Dovremmo supportare i malati di Covid e invece li stigmatizziamo come appestati. Siamo ottusi. - THE VISION
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Se prendessi il Covid probabilmente mi sentirei malissimo, penserei a tutti gli spostamenti fatti, alle persone incontrate e che potrei aver contagiato. Questo è uno dei pensieri e delle paure che, dall’inizio della pandemia, hanno iniziato a premere dentro di noi e che hanno portato gli altri, altrettanto terrorizzati, a puntare il dito in maniera più e meno diretta per dare la caccia agli “untori”. Allontanandoci sempre di più. Un conto però è la prudenza, un conto lo stigma sociale ed è il comportamento che dà vita alle discriminazioni, anche sulle malattie. Come quello che ha preso piede nei confronti di chi risulta positivo al coronavirus. 

“Anche a causa di una comunicazione molto enfatizzata, le persone hanno cominciato a sviluppare delle idee su coloro che risultano positivi,” spiega il dottor Enrico Prosperi, presidente della Siet (Società italiana di educazione terapeutica). “Tutto parte dall’utilizzo di termini come ‘contagiato’ e ‘untore’ che hanno portato la persona positiva a essere vista come un enorme pericolo per l’altro. È uno stigma che si sta realizzando su un qualcosa che non conosciamo, di nuovo. Un qualcosa che può trasmettersi facilmente all’altro, danneggiandolo”. 

La paura di contrarre il virus o, addirittura, di scoprire di averlo contratto ha amplificato questo stigma però a discapito di noi stessi e della società. “Da una parte, ci sono persone che possono aver paura di sentirsi stigmatizzate e decidono quindi di evitare di fare un test o un tampone, pensando a cosa accadrebbe se risultassero positive. Questo è stato definito ‘stigma anticipato’, e nasce proprio dalla paura di essere discriminati. Coloro che invece risultano positivi perché sono stati a contatto con persone che si sono rivelate positive, temono a loro volta il giudizio, portando al cosiddetto ‘stigma percepito’. Oppure se ci si ritrova positivi, sia con sintomi che asintomatici, e isolati – con la famosa quarantena – si vive uno stigma definito vissuto ovvero interiorizzato e fatto proprio, perché a noi risulta vero”. A quel punto ci vergogniamo di aver contratto il Covid, diamo la colpa a noi stessi perché non siamo stati capaci di proteggerci, sentiamo di aver sbagliato qualcosa. Ma non è affatto così.

Abbiamo passato la prima ondata a fare ricerche spasmodiche, specie sui social, dei positivi, a pretendere nomi e cognomi, arrivando addirittura in alcuni casi a inviare messaggi di accuse nei confronti di persone che, a volte, non avevano nemmeno contratto il virus, solo perché la paura ci guidava. “Gli operatori sanitari sono stati stigmatizzati. Essendo più a rischio a loro volta di contrarlo, di positivizzarsi, subivano ingiurie e minacce, magari quando tornavano a casa,” continua lo psichiatra. Ed è probabile che sia stata la comunicazione ad aver stigmatizzato per prima, come nell’uso del binomio “distanziamento sociale”. “Un conto è rimanere a una certa distanza che mi permetta di non facilitare la trasmissione del virus all’altro, mentre utilizzare il termine ‘sociale’ fa intendere di dover creare una distanza dall’altro. E questo può portare addirittura a vedere l’altra persona come un pericolo quando, in realtà, noi esseri umani abbiamo alla base le relazioni sociali da cui dipende il nostro benessere. Enfatizzare e sottolineare il numero dei morti, ha creato un vero e proprio terrore nelle persone. E si continua anche oggi. Questa pandemia non va assolutamente sottovalutata. Quanto ci costerà a livello collettivo, non solo da un punto di vista economico ma anche di tenuta sociale e a livello psicologico?”. 

Le recenti parole di The Lancet definiscono il Covid “una tempesta perfetta” anche in riferimento alle malattie mentali. “Dobbiamo tener conto dei disturbi post traumatici da stress. Isolati e terrorizzati, molti non hanno avuto figure di riferimento cui appoggiarsi. La medicina si è infatti trovata impreparata, il medico si è ritrovato impreparato, per fronteggiare le persone”. Senza contare un rischio molto alto che si sta correndo, la trascuratezza delle altre malattie. Alcune persone, per paura, hanno infatti smesso di fare controlli indebolendo l’importanza della prevenzione. “I controlli di prevenzione per i tumori e per le malattie cardiovascolari, le prime due cause di morte in Italia, hanno subito un forte calo. E sappiamo quanto il non fare prevenzione possa diventare, per alcune malattie, la differenza tra la sopravvivenza e la morte. Abbiamo anche cominciato a trascurare malattie che ancora oggi fatichiamo a considerare tali, come l’obesità. Quasi tutti i servizi per l’obesità sono stati chiusi, eppure la persona affetta da obesità, se contrae il Covid, ha un maggior rischio di finire ospedalizzata o in terapia intensiva oppure, con una percentuale di oltre il 100% superiore a una persona normopeso, di morire,” afferma. 

Isolamento e paura, precedute spesso da una comunicazione martellante, hanno quasi spaccato la popolazione aumentando le discriminazioni. “Oggi abbiamo due gruppi. Da una parte le persone terrorizzate che rischiano di stigmatizzare, se non lo hanno già fatto, gli altri. Ad un certo punto si è infatti iniziato a stigmatizzare i runner, successivamente ci si è spostati su chi andava in discoteca in Sardegna e poi sui giovani, perché addirittura volevano uscire per incontrarsi tra loro. Dall’altra parte, si è invece creato un gruppo di persone che hanno cominciato a negare la malattia, sottovalutarla o addirittura vederla come un complotto. Purtroppo l’essere umano ha la tendenza a diventare fazioso, un tifoso da stadio, mentre dovrebbe saper usare quel senso critico che può aiutarlo a leggere meglio le informazioni”, continua Prosperi. 

Oggi, però, forse qualcosa è cambiato. In questa Italia rossa, arancione e gialla, molte persone che hanno contratto il Covid sentono la necessità di parlarne, di raccontare la propria esperienza, con tweet, post, consigli e rassicurazioni. Si è quindi davanti a una diminuzione dello stigma? “Io non credo che questo fenomeno sia legato a una sua riduzione. Chiaramente molte persone, specie del mondo dello spettacolo, ne hanno parlato e questo, da una parte, può essere una cosa positiva, perché permette di normalizzare e far capire che tutti noi possiamo diventare positivi. Parlare di come non sia una colpa può essere d’aiuto, ma in chi vuole ascoltare. In chi non si lascia trascinare dai pregiudizi. Altri continueranno invece ad attuare comportamenti di discriminazione. In questo momento è importante ridurre lo stigma e cercare di essere empatici”. Uno stigma che si riduce ricordando come chi ha una malattia non è una persona che se l’è cercata, ma è un individuo che sta soffrendo. “Dovremmo accogliere le persone, cercare di averne compassione, nel senso del termine latino ‘compatior’, ovvero vivere l’emozione insieme all’altro”.

Oltre alla preoccupazione legata alla positività, chi contrae si trova anche a fare i conti con l’esclusione sociale. “Chi risulta positivo,” afferma Prosperi, “deve notare se ha interiorizzato lo stigma, quindi se comincia ad avvertire un senso di vergogna o di colpa. Bisogna essere consapevoli che non si ha nessuna colpa e niente di cui vergognarsi, ma il primo passo è accorgersi se si sta vivendo tutto questo. E soprattutto volersi bene. Dopodiché cercare di circondarsi di persone con cui poterne parlare, che siano in grado di ascoltare. In questo caso le relazioni sono fondamentali. Se si ha una buona rete sociale, si deve poter trovare qualcuno in grado di ascoltare. Rivolgersi ai sanitari. Se, purtroppo, il medico di base non risponde, magari perché ha tante persone da seguire, non bisogna perdere la speranza ma trovare un’altra figura di riferimento in grado di ascoltare il nostro bisogno di aiuto”.

La lotta allo stigma verso le malattie da parte della Siet, ha portato alla creazione della campagna “Unlike Stigma”, iniziata il 14 novembre (in occasione della Giornata mondiale del diabete) e che continuerà finché quello stigma non sarà cancellato. “Il malato viene stigmatizzato. E quando succede, ha meno possibilità di curarsi e di essere ben seguito dalle strutture. Spesso, molti stigmi vengono purtroppo dagli stessi operatori sanitari. E lo stigma, alla lunga, causa un aumento di ansia, stress, di alterazione del tono dell’umore con un ulteriore peggioramento del piano clinico”. Per aumentare questa sensibilità stanno prendendo sempre più spazio attività sui social, articoli e webinar rivolti sia ai professionisti che alle persone, che si impegnano a mettere in contatto i pazienti con i medici e gli operatori sanitari, affinché ci sia un avvicinamento tra chi si deve prendere cura e chi deve affidarsi. 

In questo caso il linguaggio, troppo spesso sottovalutato, ha un ruolo fondamentale: “Una persona che ha una malattia non è la malattia. Una persona affetta da obesità non è una persona obesa, è una persona con obesità. Se non si usa un linguaggio corretto, si rischia che quella persona si identifichi talmente tanto con la sua malattia da non dire, quando si presenta a noi, ‘Salve sono Mario Rossi, ma salve sono diabetico’ e questo non aiuta la cura”. Questi due mondi, quello dei medici e quello dei pazienti, sono per forza di cose molto vicini e allo stesso tempo molto lontani. “Noi medici dobbiamo ricordare che possiamo diventare pazienti. È una riflessione da fare prima, senza arrivare ad esserlo e senza stigmatizzare l’altro”.

Accanto a “Unlike Stigma”, spicca la frase “Time for us”, che vale sia per i sanitari, che si devono prendere il tempo per se stessi che gli consenta di essere empatici nei confronti del paziente, accompagnandolo nella sua cura; sia per i pazienti stessi, che si devono prendere il tempo per guarire e occuparsi di se stessi, senza sensi di colpa o inutili vergogne. “Ciò che possiamo fare è aiutare una persona a vivere la vita migliore che può avere, anche con la malattia,” conclude il dottor Prosperi. Superare ed eliminare lo stigma verso le malattie, come il Covid, è possibile, ma a patto che se ne parli e che ci si circondi di persone, invece che allontanandosene.

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