In un regime capitalista, il dogma di base è “ognuno per sé”. Tutti traiamo beneficio dall’instancabile ricerca del nostro interesse, come se una “mano invisibile” fosse lì a guidarci verso un bene comune. Dovremmo quindi tentare di accaparrarci tutto ciò che possiamo, non solo in termini di beni personali, ma anche sul lavoro. Qualsiasi sia il prezzo del mercato, è quello che l’acquirente dovrebbe pagare. In questo contesto, proprio come l’idea che debba esistere un salario minimo, la proposta di fissare una paga massima sembra minare la libertà che lo stesso mercato libero dovrebbe garantire.
Tuttavia, questo modo di vedere le cose ha delle conseguenze drammatiche. La prima è l’esplosione delle disuguaglianze economiche, un problema che hanno sperimentato tutte le democrazie liberali negli ultimi 30-40 anni. La distanza in termini di retribuzione tra chi sta al vertice e chi invece risiede nei gradini più bassi è (quasi) la stessa che c’era durante la Gilded Age (negli Stati Uniti è il periodo che va dal 1870 al 1900 circa, partendo dalla presidenza di Ulysses S. Grant per terminare con la presidenza di William McKinley, ndr) nei ruggenti anni Venti, ed è rimasta la stessa fino alla Grande depressione del ‘29. Diversamente da allora, però, l’aumento della sperequazione economica non è causato dai profitti sul patrimonio. Oggi, ciò che davvero fa aumentare questa distanza tra le persone sono gli stipendi – vergognosamente alti – dei grandi manager d’azienda. Nel 2017, per esempio, i 200 CEO più pagati degli Stati Uniti hanno ricevuto tra i 13,8 e i 103,2 milioni di dollari ciascuno; cifre molto lontane anche dalla soglia di guadagno dello 0,01% della popolazione con gli stipendi più alti (che oggi è di 8,2 milioni di dollari). Ancora più preoccupante poi, è il fatto che mentre il compenso dei top manager è aumentato costantemente negli ultimi decenni, i salari di tutti gli altri, al netto dell’inflazione, sono rimasti praticamente gli stessi.
Sono in molti a trovarlo sbagliato, ma nonostante questo tendono comunque a pensare che il capitalismo ci richieda di accettare questa condizione. Per altri, addirittura, sarebbe anche qualcosa di cui essere contenti. In realtà, nulla nella teoria capitalista stabilisce la tollerabilità di simili livelli di compenso. L’unica cosa che afferma è che sia necessario dare alle persone degli incentivi affinché siano più produttive. Ma siamo davvero così sicuri che qualcuno che guadagna 100 milioni di dollari l’anno lavori di più e meglio di chi ne prende “solo” 10? Il compenso infatti – così come ogni altra cosa – è affetto da ciò che gli economisti chiamano “utilità marginale decrescente”: più è alto e meno funge da incentivo. Può arrivare persino a perdere del tutto questa sua caratteristica – anche perché c’è un limite a quanto strenuamente può lavorare una persona. A questo punto, se dovessimo seguire i precetti del capitalismo, dovremmo concludere che non ha senso aumentare continuamente lo stipendio di qualcuno, perché a un certo punto non c’è più nulla che possiamo ottenere in cambio.
C’è chi potrebbe rispondere dicendo che i CEO guadagnano semplicemente le cifre che corrispondono al valore che il mercato ha associato al loro lavoro. Il loro compenso, infatti, è calcolato sulla base di una formula matematica stabilita nel momento in cui sono stati assunti e, fin quando questa resta valida, i soldi che ricevono sono i soldi che è giusto che ricevano. Tuttavia, il valore del lavoro di un CEO non è deciso in un contesto di reale competizione. La formula che stabilisce il suo stipendio, infatti, è elaborata dal gruppo di manager dell’azienda che lo assume, che siede in una sorta di “commissione per la retribuzione”. La cifra, solitamente espressa in un range, è stabilita comparando i compensi medi di figure professionali simili nel settore di riferimento. Potrebbe ad esempio trattarsi di una somma che va da 1 milione a 60 milioni di dollari, in base all’ambito e alle dimensioni dell’azienda in oggetto, con una media di 18 milioni di dollari. Inoltre, considerato il fatto che un CEO è in grado di ricompensare i membri della commissione per la retribuzione in svariati modi dopo la sua assunzione, è chiaro che questo gioco lascia spazio a episodi corruttivi.
Anche non volendo considerare questo aspetto, tuttavia, ci sono alcuni problemi che riguardano la stessa comparazione realizzata dalla commissione per la retribuzione quando deve stabilire un’offerta. Questa infatti non si può permettere di offrire il minimo del range stabilito perché significherebbe dichiarare che l’azienda dà alla persona che sta per assumere il valore del CEO peggio pagato del settore. Potrebbero altresì offrire più della soglia massima, solo per dimostrare al candidato quanto per loro valga la sua figura professionale. Alla peggio, tuttavia, offriranno semplicemente poco più della media – nessuno vorrebbe far intendere che la persona che sta per accogliere in squadra vale “meno della media”. In questo modo, tuttavia, la media stessa continua a salire. La volta successiva, quando un’altra commissione dovrà riunirsi per comparare gli stipendi medi del settore, questa sarà necessariamente più alta. In questo caso non è il mercato ad alzare il valore del lavoro del CEO, ma le cifre salgono semplicemente perché tutti cercano di superare la media corrente. Si tratta di quello che gli economisti chiamerebbero un fallimento del mercato e, per questo, stabilire un tetto massimo per i compensi non interferirebbe con la sua libertà perché è il mercato stesso a non funzionare in maniera efficiente.
Ma come si può assumere le persone migliori, se non si è disposti a pagare il prezzo corrente? Non è ovvio che i migliori vorranno andare dove sono pagati di più? Questo sarebbe vero se fosse scontata l’equazione “maggiore stipendio=maggiore competenza”, ma non è così. È molto difficile capire chi ha sia le capacità che il talento per essere un ottimo CEO, anche perché le performance passate non sono una garanzia di successo in futuro. Ci sono CEO che hanno distrutto le proprie compagnie e ci sono aziende che sono state portate avanti da chi non aveva alcuna esperienza di management, persone che hanno iniziato a lavorare quasi in cambio di nulla e poi sono riuscite a trasformare le loro aziende in colossi. Steve Jobs è un esempio lampante: la Apple ha vacillato quando lui se n’è andato ed è tornata a crescere solo quando è rientrato, con uno stipendio simbolico di un dollaro all’anno. Per questo le compagnie non dovrebbero preoccuparsi di perdere i candidati migliori solo perché qualcuno là fuori è disposto a pagarli di più. Ci sono professionisti molto qualificati disposti a lavorare per 10 milioni di dollari l’anno, specialmente se gli viene data la possibilità di guidare un’azienda, e hanno le stesse chance di lavorare bene di quelle che ne chiedono 100 milioni.
Tuttavia, si potrebbe ancora dire che questo priva i CEO del compenso che meritano. D’altronde, se la compagnia ha buoni profitti, anche loro dovrebbero guadagnare altrettanto. Ma quello che spesso ci si dimentica è che l’andamento di un’azienda dipende dal lavoro di molte persone. Se facciamo questo ragionamento per i capi, allora dobbiamo farlo per tutti gli altri: se l’azienda va bene, tutti dovrebbero ottenere una parte dei profitti, ma questo non succede. Perdipiù, quando una compagnia va male, gli stipendi dei CEO continuano a salire e rimangono comunque sproporzionatamente alti rispetto alle performance dell’azienda – in maniera del tutto contraria alla logica capitalista. Per giustificarsi, le compagnie spesso dicono che i CEO non dovrebbero essere “incolpati” delle congiunture negative del mercato. Tuttavia, è chiaro che, se ci sono così tanti fattori che contribuiscono a determinare il cattivo andamento di una compagnia, allora ce ne sono altrettanti che ne determinano il successo. Ed è praticamente impossibile stabilire con certezza quanto ogni singolo impiegato ha contribuito ai profitti.
A questo punto, la domanda scontata è: dove dovremmo fissare questo limite? È necessario ragionarci, e tararci sull’esperienza, ma io propongo di iniziare con un massimale di 10 milioni di dollari per un CEO che lavora negli Stati Uniti, e di stabilire anche che nessun’altra figura in azienda possa guadagnare più di lui. Questo farebbe sì che i top manager rientrassero comunque nello 0,01% degli statunitensi più pagati e sarebbe sufficiente ad attrarre persone di talento da tutto il mondo. Per le compagnie che invece lavorano negli States ma che hanno base altrove, non sono quotate a Wall Street, non operano o hanno impiegati sul territorio statunitense – e hanno questo genere di contatti altrove – bisognerebbe trovare un limite simile, calcolandolo sulla base della distribuzione del reddito del Paese in questione.
Per evitare poi che le persone provino ad aggirare il sistema, quando si tratta di multinazionali che hanno contatti con diverse giurisdizioni, il limite dovrebbe essere adeguato all’economia che rappresenta la reale fonte di guadagno dell’attività. Quando, ad esempio, il 40% dell’attività di un’azienda è stabile in una nazione con limiti diversi, più alti o più bassi rispetto ai nostri 10 milioni, bisognerà fare tutti gli aggiustamenti del caso. In ogni caso, porre un limite aiuterebbe a ridurre la costante crescita della sperequazione economica e a prevenire il rischio che CEO spericolati e incoscienti tentino di gonfiare il valore della propria compagnia e quindi il loro bonus. Scoraggerebbe inoltre la delocalizzazione in paradisi fiscali e potrebbe favorire la salita al potere di una nuova leadership, potenzialmente più creativa e meno tradizionale.
Questo articolo è stato tradotto da Aeon.