La classe politica italiana che ha governato negli ultimi trent’anni ha fallito. Non lo dice un esponente del governo del cambiamento, lo dicono i numeri. Dal 2000 al 2017 gli stipendi dei dipendenti italiani sono aumentati in media soltanto di 400 euro all’anno, mentre nello stesso periodo in Germania si è registrata una crescita media di 5mila euro annui e in Francia la crescita media dei salari ha raggiunto i 6mila euro. Mentre i lavoratori nel resto del continente europeo hanno guadagnato potere di acquisto, la nostra classe media è praticamente scomparsa dai radar, scatenando nel Paese quello che il Censis ha definito “sovranismo psichico” e generando una prevedibile ondata di rancore.
L’Italia ha smesso di crescere da decenni, alternando gravi fasi di recessione a momenti di debole ripresa. Oltre al danno per le finanze pubbliche, l’economia che arranca ha un effetto diretto anche sullo stipendio che arriva nelle tasche degli italiani ogni mese. Così, negli ultimi anni, la forbice salariale si è ulteriormente ampliata a favore di Paesi come la Spagna che all’inizio del nuovo millennio aveva un livello medio salariale molto simile a quello italiano, mentre adesso c’è una distanza reale di circa 2mila euro. D’altronde, se alla mancata crescita aggiungiamo l’assenza di una seria politica industriale in grado di favorire lo sviluppo tecnologico e delle competenze la stagnazione dei salari diventa quasi ineluttabile.
In Italia c’è un evidente problema di produttività: non riusciamo a produrre valore aggiunto e ci accontentiamo di quello che abbiamo, cercando di recuperare quanto abbiamo perso attraverso la svalutazione del lavoro. Il risultato è che i nostri salari si stanno pericolosamente avvicinando a quelli dell’Europa dell’Est, non compensati però dai ritmi di crescita elevati. L’Italia dovrebbe essere in prima linea nelle produzioni ad alto valore aggiunto e nell’erogazione di servizi di eccellenza. Dovremmo puntare sulle competenze specialistiche e operai altamente specializzati. Dovremmo, appunto.
A partire dal secondo dopoguerra, una buona parte della forza lavoro è stata vincolata a contratti collettivi nazionali, con il sindacato che negoziava il compenso minimo per una larga fetta di lavoratori. Negli ultimi trent’anni, la precarietà introdotta nel mercato del lavoro ha ridotto il potere contrattuale esercitato dai sindacati con le imprese e di conseguenza quello, dei loro iscritti. Nel frattempo i dati negativi sulla crescita retributiva e l’aumento del lavoro precario hanno portato al centro del dibattito l’idea di stabilire un salario minimo legale – idea tutt’altro che peregrina. Le decine di migliaia di lavoratori della Gig Economy riceverebbero così il giusto compenso per l’attività svolta, così come i giovani professionisti, che rappresentano la fascia meno tutelata nell’attuale mondo del lavoro.
Se il contratto a tempo indeterminato è diventato una chimera, sono i contratti a tempo determinato e stage a conoscere un vero boom. Tra il 2012 e il 2017 il numero degli stage è cresciuto del 100%, arrivando a 368mila attivazioni in un anno. La precarietà dei tirocini non conosce crisi: più del 10% di quelli attivati riguarda persone di età compresa tra i 35 e i 54 anni e sono in aumento anche gli over 55. La formazione professionale, motivo dell’introduzione degli stage nel mondo del lavoro, viene ignorata dalla maggior parte delle aziende che hanno come unico obiettivo quello di risparmiare sul costo della forza lavoro.
Dietro l’insopportabile strumentalizzazione che è in atto sulla questione dell’immigrazione si nasconde un altro dramma diametralmente opposto, e ignorato, l’emigrazione. I cittadini italiani vanno all’estero per cercare un’occupazione ben pagata e in linea con le loro competenze professionali. Soltanto nel 2017 hanno lasciato il Paese circa 130mila cittadini italiani, confermando un dato che cresce anno dopo anno. Addirittura secondo i dati elaborati dal centro studi Idos, il numero di italiani che sono emigrati nello stesso periodo raggiungerebbe addirittura 285mila. Secondo l’Istat, il 64% dei 244mila i giovani che negli ultimi 5 anni sono andati a cercare un futuro all’estero possiede un diploma o una laurea. Tanto per capirci, negli anni Cinquanta lasciavano l’Italia circa 290 mila persone ogni anno. Stiamo raggiungendo livelli di emigrazione vicini a quelli del secondo dopoguerra ma ci appassioniamo alle vicende di 47 migranti che scappano dalle torture libiche.
In un contesto simile, l’idea che il solo reddito di cittadinanza possa migliorare la qualità del lavoro in Italia e il livello dei salari è un’illusione che non ha nessuna conferma nella realtà, soprattutto se si paragona il livello dei salari medi del Sud Italia con le cifre promesse dal governo con il reddito di cittadinanza. Nell’analisi depositata al Senato dal presidente dell’Inps Tito Boeri viene messo nero su bianco che circa il 45% dei lavoratori subordinati privati del Meridione guadagna meno dei 780 euro che verranno percepiti da alcuni dei beneficiari della misura simbolo del M5S. Chi riceve un reddito da lavoro dipendente potrebbe rimanere spiazzato da questo intervento, arrivando a pensare che mettersi nelle mani dello Stato sia un’alternativa migliore allo sfruttamento da parte di un privato per uno stipendio troppo basso. Se i partiti all’opposizione, centrosinistra in testa, denunciano l’eccessiva generosità delle cifre previste dal reddito di cittadinanza, nessuno riporta l’attenzione sul fatto che l’Italia è diventata un’economia basata sul precariato con milioni di italiani e stranieri sottopagati.
Vent’anni di pessima politica ci hanno portato fino a qui. Schiavi del nostro debito pubblico, innamorati del clientelismo, incapaci di innovare e, soprattutto, diffidenti verso ogni sforzo volto al miglioramento. L’Italia ha ancora le risorse sociali e tecnologiche per rimettere al centro del suo sistema produttivo i lavoratori, le loro competenze e la creatività. Sì, di strada da fare ce n’è parecchia, ma iniziare riconoscendo il giusto compenso a chi lavora è un ottimo punto di partenza.