Piacenza, G8, Cucchi, non si tratta di "poche mele marce", ma di un pezzo di Stato da riformare

“Quanti cesti di mele marce abbiamo accumulato?”. Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, il diciottenne ucciso nel 2005 durante un fermo di polizia, ha commentato così la notizia degli arresti dei carabinieri della stazione Levante di Piacenza, non a caso parlando di cesti e non si singoli frutti. Quella delle mele marce è in effetti la formula che viene spesso usata in modo scorretto per sottolineare il fatto che gli scandali all’interno delle forze dell’ordine siano eccezioni che confermano la regola della validità dei corpi di pubblica sicurezza italiani. In effetti anche per il caso di Piacenza si è fatto ricorso a questo espediente, tanto a livello dirigenziale dell’Arma, quanto da una parte della politica. Eppure, a ripercorrere lo storico recente degli abusi, delle violenze e degli altri reati commessi dalle forze dell’ordine italiane, la sensazione è che quello delle mele marce sia un discorso che non regge. A essere malato sembra proprio il sistema nel suo complesso.

L’operazione Odysseus ha rivelato come i carabinieri della caserma Levante di Piacenza si siano macchiati di una serie di reati gravi, dal traffico di stupefacenti alla tortura, dall’estorsione alla violenza privata, passando per la ricettazione. I carabinieri di Piacenza sono anche accusati di essersi occupati durante il lockdown, tramite degli intermediari, del commercio locale di droga, utilizzando parte delle sostanze sequestrate o entrando direttamente in contatto con spacciatori della zona, che di fatto finivano sotto il loro controllo. Sempre secondo l’accusa, chi continuava a spacciare al di fuori del loro giro, creando una sorta di concorrenza, veniva picchiato selvaggiamente in caserma, come nel caso di un cittadino nigeriano lasciato in una pozza di sangue. Ci sono poi storie di violenze nei confronti di un concessionario affinché abbassasse il prezzo di una macchina, le feste in spregio alle normative anti Covid, le violenze su una transessuale, le certificazioni fasulle per ampliare il giro di spaccio alla vicina Lombardia, i soldi rubati e altro ancora. Sono dodici i carabinieri sotto indagine, di cui cinque arrestati. La procura ha parlato di “reati impressionanti”, mentre nelle intercettazioni si sentono gli stessi carabinieri comparare il loro modus operandi a quello della serie tv Gomorra. La caserma è ora sotto sequestro.

La vicenda è talmente forte che la riprovazione è stata unanime. Quello che però non si è riusciti a fare, neanche questa volta, è riconoscere che tanti indizi fanno una prova e che dunque l’Italia ha un problema con le sue forze dell’ordine. “Chi sbaglia paga ma nessuno infanghi la divisa”, ha dichiarato il leader della Lega, Matteo Salvini. “Non si usi questa vicenda per attacchi ideologici a forze dell’ordine”, ha ammonito la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. “L’operazione Odysseus isola mele marce nelle forze dell’ordine”, ha affermato la portavoce del M5S in Emilia Romagna, Silvia Piccinini. “Procederemo con il massimo rigore, ma io devo parlare a tutela dei 100mila carabinieri che ogni giorno e ogni notte sul territorio espletano il loro dovere al meglio delle loro possibilità”, ha sottolineato il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Giovanni Nistri. Dichiarazioni che fingono di affrontare il problema, ma che nella realtà dei fatti finiscono per rimetterlo nel cassetto e legittimarne così la sua probabile reiterazione.

Il modo migliore per salvare la reputazione delle migliaia di agenti onesti e impeccabili sul lavoro, che nessuno mette in dubbio esistano e siano largamente maggioritari, non è puntando i riflettori su di loro quando una nuova inchiesta coinvolge le forze di polizia, come a nascondere il marcio sotto al tappeto. Al contrario, è proprio su questo marcio diffuso che bisogna focalizzarsi, trovando il coraggio di riconoscerlo e operando una vasta operazione di pulizia da cui uscirebbero più protetti gli stessi agenti, oltre che i cittadini. Far finta che vada tutto bene e non impegnarsi per risanare il sistema delle forze dell’ordine contribuisce indirettamente a delegittimarne il ruolo.

Giovanni Nistri

Per capire che l’Italia ha un problema di polizia, si può andare indietro di anni, o si può restare nel presente. Nel primo caso, ci sono le vicende del G8 di Genova del 2001, con la macelleria messicana della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto definite “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, ma anche gli omicidi di Federico Aldrovandi nel 2005, di Stefano Cucchi nel 2009 e di altre decine di persone morte nelle mani dello Stato, su cui solo in rari casi si è fatta giustizia. Per non parlare dei numerosi altri episodi di violenze, abusi e traffico di stupefacenti che sono rimasti perlopiù nella penombra mediatica. Restando nel presente, poi, basta spostarsi in Piemonte. Mentre emergevano i dettagli dell’operazione Odysseus, un’altra inchiesta ha infatti messo sotto indagine 21 agenti di polizia penitenziaria del carcere torinese Lo Russo e Cutugno per il reato di tortura. Si parla di violenze di ogni tipo commesse sui detenuti: pestaggi ripetuti, punizioni corporali, umiliazioni e abusi psicologici. Le storie si riferiscono al periodo tra il 2017 e il 2019 e sono raccapriccianti. Tutto è rimasto coperto finora grazie alla connivenza e all’omertà delle figure dirigenziali del carcere – tra cui lo stesso direttore, che avrebbe chiuso un occhio sulle segnalazioni ricevute.

Ecco, se c’è un problema nei corpi di polizia italiani, che è anche il primo aspetto su cui si dovrebbe intervenire per cambiare lo stato delle cose, è proprio la diffusa omertà. Dal G8 a Stefano Cucchi, passando dai casi più recenti di Piacenza e Torino, si ripetono le storie di agenti estranei ai fatti che coprono, o comunque non segnalano, le condotte dei propri colleghi, in una sorta di spirito di squadra, di cameratismo, con cui si tutela il proprio corpo di appartenenza attraverso la tutela delle persone che lo compongono, al di là del loro comportamento. Questa omertà è caratteristica di un sistema malato che si sa essere tale, ma che non vuole confessare le sue colpe. Negare questa sua natura, difenderlo a spada tratta ogni volta che una nuova inchiesta torna a occupare le pagine dei giornali, è in fin dei conti una connivenza – per quanto morbida – con quegli abusi e violenze che si vogliono far passare come sporadici e che invece è chiaro siano diffusi.

Stefano Cucchi e il padre

Certo, ridurre il tutto all’eccezione permette di sgonfiare gli scandali, ridimensionarne la portata e accompagnare lo sguardo dei cittadini su quello che funziona. E permette anche di non affrontare, conseguentemente, il problema. Prima o poi, però, arriva il conto da pagare e la fiducia delle persone nei confronti delle forze dell’ordine finisce per incrinarsi definitivamente. L’esplosione delle rivolte negli Stati Uniti dopo l’omicidio di George Floyd è stata una sollevazione contro il razzismo insito nella società americana, ma anche contro una violenza della polizia che non si vuole più nascondere, accettare, subire. A Minneapolis i cittadini hanno dovuto imbastire una vera e propria guerriglia civile per convincere le istituzioni locali che era arrivato il momento di smantellare il malato corpo di polizia locale e rifondarlo.

I recenti fatti di Piacenza e di Torino vanno letti nella stessa ottica. Piuttosto che mele marce, si tratta degli ennesimi episodi che portano allo scoperto come tra le forze dell’ordine italiane siano diffuse le pulsioni violente, autoritarie e quindi, in fin dei conti, antistatali. Quell’uso legittimo della forza concesso dallo Stato alla polizia per garantire la sicurezza del Paese diventa l’arma con cui gli agenti sovvertono le regole stesse dello Stato. E l’opacità che caratterizza le catene gerarchiche, rivela un problema che va ben oltre ai singoli episodi. Perché quello che vediamo, di cui abbiamo notizia e che già sembra qualcosa di enorme, è in realtà solo una piccola parte, se la storia ci insegna che più o meno tutti i reati venuti allo scoperto hanno goduto della connivenza o di una mancata, effettiva, stigmatizzazione da parte dei colleghi. Non è solo un discorso di responsabilità penali individuali, ma di un ambiente che si è troppe volte rivelato corrotto, a causa delle gerarchie di potere e dei rapporti che si formano al suo interno.

Per cambiare le è necessario prima di tutto un processo di autocritica, da cui possa partire poi un percorso di democratizzazione all’interno dei corpi di polizia. Il rispetto dei diritti, della Costituzione, della dignità umana, la lotta agli abusi di potere e la prontezza nel denunciare quello che non va come parte stessa dell’opera di protezione della cittadinanza, devono diventare una regola per gli agenti. Bisogna cambiare radicalmente il pensiero che regge i corpi, ma anche più nel concreto i sistemi di reclutamento, valutazione, promozione e controllo, dimostratisi fino a oggi inadeguati. Sono pochi, ma necessari, passaggi per provare a superare casi come Piacenza e Torino.

In un contesto in cui la fiducia dei cittadini nei confronti delle forze dell’ordine va riducendosi, queste ultime devono dimostrare come ci sia consapevolezza dei propri difetti interni e si stia facendo di tutto per combatterli, così da rinnovarsi ed essere in linea con quello che una democrazia matura nel Ventunesimo secolo vorrebbe. Negare che c’è un problema, rifiutarsi di spendersi a livello politico e dirigenziale in un’analisi critica ad ampio raggio, non fa altro che accrescere lo scollamento tra società civile e polizia, perché in un sistema del genere, la prossima vittima, designata dal caso, potresti essere anche tu.

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