La reazione pressoché unanime dei Paesi membri dell’Unione europea sulla guerra tra Russia e Ucraina ha rilanciato le speranze di molti filoeuropeisti. Elisabetta Gualmini, europarlamentare del Partito Democratico, ha per esempio pubblicato una lunga riflessione in cui ha sottolineato la compattezza dell’Unione europea di fronte a questa nuova situazione di emergenza. Secondo la sua analisi, prima la necessità di far fronte alla pandemia e poi quella di gestire l’aggressione russa all’Ucraina hanno messo in luce una capacità di adattamento notevole da parte della Comunità europea. Gualmini sottolinea, in merito agli ultimi avvenimenti, la ripresa di un rapporto con la Polonia che supererebbe la divisione Est-Ovest Europa, la disponibilità ad accogliere i profughi ucraini da parte di Stati che poche settimane fa chiedevano di costruire muri di separazione ai confini e l’uscita della Germania dalla politica della neutralità seguita negli ultimi decenni. Elementi che farebbero sperare in una tendenza che porti al superamento delle divisioni nazionali in un’ottica sempre più europeista. Su La7, a Otto e mezzo del 28 Febbraio, Beppe Severgnini ha ribadito questa idea sostenendo che i recenti avvenimenti potrebbero essere un’occasione per ritrovare un’Europa unita. “Se non fosse una tragedia e una guerra – ha dichiarato – Putin meriterebbe un monumento come un grande europeista, perché ci ha costretti a svegliarci”. Viene da chiedersi se sarà veramente così, e se gli eventi di questi anni, il Covid prima e la guerra in Ucraina poi, saranno sufficienti a consentire una accelerazione di quel processo di consolidamento europeo che, solo un paio di anni fa, sembrava compromesso.
Gli eventi di questo periodo fanno emergere una concreta volontà di ricompattarsi soprattutto all’interno di momenti ben specifici, in cui a beneficiare di una visione comune sono gli Stati stessi. È stato così quando l’Unione ha potuto negoziare l’acquisto dei vaccini assicurando ai propri Stati un rifornimento importante durante la fase critica della pandemia. Allo stesso modo, oggi trasmettere una compattezza europea sembra l’unica risposta possibile alle mosse di Putin: conviene a tutti perché, in ogni caso, l’obiettivo prioritario resta evitare lo scoppio di un conflitto ancora più ampio. Ma non è stato sempre così, soprattutto quando l’Unione ha dovuto negoziare la ridistribuzione di oneri, e non di benefici. Basta prendere una tematica scomoda come l’immigrazione. Le difficoltà nel gestire in modo integrato le politiche migratorie e nel superare il trattato di Dublino hanno infatti lasciato emergere una debolezza strutturale dell’Unione che prende corpo ogni volta in cui si discute di una suddivisione di problemi.
La ragione di fondo sta nell’organizzazione di questa entità sovranazionale: più nello specifico, nelle competenze che l’Unione europea gestisce autonomamente rispetto agli Stati. Oggi l’Ue ha competenza esclusiva principalmente su questioni di unione doganale, politiche commerciali comuni, definizione delle regole di concorrenza per il mercato interno, conclusione di alcuni accordi internazionali e, per gli Stati che aderiscono all’euro, di politica monetaria. Per quanto riguarda tutto il resto, i Paesi dell’Unione devono sottostare ad alcuni vincoli, i quali dipendono dal fatto che una competenza rientri tra quelle concorrenti o di sostegno (ovvero se è citata nell’articolo 4 o nell’articolo 6 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea), che sono comunque competenza degli Stati nazionali. Tra le competenze concorrenti, per le quali i Paesi esercitano la propria azione decisionale “laddove l’Unione non la esercita o abbia deciso di non esercitarla”, ci sono l’ambiente, il mercato interno, l’energia, la sanità pubblica, gli aiuti umanitari. Quelle di sostegno riguardano tra le altre l’istruzione, il settore industriale e la protezione civile. La costante dipendenza dai governi nazionali e dalla loro emanazione nel Consiglio europeo traspare inoltre dall’organizzazione delle istituzioni europee: attualmente ci sono un Parlamento che non ha concretamente una funzione legislativa e una Commissione che non corrisponde a un vero e proprio governo.
Tuttavia, sta proprio nel superamento del vecchio concetto di Stato il cuore di quel processo iniziato nel dopoguerra. Un percorso partito dal Manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi che ambiva proprio alla creazione, citando testualmente, di un “solido Stato internazionale” in cui le forze nazionali, una volta “conquistato il potere nazionale, lo adopereranno in primissima linea come strumento per realizzare l’unità internazionale”. È, in effetti, la direzione che hanno intrapreso gli Stati europei nel processo di unificazione del dopoguerra. Dalle comunità economiche degli anni Cinquanta, prima la Ceca nel 1951 e poi la Cee nel 1957, al trattato di Maastricht che ha sancito la nascita dell’Unione nel 1993, proseguendo con la rivoluzione della libera circolazione tra Stati determinata da Schengen e con l’introduzione della moneta unica, l’euro, vent’anni fa. Poi questo processo ha subito un rallentamento. Secondo il filosofo Massimo Cacciari le ragioni sono molteplici, ma tra queste sono state principalmente due quelle determinanti. Da un lato “l’ingenuità di credere che alla moneta unica sarebbero seguite una politica sociale e fiscale unica”, illudendosi che questo processo sarebbe stato una diretta conseguenza dell’euro; dall’altro la scelta di aprire le porte dell’Unione ai paesi di Visegrad (entrati nel 2004), sottovalutando le enormi differenze economico-sociali che ha creato un’Europa a due velocità. Una questione, quella dei Paesi dell’Est, che ancora oggi evidenzia delle grandi distanze anche culturali: pochi mesi fa, la necessità di imporre delle sanzioni a Polonia e Ungheria a causa della violazione di diritti umani sanciti dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è stata emblematica.
La necessità di un’unione politica forte e federale, tuttavia, è ribadita dallo stesso Cacciari, che ha sottolineato come in un mondo in cui le grandi potenze sono rappresentate da giganti come Stati Uniti, Russia, India e Cina, questa sarebbe l’unica opportunità per abbandonare la marginalità geopolitica e tornare ad avere peso nello scacchiere internazionale. Secondo il professore, l’alternativa sarebbe la lunga decadenza inesorabile di un Europa che “tra vent’anni avrà il 7% della popolazione globale, rappresentando meno del 10% del Pil mondiale”. Dati confermati dalle stime di Population Pyramid e in linea con le previsioni della Intelligent Unit dell’Economist. In buona sostanza, se una frammentazione impone la necessità di finire sotto la sfera di influenza di un’altra potenza, formare un’entità solida e rilevante permetterebbe la nascita di una vera e propria Eurosfera. Nel discorso sullo stato dell’Unione del settembre 2021, la Presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha focalizzato l’attenzione su questa necessità. “L’Europa deve essere in grado di fare di più da sola”, ha dichiarato parlando di politica estera, ma aggiungendo inviti a lavorare in una direzione cooperativa anche per quanto riguarda la difesa, l’intelligence, la tutela dello Stato di diritto e le migrazioni.
Le grandi differenze interne tra gli Stati dell’Unione europea lasciano presagire un percorso particolarmente difficile per raggiungere un obiettivo ambizioso come quello di un’entità sovranazionale con funzioni più ampie rispetto a quelle attuali. Di certo, non possiamo illuderci che la compattezza emersa durante la pandemia, principalmente legata ai fondi Ue, e durante quest’ultima crisi siano sufficienti per parlare di un nuovo processo di crescita dell’Unione europea, di un suo rafforzamento o di una rinnovata tendenza europeista dei cittadini europei. Tuttavia, gli eventi storici di questi ultimi anni possono rappresentare l’occasione per riprendere con vigore quel percorso di unificazione che negli ultimi vent’anni ha subito un evidente rallentamento con l’ascesa del populismo anti europeista in diversi Paesi membri. La situazione geopolitica internazionale, oggi più che mai, segnala la necessità di muoversi verso la nascita degli Stati Uniti d’Europa, in cui il sostegno reciproco deve prevalere sulla rivalità e l’egoismo dei singoli Stati nazionali. Qualche anno fa, il giornalista Michele Buono di Report aveva simulato un’eventualità di questo tipo: secondo gli esperti intervistati, un’Europa con una rete energetica comune e una politica industriale sinergica potrebbe generare un mercato più stabile e appetibile. Nel servizio si ribadiva inoltre come una gestione comune della difesa ottimizzerebbe gli investimenti riducendo gli sprechi, mentre un seggio unico nel consiglio di sicurezza dell’Onu avrebbe di certo un peso più rilevante nel contesto internazionale. Utopia? Forse. Un processo di questo tipo, oltre a richiedere tempo, si può attuare solo se i Paesi membri accettassero di fare importanti concessioni sulla loro sovranità nazionale. Tuttavia, l’alternativa è condannare l’Europa, e tutti gli Stati che ne fanno parte, a un’irrilevanza internazionale e alla marginalità all’interno delle sfide che ci aspettano nel futuro, come Unione europea e come comunità internazionale. Il rischio di fallire in questo progetto non è più una scusa sufficiente per provarci con tutte le nostre energie e speranze.