Durante la partita Cagliari Inter di domenica 1 settembre, il calciatore nerazzurro Romelu Lukaku, belga figlio di immigrati congolesi, è stato vittima di cori razzisti. Non si tratta del primo episodio di questo tipo allo stadio di Cagliari: la scorsa stagione è toccato all’attaccante della Juventus Moise Kean, italiano figlio di immigrati ivoriani, e nel 2017 al ghanese Sulley Muntari del Pescara. Al termine della partita, vinta dall’Inter grazie a un rigore di Lukaku, il centravanti ha pubblicato un post su Instagram per denunciare l’accaduto e chiedere un maggiore impegno per combattere il razzismo.
Solitamente, il racconto di questi episodi finisce con un giro di contriti “è inaccettabile” e propositi di “tolleranza zero”, fino al successivo coro o striscione razzista. Ma stavolta un gruppo di ultras dell’Inter ha scritto un post su Facebook per spiegare a Lukaku che cosa è davvero successo a Cagliari, come funziona il tifo in Italia e cosa si intende per razzismo nel nostro Paese. Nonostante gli errori di grammatica e l’argomentazione a tratti surreale, nella “lettera” a Lukaku è descritto con precisione il razzismo degli italiani, fuori e dentro gli stadi. Una distorsione che viene tollerata da troppo tempo.
Nel 2005, durante una partita casalinga contro l’Inter, il giocatore ivoriano del Messina Marco André Zoro, stanco dei cori e degli insulti razzisti dei tifosi avversari, prese il pallone in mano e iniziò a dirigersi fuori dal campo. Fu fermato dall’intervento di compagni e avversari che cercarono di calmarlo e di convincerlo a riprendere il gioco. Zoro tornò in campo e la partita ricominciò, ma tutti il giorno dopo parlarono della sua protesta: in Italia non era mai successo che un giocatore nero reagisse in quel modo a cori e insulti razzisti, tanto che Il Corriere della Sera aprì l’articolo dedicato al caso con “Una cosa mai vista”, mentre Repubblica parlò di un gesto che “potrebbe diventare uno spot contro le discriminazioni e il razzismo”. Per molti, quello fu il primo contatto con il razzismo allo stadio nonostante i precedenti.
Nel 1989 gli ultras dell’Udinese accolsero l’israeliano Ronny Rosenthal, neoacquisto bianconero, imbrattando i muri della città con scritte come “via gli ebrei” e “vai nel forno”. Nel 1990 la curva dell’Inter bacchettò Hitler perché nella sua Soluzione Finale si era dimenticato di includere i napoletani. Nel 1992 i tifosi della Lazio presero di mira Aaron Winter, olandese del Suriname e primo giocatore nero a vestire la maglia biancoceleste. Nel 1999 ancora i laziali esposero lo striscione “Auschwitz la vostra patria, i forni le vostre case” durante un derby con la Roma. Ma per quanto gravi, queste erano sempre cose che succedevano “intorno” alla partita e che la loro narrazione poteva minimizzare o ignorare: uno striscione può non essere inquadrato dalle telecamere, un coro può non essere commentato dai telecronisti, una scritta sui muri può non essere raccontata dai giornalisti.
Con Zoro fu diverso. La sua reazione scattò durante una partita, in mezzo al campo, davanti a centinaia di migliaia di spettatori tra stadio e televisione, rendendo impossibile ridimensionare o minimizzare l’accaduto. Ma già quel dibattito era inquinato da arrendevolezza, rassegnazione e impotenza, con il Corriere che parlava del razzismo come di uno “scotto” al quale i giocatori neri del nostro campionato “volenti o nolenti, hanno finito con l’abituarsi”. L’allora presidente dell’Inter Giacinto Facchetti sostenne che queste cose “purtroppo succedono spesso” e chiese scusa a nome della società per la maleducazione dei tifosi, come se il razzismo fosse questione di buone maniere. Roberto Mancini accusò “quattro stupidi che purtroppo sono sempre in giro”.
Sono passati quasi quindici anni da quel Messina Inter, ma il dibattito non si è mai evoluto. Cambiano date, luoghi e nomi, ma quelle stesse frasi si sono usate per Omolade e Reginaldo, Ibrahimovic, Boateng, Balotelli, Koulibaly, Bakayoko e Kessié, Matuidi, Alex Sandro, Kean. Sono passati quasi quindici anni ed episodi di razzismo si sono ripetuti negli stadi di Roma, Milano, Torino, Verona, Cagliari, equamente distribuiti in tutto il Paese. Il passare del tempo ha addirittura aggravato il problema: su Repubblica, Paolo Berizzi contava 56 episodi tra il 1989 e il 2000, mentre l’Osservatorio sul Razzismo e Antirazzismo nel Calcio (Orac) ha registrato un picco di 60 solo nella prima metà della stagione 2017/2018. Durante la successiva (2018/2019) i casi di razzismo negli stadi della Serie A sono stati appena 7, ma questo è dovuto ai nuovi parametri utilizzati per catalogarli. Mauro Valeri, sociologo e presidente dell’Orac, sostiene che si è ormai arrivati alla “vivisezione degli episodi” e prima di arrivare a una denuncia bisogna misurare durata, entità, persistenza del coro razzista e la partecipazione attiva del pubblico. In quasi vent’anni, in Serie A non è mai stata sospesa una partita a causa di cori o insulti razzisti.
Intanto, il ministero dell’Interno ha fatto un “censimento” del tifo organizzato in Italia: come scritto dall’Agi, “di 328 gruppi attivi, 151 sono politicizzati, 40 sono di estrema destra e 41 di destra”.
Anche il nostro vocabolario è inadeguato per affrontare una vera discussione sull’argomento. Gli “uh uh uh” scimmieschi con i quali vengono bersagliati i giocatori neri vengono chiamati “buuu razzisti”, un’imprecisione linguistica che regala una scappatoia a chi vuole minimizzare o negare, sostenendo che il “buuu” non è razzista, ma un gesto di disapprovazione e avversione che si usa indistintamente con i neri e con i bianchi. Quando gli fu chiesto di commentare gli insulti razzisti dei tifosi cagliaritani all’attaccante della Juventus Moise Kean, il presidente del Cagliari Tommaso Giulini disse di aver sentito solo fischi e che si trattava di una reazione all’esultanza del giocatore dopo il gol segnato, aggiungendo che “se quell’esultanza l’avesse fatta Bernardeschi, la reazione dello stadio sarebbe stata esattamente la stessa” e invitando a non fare “troppi moralismi”, a non “strumentalizzare”.
Anno dopo anno, il dibattito italiano è stato inquinato da argomenti sempre più subdoli e paradossali. Con una metodica opera di colpevolizzazione della vittima sono stati invertiti i ruoli: ormai il razzismo del tifoso non è una sua colpa, ma del giocatore nero che provoca. L’ex sindaco di Verona Flavio Tosi, alla vigilia di un Verona Milan, affermò che gli insulti rivolti a Balotelli erano dovuti anche alla sua capacità di “rendersi antipatico, portando la gente all’esasperazione”. Giulini ha giustificato i tifosi del suo club perché “sfidati” dall’esultanza di Kean. Anche Leonardo Bonucci, compagno di Kean, ha detto che l’attaccante non doveva esultare in quella maniera e che la colpa di quanto avvenuto è tanto sua quanto degli ultras cagliaritani. Persino il direttore di Sky Sport Federico Ferri, pur con necessarie premesse e dovuti distinguo, ha attribuito a Kean una parte della responsabilità.
Siamo passati dalla condanna alla giustificazione fino alla negazione, e ora siamo arrivati alla legittimazione. E qui si torna alla “lettera” degli ultras dell’Inter a Lukaku, a quel passaggio in cui si spiega al calciatore che quelli che lui ha pensato fossero insulti erano in realtà un attestato di stima al suo talento calcistico (ti insultano perché ti temono, non prendertela, sii orgoglioso) e un modo per aiutare la loro squadra. Il razzismo ha smesso di essere un’ideologia e diventa linguaggio, valvola di sfogo del malessere (grave o triviale, reale o immaginario), veicolo di emozioni e sentimenti. La conclusione “logica” di questo “ragionamento” non può che essere quella frase degli ultras nerazzurri: “L’Italia non è come molti altri Paesi europei in cui il razzismo è un VERO problema”.
Fa impressione notare le corrispondenze tra la discussione sul razzismo che si fa nel calcio e quella che si fa in politica. È inquietante vedere come la lettera di un gruppo di ultras dell’Inter possa essere scambiata o sovrapposta, per contenuti e forma, a dichiarazioni di diversi politici, mentre le forze che si definiscono antirazziste faticano a escludere dal dibattito posizioni sempre più apertamente razziste, tanto nel calcio quanto nella politica. Le istituzioni sono sempre più riluttanti nell’ammettere che molte curve sono dominate da gruppi di estrema destra, che hanno reso lo stadio un luogo di propaganda e di esibizione dove possono mostrarsi con una sfacciataggine che ancora non si possono permettere al di fuori, sfruttando le diverse interpretazioni della legge Mancino e rivendicando una libertà di espressione che però non va estesa alle reazioni delle loro vittime.
Se tollerata, la meccanica del rapporto tra i gruppi ultras di estrema destra e il resto dei tifosi, rischia di superare i tornelli e uscire fuori dalle tribune degli spalti: una maggioranza silenziosa che non approva e si indigna, ma abbassa la testa e aspetta che il coro si esaurisca, mentre un piccolo gruppo di estremisti partecipa ai buu con entusiasmo, considerando le proteste delle vittime una breve interruzione del normale svolgimento delle cose. Spesso si dice che il calcio è uno specchio della società, ma raramente è vero. Purtroppo, però, nel mondo e nell’epoca in cui società e tifo si somigliano sempre più, potrebbe davvero essere così.