Il 25 maggio George Floyd, un uomo afroamericano di Minneapolis, nello Stato del Minnesota, è stato ucciso da Derek Chauvin durante un tentativo di arresto. L’agente, con il corpo di Floyd già bloccato a terra, si è inginocchiato sul suo collo tanto da impedirgli di respirare. Nonostante Floyd continuasse a ripetere di stare soffocando, Chauvin non si è spostato, come dimostrano diversi video diventati virali. In un primo momento Chauvin è stato semplicemente licenziato, per poi essere arrestato con l’accusa di omicidio colposo. Secondo l’autopsia, Floyd non sarebbe morto per asfissia, ma per condizioni mediche pregresse. Tuttavia Benjamin Crump, legale della famiglia di Floyd, ha chiesto in custodia il corpo di Floyd per ottenere un referto medico indipendente.
La frase I can’t breathe (Non riesco a respirare) pronunciata da Floyd nei suoi ultimi istanti di vita è diventata il simbolo delle proteste scoppiate a Minneapolis e ora diffuse in tutti gli Stati Uniti. Le manifestazioni e le rivolte sono l’ennesima risposta al suprematismo bianco, al razzismo sistemico e strutturale che stigmatizza le minoranze etniche e alle disuguaglianze sociali che colpiscono, in modo particolare, proprio queste ultime. Quando negli Stati Uniti si parla di police brutality, di brutalità della polizia, è inevitabile fare riferimento al tipo di trattamento che subiscono gli afroamericani ogni volta che vengono fermati per un controllo di polizia o vengono indagati. Secondo il report del 2018 Police Violence Against Afro-descendants in the United States della Commissione Interamericana dei Diritti Umani le comunità afroamericane sono soggette non solo a leggi repressive adottate da diverse amministrazioni locali e dalle forze di polizia che da loro dipendono, ma soprattutto al racial profiling, la profilazione razziale. Questa pratica consiste nel criminalizzare i soggetti di diversa etnia sulla base di luogo di nascita, origini etniche, lingua e religione. Un meccanismo che rende un determinato gruppo di persone automaticamente sospetto. Negli Stati Uniti questa pratica ha preso piede già nel 1700, quando gli slave patrol formati da bianchi si occupavano di sorvegliare i neri che vivevano nei ghetti per rafforzare le regole su cui si basava la schiavitù e prevenire rivolte e tentativi di fuga. È a causa della profilazione razziale che l’8 maggio, per esempio, Ahmaud Arbery è morto mentre faceva jogging in un parco di Brunswick (Georgia): inseguito da due persone bianche, è stato ucciso a colpi di fucile perché uno dei due, ex poliziotto, ha sostenuto che avesse un comportamento sospetto.
La discriminazione sistemica si palesa anche nella creazione di quartieri e zone ghetto con la pratica del redlining: si tratta della negazione sistematica di vari servizi da parte di agenzie governative o federali e del settore privato ai residenti di quartieri di comunità specifiche. Il redlining è una pratica discriminatoria che per decenni è stata utilizzata contro le persone afroamericane, impedendo loro di ottenere dei prestiti per avere accesso all’acquisto di case o appartamenti e portandole quindi ad abitare in quartieri ghettizzati, spesso in zone industriali. Questo è diventato ancora più evidente con la recente pandemia dovuta al COVID-19: dato lo scarso accesso all’assicurazione sanitaria, il virus ha colpito in modo molto più grave gli afroamericani, perché più impiegati nei settori essenziali e senza la possibilità di svolgere il lavoro da casa. A ciò si aggiunge l’alto tasso di disoccupazione che ha penalizzato con un gran numero di licenziamenti soprattutto le comunità afroamericane e ispaniche.
Questo quindi è il contesto in cui George Floyd è stato ucciso, ennesima vittima di in un sistema economico ancora guidato da pregiudizi razziali, disparità sociali e repressione poliziesca, come un’arma costantemente puntata contro la comunità afroamericana. Qui si inserisce il movimento Black Lives Matter, fondato nel 2013 da tre donne afroamericane: Alicia Garza, Opal Tometi, e Patrisse Cullors. La loro volontà è quella di evidenziare come le vite delle persone nere siano tanto importanti quanto quelle degli altri cittadini statunitensi, e quindi con gli stessi diritti. Black Lives Matter è stato protagonista anche con l’inizio delle prime proteste pacifiche a Minneapolis, contro la brutalità e il razzismo che ha ucciso Floyd. Manifestazioni pacifiche a cui la polizia ha comunque reagito con i gas lacrimogeni. Qui si inserisce un’ulteriore doppio standard: la polizia non ha infatti percepito come una minaccia i suprematisti bianchi che di recente hanno protestato armati con armi da guerra contro il lockdown, nonostante l’occupazione “pacifica” per alcune ore di edifici governativi.
La risposta ai gas lacrimogeni della polizia non si è fatta aspettare e l’escalation che ha portato diverse proteste a trasformarsi in rivolte non è casuale, come non sono casuali le immagini della stazione di polizia di Minneapolis o di auto della polizia che vanno in fiamme. Ci sono state molte critiche sul modo in cui le rivolte hanno creato disordini, con saccheggi di negozi e vetrine distrutte. Ma in queste critiche manca spesso un’analisi delle cause che hanno portato a questo punto. Tamika D. Mallory, importante attivista afroamericana, ha detto che “Le persone nere sono in stato di emergenza, muoiono in uno stato di emergenza. Non possiamo considerare il caso di Floyd come un caso isolato”. Ha poi continuato riguardo alle proteste e rivolte violente dicendo: “L’unico modo per fermare tutto questo è arrestare i poliziotti. Fate il vostro lavoro, arrestate i poliziotti non solo alcuni di loro, ma tutti, tutti quelli delle città di questa nazione in cui le persone nere vengono uccise […] Questo Paese sarebbe dovuto essere la terra della libertà per tutti, non è mai stato così per le persone nere e siamo stanchi. Non parlateci dei saccheggi, voi siete i saccheggiatori, abbiamo imparato la violenza da voi”.
È inutile parlare della “brutalità delle rivolte” senza fare un’analisi socio-economica sul sistema statunitense e sul razzismo strutturale che ha portato a tutto questo. La situazione attuale ha fatto riemergere le similitudini con le rivolte avvenute nel 1992 a Los Angeles, scoppiate dopo un brutale pestaggio da parte di quattro agenti ai danni di Rodney King, un uomo afroamericano. Fu pestato per più di dieci minuti perché non si era fermato a un posto di blocco. I quattro vennero prima accusati di uso eccessivo della forza per poi essere rilasciati a fine processo. Così nel 1992 la comunità afroamericana, colpita dalle stesse problematiche di oggi, tra razzismo sistematico e difficoltà socio-economiche, si ribellò in quella che è passata alla storia come Rivolta di Los Angeles. Giorni di scontri a cui si unirono anche altre minoranze etniche, come quella degli ispanici: dopo vetri rotti, edifici distrutti e saccheggi nei negozi, due degli agenti coinvolti nel pestaggio vennero condannati a due anni e mezzo di carcere dopo un processo di appello.
La violenza della polizia non si è arrestata durante le proteste di questi giorni, neanche in quelle pacifiche organizzate in tutti gli Stati Uniti. Il 29 maggio il giornalista della CNN Omar Jimenez è stato arrestato in diretta mentre svolgeva il suo lavoro, senza alcun motivo salvo il colore della pelle, per poi essere rilasciato solo grazie all’intervento del direttore del network; pallottole di gomma sparate sul volto di manifestanti e giornalisti; agenti di polizia che hanno distrutto in modo deliberato beni di prima necessità raccolti in un checkpoint di Louisville per i manifestanti che ne avevano bisogno; bambini colpiti con spray urticanti. Tutto questo accade sotto la presidenza e il sostegno esplicito di Trump, che non ha alcuna intenzione di trovare una soluzione alle fratture socio-economiche del Paese che governa. Oltre ad aver incitato la polizia a reprimere con l’uso della forza le manifestazioni, il 31 maggio è arrivato a definire con un Tweet “antifa” come gruppo terroristico, sostenendo in modo esplicito che ogni manifestante di questi giorni possa ricevere lo stesso trattamento riservato ai gruppi terroristici. L’ACLU (American Civil Liberties Union) ha già affermato che non esiste alcuna autorità legale che possa stabilire un simile precedente simile senza intaccare il Primo Emendamento e il diritto dei cittadini statunitensi di riunirsi.
George Floyd è l’ennesimo caso di persona afroamericana uccisa da un Paese che non ha mai davvero abolito la segregazione razziale se non nella forma. Le proteste contro un sistema basato sulla “libertà” per pochi, razzista e classista, non si arresteranno fino al raggiungimento un cambiamento radicale che veda finalmente le persone afroamericane e tutte le minoranze come esseri umani che hanno non solo il diritto all’esistenza ma quello di poter vivere in condizioni sociali giuste e dignitose, senza dover crescere con il pensiero che il colore della pelle possa bastare per una sentenza di morte.