Quando ero bambino ero convinto che i gestori dei lidi fossero le persone più fortunate del mondo, in quanto proprietari di pezzi di spiaggia e di mare. Un po’ come quando le star di Hollywood decidono di comprare un’isola. Forse non ha aiutato nascere e crescere in una città, Catania, dove la playa consisteva – e consiste ancora oggi – in un susseguirsi di stabilimenti balneari e soltanto tre piccoli fazzoletti di sabbia per le spiagge libere. Nel lungo viale, la proporzione è più o meno una spiaggia libera ogni 10-15 lidi. E quando entravo in un lido era quasi un giorno di festa, perché bisognava pagare e ci si sentiva l’ospite nelle spiagge private con gli ombrelloni colorati, le docce, le cabine e il bar con i ghiaccioli. Crescendo mi sono reso conto che in realtà mi sbagliavo. Quelle spiagge non sono – non dovrebbero essere – private, in quanto l’art.822 del Codice civile sancisce la loro appartenenza allo Stato, facendo così parte del demanio pubblico. Ho quindi appreso l’esistenza delle concessioni balneari con lo stesso stupore di un bambino ingannato per anni. Queste concessioni sono scadute nel dicembre del 2023 e volendo chiunque di noi potrebbe quindi entrare in un lido, mettersi sulla spiaggia e piantare il proprio ombrellone. Questo nella teoria. Nella pratica, soprattutto a Catania, è probabile che mi caccino dal lido a calci in culo, nonostante oggi sia a tutti gli effetti un mio diritto stare lì.
Per approfondire bene la vicenda è fondamentale evitare semplicismi, come quello per cui tutti i gestori dei lidi siano per forza dei mascalzoni, ovviamente non è così, e comprendere invece le enormi responsabilità della classe politica negli ultimi decenni. Intanto non si può cominciare senza quantificare il fenomeno. Secondo Legambiente, in Italia circa il 50% delle coste sabbiose è affidato a stabilimenti balneari (il 43%), campeggi o altre strutture del genere. È un numero enorme, considerando che la balneazione non è consentita nella totalità dei luoghi della restante metà di costa “libera”. Le concessioni sono previste dal Codice di Navigazione per mezzo di un bando pubblico, sono temporanee e per usufruirne viene pagato l’equivalente di un affitto. Sulla temporaneità e sull’affitto sorgono però già i primi problemi. Il costo, infatti, è estremamente basso: gli stabilimenti balneari privati occupano circa cinque milioni di metri quadrati, e lo Stato incassa più o meno 100 milioni di euro l’anno. Provate a fare i conti rapportandoli ai metri quadrati di un appartamento o di altre strutture e capirete la disparità di trattamento.
Il problema della scadenza delle concessioni è ancor più complesso, soprattutto a causa del “diritto di insistenza” inserito nel 1992, ovvero il rinnovo automatico ogni sei anni a meno che il proprietario di una concessione non vi faccia rinuncia. Questo ha impedito un ricambio nel settore balneare, trasformandolo in una “questione di famiglia”. Tutti noi siamo andati in qualche lido gestito dai nipoti, ereditato dai padri e dai nonni, trovando un aspetto romantico in questa successione e affezionandoci ai “proprietari”. È però avvenuta senza effettuare nuovi bandi proprio per il diritto di insistenza del 1992. In Europa si sono accorti di questa usanza, che non è legata esclusivamente alle concessioni balneari, e nel 2006 hanno provato a mettere una pezza attraverso la Direttiva Bolkestein, realizzata per favorire il libero commercio, il diritto alla concorrenza e la protezione dei consumatori proprio sul tema delle aste pubbliche, dei bandi e della trasparenza delle concessioni. Siamo però in Italia, e dunque da diciotto anni la politica si sta inventando stratagemmi per eluderla.
Il Parlamento italiano è infatti andato avanti a proroghe per le concessioni balneari. Inizialmente fino al 2020, poi addirittura la Legge di bilancio del 2018 ha spostato la scadenza al 2033. Nel 2021 il Consiglio di Stato, spronato da un’Europa che giustamente richiedeva di far rispettare la Bolkestein, ha annullato la proroga fino al 2033, anticipandola al 31 dicembre 2023. Il governo Meloni ha tentato di procrastinare ancora, ma sia il Consiglio di Stato che l’Unione Europea hanno bocciato le proposte sul tavolo: le concessioni sono scadute. Inoltre, le azioni di governo nascondono un altro fattore imbarazzante: la ministra del Turismo, colei che dovrebbe occuparsi della materia in questione, è Daniela Santanchè, proprietaria del Twiga insieme a Flavio Briatore, e dunque al centro di un enorme conflitto d’interessi. La ministra si è giustificata dicendo di aver venduto le sue quote, ma risulterebbero delle società esterne che le permettono di incassare comunque profitti dal Twiga. Una storia molto italiana, e gli sviluppi li vedremo nei tribunali, ma sta di fatto che la stagione estiva è iniziata, c’è stata l’apertura dei lidi e le concessioni sono scadute sette mesi fa.
L’associazione Mare Libero si occupa da anni di questa battaglia, e tra gli eventi organizza ogni 14 luglio la “Presa della Battigia”, un appuntamento per ricordare la sentenza del 14 luglio del 2016, quando la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata sull’invalidità di qualsiasi proroga sulle concessioni balneari. A maggior ragione questa estate, con le concessioni scadute, Mare Libero si sta attivando sul territorio per informare i cittadini sulla libera e gratuita fruizione di tutte le spiagge. Essendo formalmente abusivi i lidi aperti quest’estate, in queste settimane ci sono stati innumerevoli ricorsi al TAR, movimenti delle regioni per risolvere la situazione, e non è mancata la preoccupazione degli stessi gestori degli stabilimenti balneari. Come ricordato in precedenza, non stiamo parlando di una categoria di delinquenti, il problema è che in Italia non siamo adeguatamente aggiornati con leggi su bandi trasparenti e azioni tese a smantellare quella che, volente o nolente, è una lobby. In questo siamo parecchio indietro rispetto ad altri Stati europei.
In Spagna, per esempio, esiste la Ley de costas che specifica come le spiagge siano libere, e al posto delle concessioni ci sono le autorizzazioni, ovvero regole strettissime per gli stabilimenti balneari sia a livello di quantità sia per le modalità dei bandi pubblici e delle scadenze, a differenza dell’Italia non soggette a proroghe. È simile alla Lei da Água che vige in Portogallo, dove i bandi, come per la Spagna, sono continui e severissimi. La Francia, invece, si affida al Code général de la propriété des personnes publiques, e tutti gli stabilimenti devono consentire la libera fruizione e la circolazione nel litorale. Da loro, come in Italia, si parla di concessioni e non di autorizzazioni, ma per legge non possono superare i 12 anni. Tutti questi paletti legislativi, che in Italia sono ridotti e poco rispettati, comportano inevitabilmente un numero maggiore di spiagge libere e, al contempo, un maggior rispetto degli stabilimenti nei confronti del cittadino autoctono o del turista.
Sembra che l’Italia voglia “farsi riconoscere” seguendo lo stereotipo – in questo caso calzante – dell’italiano che cerca sempre una scappatoia, un cavillo per eludere la legge. E, ripeto, sono estremamente più colpevoli i politici rispetto ai gestori dei lidi. Se una spiaggia è un bene pubblico, come è sancito anche dalle nostre leggi, e le concessioni sono per giunta scadute, è inutile fare come il governo e arrabattarsi per non scontentare una lobby e allo stesso tempo rientrare nei parametri delle leggi europee. Una cosa esclude l’altra. La tendenza a privatizzare anche l’aria dovrebbe lasciare il posto al rispetto per ciò che è pubblico. Questo non significa di certo eliminare le concessioni e chiudere tutti i lidi, ma scrivere una legge equa in cui vengano indicate le modalità per i bandi, la durata delle concessioni e apporre dei limiti come negli altri Stati europei che si affacciano sul mare. Lo so, con Santanchè come ministra sembra un esercizio funambolico, se non addirittura un’illusione, ma per non restare indietro è necessario stare al passo con l’Europa, a costo di scontentare persone che possiedono per mesi una porzione di suolo pubblico senza alcun tipo di bando e, soprattutto, di scegliere ministri più adeguati al compito che devono svolgere.