non indaga, ad esempio, quali falle del sistema portino a tragedie simili? Forse è giunta l’ora che si arrivi a distinguere tra dovere di cronaca e dovere di critica, nell’antica tradizione del giornalismo come somma di fatti e distinzioni, due addendi che solo se ben separati possono dare come somma il progresso del discorso pubblico.