Se una strage diventa marketing
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L’ennesima catastrofe italiana è un’occasione per riflettere su quella che sta diventando – o forse è già diventata da tempo – la prassi comunicativa della politica nostrana. Una procedura che vale la pena analizzare senza prendere necessariamente in considerazione la tragedia in sé, le sue cause, le responsabilità, e tantomeno le vite umane coinvolte. Il punto è l’elaborazione dell’accaduto da parte di una politica proiettata nell’era, che non penso di esagerare nel definire post-democratica, della comunicazione via web.

In questa dimensione, l’evento catastrofico viene declinato attraverso alcuni passaggi chiave, come seguendo una sorta di ormai rodato manuale del populismo. In primo luogo, avviene l’individuazione di un nemico, interno o esterno, se possibile entrambi. Poi arrivano la stigmatizzazione del capro espiatorio e la promessa di una punizione esemplare – se possibile crudele, da giustizia barbarica. Infine, le promesse semplicistiche e demenziali che mirano al solo effetto emotivo, facendosi portatrici di un criterio di retribuzione infantile in un ambito che invece richiederebbe riflessioni ben più approfondite, le quali non sarebbero però compatibili con la rapidità necessaria al populista di internet. È bene sottolineare come queste promesse non debbano necessariamente essere realizzate. Non è neppure necessario che siano davvero realizzabili. L’importante è che vengano annunciate e che siano, seppur nella loro insensatezza, coerenti con i sentimenti dell’opinione pubblica, ben coltivata in precedenza dal populista in questione e trasformata in folla irrazionale.

Nel 2018, come già avviene da molti anni, in Italia il nemico esterno principale è l’Unione Europea: perfetta nella sua incapacità, nella sua mancanza di definizione e mal compresa invadenza. Un bersaglio perfetto per il populista nell’era dei social network, che rigetta la riflessione per abbracciare la semplificazione. Perfino il migrante, nel suo ruolo di nemico esterno, passa in secondo piano rispetto all’Ue, che ne impone l’accoglienza con futili moralismi sui diritti umani.

C’è poi il nemico interno: i tecnici, meglio ancora se appartenenti a mondi lontani, transnazionali, poco conosciuti e percepiti come loschi – e non sempre la fama è immeritata. La finanza, la burocrazia, ma anche chi lavora in settori naturalmente poco inclusivi per via della loro  complessità – come i membri della comunità scientifica – sono raccolti in un insieme amorfo definito come “casta”. Non si salvano certamente i politici: l’abilità retorica del populista sta proprio nel creare quella cecità quasi miracolosa che gli permette di attaccare ai colleghi etichette dispregiative senza rimanerne intaccato a sua volta. Nel disperato tentativo di comunicare a un pubblico sempre più sordo a certi argomenti, la tentazione di usare l’arma della semplificazione colpisce sia la destra che la sinistra e, per essere brandita va sfoltita di tutte le spine della critica sociale e della lotta di classe.

I fratelli Benetton
Il medico, accademico e divulgatore scientifico Roberto Burioni attaccato nel corso della polemica antivaccinista

L’avversario va spazzato via, almeno a parole. Deve essere distrutto nell’immagine, umiliato e deriso come insignificante e meschino, e al contempo presentato come il male assoluto, un’infezione che si propaga ovunque. Vale la pena notare in questo senso l’espressione spesso utilizzata di fare “piazza pulita”, in una sorta di eterno e ricorrente ciclo. Quella del populista è una violenza verbale e conservatrice, non riflessiva e di facile manipolazione. Si può sbraitare, senza averne titolo, di voler annullare concessioni ignorando completamente le procedure necessarie e i problemi conseguenti; si può accusare con menzogne acrobatiche l’Ue di aver negato i fondi; un presidente del Consiglio (e avvocato!) può dire con disinvoltura che “Non possiamo attendere i tempi della giustizia penale” per recidere i contratti di concessione. Tutto questo perché, come si è detto, non importa che le promesse, anche se sotto forma di minacce, vengano davvero realizzate, perché la comunicazione nevrotica, dopo poche ore, diventa obsoleta, e viene rapidamente dimenticata. L’importante è ricevere l’attenzione mediatica e, dunque, arrivare alla folla.

Il premier Giuseppe Conte in visita a Genova il 14 agosto 2018 dopo il crollo del ponte Morandi

Purtroppo, questo genere di comunicazione pavloviana paga, almeno nell’immediato, in termini di visualizzazioni, like e applausi. Il vincente senza scrupoli è osannato persino durante i funerali di Stato, e attorno a lui si raccolgono per scattare selfie tutti coloro che ne apprezzano le promesse, nell’ignoranza delle reali possibilità delle istituzioni. Forse è superbo giudicare il tifoso con la bava alla bocca, perché resta il dubbio che nemmeno lui creda davvero a certe menzogne, ma che cerchi solo un sollievo dalle sue personali frustrazioni e dalle pene della società atomizzata.

Il selfie con Matteo Salvini dopo i funerali di Stato, Genova, 18 agosto 2018

Questo metodo comunicativo da panem et circenses, fatto di promesse per i buoni e di spettacolarizzazione dell’umiliazione del nemico è un’aberrazione. Come in un incubo distopico, la propaganda politica resta intrappolata in un eterno presente che si ripete ad libitum, fatto di scandali, paura, odio, rabbia e speranza – poi costantemente delusa. Una storia da raccontare che diventa reale e si trasforma in una vera trappola. La provocazione futurista proto-fascista del rifiuto del pensiero in nome dell’azione diventa solo propaganda, dove l’azione, dopo aver strangolato il pensiero, rimane immobile sul luogo del delitto borbottando demente. Nulla avviene davvero, se non la riproduzione delle stesse dinamiche, magari giustificate dalla catastrofe stessa: su una grande opera crollata si sollecitano più grandi opere, confidando che il rumore di fondo coprirà le trattative.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ai funerali di Stato, Genova, 18 agosto 2018
Il vicepresidente del Consiglio dei ministri Luigi Di Maio

Il passato, la memoria, sono qualcosa di cui diffidare. La progettualità, il futuro, rimangono paralizzati. Quante volte si può riprodurre questo giochetto? Fino a quando si può girare a vuoto?

In tutto questo, in questa narrazione della catastrofe non problematizzata, nella campagna elettorale permanente e nella politica reale inesistente, un po’ di sollievo proviene dalle reazioni istintive ma non becere, al di fuori della vuota celebrazione, dell’odio a comando, della speranza nel padrone dalla promessa facile. Da quei tentativi silenziosi di ricostruire una comunità, di ricostruire la solidarietà mai così bistrattata come adesso, dai tentativi di riflettere sul passato e di pensare al futuro. Che siano la sabbia nell’ingranaggio che gira a vuoto.

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