A Roma, circa vent’anni fa, negli archivi della Library of Congress sono state rinvenute tre lettere scritte tra il maggio e il settembre del 1954 da Indro Montanelli all’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce, insediatasi in Italia da poco, dopo la nomina del presidente Eisenhower, che doveva sdebitarsi per il suo appoggio e quello del marito (magnate dell’editoria statunitense) durante la campagna presidenziale del 1953. La linea dell’ambasciatrice fu caratterizzata da un interventismo massiccio – e per certi aspetti ingenuo – rispetto agli affari interni in Italia. In queste lettere Montanelli le propone di mettere insieme un’organizzazione “terroristica e segreta”, composta da “centomila bastonatori” reclutati “secondo la tecnica comunista delle cellule”, graditi ai carabinieri, cementati dall’anticomunismo e preferibilmente fascisti e monarchici, uniti da una bandiera e sotto il comando di un apposito capo. Il gruppo sarebbe stato sponsorizzato da una parte dei vertici confindustriali, e avrebbe avuto bisogno dell’aiuto “non platonico” – armi, flotta, aviazione – degli Stati Uniti, e sarebbe entrata in azione in caso di vittoria elettorale dei comunisti, per fare un colpo di stato e scatenare una guerra civile “allo scopo di inchiodare l’Italia nell’Alleanza atlantica”. Suggeriva inoltre, nel caso il piano insurrezionale non fosse andato a buon fine, di concentrare alcune forze in Sicilia, in modo da potersi preparare alla riscossa grazie ai favori di un nobile locale in ottimi rapporti con la mafia.
È a quest’uomo che nel 2006 l’allora sindaco di Milano, Gabriele Albertini, ha deciso di intitolare una statua commemorativa, in uno dei parchi più importanti della città, non lontano da dove il giornalista aveva subìto un attentato delle Brigate Rosse. La domanda che dovremmo porci prima di tutto è perché glielo abbiamo lasciato fare. Dato che, nonostante le ragioni per opporsi duramente a quella scelta fossero parecchie, all’epoca le critiche sollevate nacquero soprattutto dal fatto che Montanelli odiasse le celebrazioni e le statue e quindi dedicargliene una fosse un atto irrispettoso. Oliviero Toscani con una delle sue classiche boutades disse che era come se lo avessero gambizzato due volte; mentre Elio Fiorucci, il famoso stilista, affermò che erano riusciti a fargli da morto ciò che nessuno era riuscito a fargli da vivo, metterlo in gabbia. Queste parole, lette alla luce delle polemiche di oggi, acquistano un significato diverso, per fortuna. Diciamo che neanche prima la statua era amata, ma per i motivi sbagliati. A prescindere dal giudizio estetico del pezzo in ottone che lo rappresenta, Montanelli è infatti diventato un simbolo negativo, ben inchiodato al suolo. Eppure non si tocca, neanche oggi che le coscienze iniziano a risvegliarsi dal torpore berlusconiano e capitalista in cui sono rimaste immerse a lungo.
Tutto questo assume contorni ancor più paradossali se si pensa che per primo Montanelli, quando rifiutò la nomina a senatore a vita, disse “i monumenti sono fatti per essere abbattuti”. E aveva ragione. I figli uccidono i padri, così come i rivoluzionari da sempre abbattono i simboli del potere contro cui si ribellano. I monumenti non sono opere d’arte, sono simboli, e come diceva Adolf Loos sono prima di tutto architettura. Le opere d’arte stanno nei musei e si giudicano con criteri estetici, i monumenti andrebbero invece giudicati con criteri etici.
Prima di andare a rimestare nella critica artistica e architettonica come hanno fatto in tanti in cerca di giustificazioni, o addirittura nelle teorie della conservazione – in cui in Italia andiamo forti quasi quanto nel non riuscire ad avere una percezione oggettiva della realtà che ci circonda – dobbiamo ricordare che nel 1936 Montanelli era un ufficiale fascista, che partito per la campagna d’Etiopia si prese in “leasing”, come dirà lui stesso, una schiava bambina di dodici anni, che chiamava “scimmietta” e di cui – “faticando a superare il suo odore” – ne fece uso sessuale facendosi assistere dalla madre per “demolir[ne]” l’infibulazione (pratica ancora estremamente diffusa). Di tutto ciò Montanelli non si pentì mai, ritenendo la cosa una prassi accettata, e alla compravendita di un essere umano e all’abuso di una minorenne si va ad aggiungere una lunga serie di dichiarazioni del giornalista “sacro” sulla superiorità della razza bianca, a giustificazione delle sue azioni e di quelle del regime fascista.
Facendo un grosso sforzo di immaginazione posso anche accettare che, fino a relativamente pochi anni fa, tutto questo potesse essere accettato dall’opinione pubblica – dato che la sensibilità verso certi temi e ingiustizie interessava ancora poche nicchie. Oggi, però, le cose sono cambiate, e forse i fautori delle belle arti dovrebbero farsene una ragione (d’altronde anche la senatrice leghista Lucia Bergonzoni è laureata in Arti figurative, eppure sembra avere le idee molto confuse sul tema). Le vittime iniziano a ribellarsi ai soprusi e agli abusi di potere e con loro per la prima volta anche tante persone che detengono i privilegi. I monumenti sono proprio le imposizioni estetiche attraverso cui il potere si autocertifica e si autocelebra. Quello che a volte sfugge è che anche la storia della critica artistica e architettonica è profondamente politicizzata e figlia delle ideologie da cui è nata. Dunque appellarsi a presunti principi di filosofia dell’arte e dell’architettura non è affatto sufficiente a sostenere determinate posizioni. La critica dell’architettura, in particolare – ma non solo – è figlia di un pensiero profondamente maschilista. E in ogni caso la critica dell’arte e dell’architettura, che ha caratteristiche intrinsecamente sociali e politiche, è da sempre stata lungi dall’essere un territorio puro, quando una possibile estensione del campo di battaglia ideologico. Credere il contrario è ingenuo. L’arte è sempre politica, e ancor più quelle arti che per nascere devono mescolarsi a fondo con determinati ambiti legati alla loro epoca (architettura e cinema in primis). Anche l’arte apparentemente più pura è politica, perché anche non esponendosi esplicitamente si sta facendo una scelta politica. Ogni scelta infatti lo è. Tra l’altro questi paladini della conservazione evidentemente non hanno mai letto le riflessioni di Cesare Brandi a riguardo, secondo cui probabilmente le vernici con cui l’opera è stata innaffiata sarebbero dovute rimanere, invece che essere pedissequamente ripulite.
Eppure i nostri politici sembrano prendersi a cura l’arte solo quando devono difendere un uomo che si è macchiato impunemente di diversi crimini. E a giudicare dalle reazioni sembra essere più grave l’oltraggio a una statua che a una bambina, o a tutte le persone non bianche e non ricche. E non sono solo gli esponenti di destra, più o meno estrema, ad aver giustificato questo personaggio, anche Beppe Sala – su cui il lockdown sembra aver avuto severe conseguenze psicologiche che gli hanno fatto dismettere i calzini arcobaleno per passare al tricolore – ha minimizzato la condotta di Montanelli, dicendo che “di errori ne facciamo tutti” e che le sue sono state “leggerezze”. E nel paradosso, se non faccio fatica a capire che uno come Montanelli non si sarebbe mai reso conto degli errori commessi – e quindi aspettarsi una qualsiasi manifestazione di rimorso per certi versi sarebbe stato assurdo (anche perché in questi casi a farlo dovrebbe entrare in scena il sistema giudiziario) – non posso tollerare che a oggi, nel 2020, i nostri politici semplicemente non riconoscano la gravità di questi atti, ultimo ma non ultimo l’avergli dedicato una statua, posizionata sul suolo pubblico. Rimuovere quella statua – perché qui in Italia è di rimozione che si parla, non di abbattimento – significherebbe in primis riconoscere di aver sbagliato a erigerla: sarebbe una necessaria presa di coscienza dei nostri errori, prima ancora che di quelli di Montanelli. E probabilmente è per questo che in molti si ostinano a difendere con tutte le loro forze quel pezzo di bronzo, quando ci sarebbero problemi più urgenti a cui dedicare le proprie energie: non difendono Montanelli, difendono se stessi. Per questo non rimuovere quella statua significa davvero avere una cattiva coscienza, ben peggiore di quella di Montanelli stesso, che non si faceva remore a manifestare le sue idee razziste e misogine quando intervistato. Alcuni hanno detto che Montanelli era ormai un personaggio anacronistico, che non si rendeva conto che il mondo era cambiato, ma alla luce di questa vicenda mi viene il dubbio che forse il mondo non è mai cambiato davvero e che anzi Montanelli stava anticipando quello che sarebbe successo dopo.
Se proprio vogliamo dirla tutta, su un piano prettamente artistico hanno un valore più alto le secchiate di vernice, rosa o rossa che sia, della statua in sé, simbolo di un potere opprimente, becero, razzista, maschilista e antidemocratico. Non solo dovremmo rivalutare la presenza di questa statua, ma anche il nome stesso dei giardini, così come di tante piazze intitolate, tanto per fare un esempio, al generale Cadorna.
Qualcuno si indigna dicendo che un precedente del genere farà sì che allora molte altre statue verranno rimosse. Se sono monumenti che sostengono personaggi e idee come quelle di Montanelli è meglio così, e se – come magari potrà succedere – verranno abbattuti monumenti innalzati ai giusti, si spera che prima o poi qualcuno avrà la forza per tornare a erigerli.