Secondo le stime del Fondo monetario internazionale, l’economia spagnola dovrebbe crescere di oltre il 2% quest’anno. Una performance molto positiva, anche se ancora lontana dal 3,7% del 2007, anno di inizio di quella che in Spagna chiamano la Gran recesión. Negli ultimi cinque anni il Paese iberico è riuscito a creare oltre 2,5 milioni di posti di lavoro e a portare la disoccupazione al 14%. Buoni risultati, considerando i danni di una crisi economica che nel 2013 aveva fatto schizzare la quota di disoccupati a 6,2 milioni (contro gli 1,8 milioni del 2007).
Andando a scavare sotto la superficie dei numeri e delle statistiche, ci si rende presto conto che se la crisi economica della Spagna è alle spalle non si può dire lo stesso per quella sociale. I nuovi impieghi sono spesso di bassa qualità, temporanei e mal pagati e la maggior parte della popolazione spagnola è ancora molto lontana dai livelli di benessere precedenti al 2008. A cominciare dalle donne. Secondo un rapporto pubblicato dall’ong Oxfam Intermón a gennaio, 7 persone su 10 con un contratto part-time sono, appunto, donne. “È fantastico che si creino nuovi posti di lavoro. Il problema è che l’occupazione generata non sta riducendo la diseguaglianza né il tasso di povertà,” afferma Liliana Marcos, ricercatrice di Oxfam Intermón specializzata in diseguaglianza e politiche pubbliche. “Oggi 617mila famiglie non hanno alcun tipo di entrata, una cifra che è aumentata di oltre 16mila unità nel corso del 2018”.
Nel complesso, secondo la ricercatrice durante la crisi la povertà è cresciuta quattro volte più di quanto si sia ridotta dall’inizio della ripresa, facendo della Spagna il quarto Paese dell’Unione europea per disuguaglianza sociale. Per Olga Cantó, docente di Economia presso l’Università di Alcalà, la società spagnola oggi sarebbe molto più vulnerabile a un’eventuale nuova recessione: “Non si sfugge ai cicli economici, noi economisti lo sappiamo bene. Se non ci riprendiamo davvero, un nuovo ciclo di recessione sarà ancora più grave del precedente per le persone cadute in povertà e per tutte quelle in situazione di vulnerabilità”. Queste ultime, stando a un rapporto pubblicato lo scorso ottobre dall’Osservatorio sociale di CaixaBank (la terza banca di Spagna), nel 2017 rappresentavano il 32,6% della popolazione spagnola.
Il problema non è solo la disoccupazione, che rimane comunque superiore ai livelli pre-crisi, ma soprattutto la precarietà del lavoro e gli stipendi bassi. “Oggi la durata media di un contratto è di circa 52 giorni, mentre prima della crisi era di 78,5” fa notare Laura Pérez, docente di Economia del lavoro all’Università Autonoma di Madrid. Precarietà e bassi stipendi sono spesso la cifra degli impieghi offerti dal settore turistico, che oggi è il maggior creatore di posti di lavoro nel Paese, dopo aver preso il posto di quello edile (il ladrillo, traduzione spagnola del nostro “mattone”) dal 2008 in poi. Per Jorge Bielsa, professore di Macroeconomia all’Università di Saragozza, non c’è da stupirsi. “Questo è il settore del nostro export che ha bisogno di mantenere bassi i salari per competere con altre mete turistiche,” spiega. “Di conseguenza la qualità dell’impiego turistico attuale è chiaramente al di sotto della media. E se consideriamo anche la stabilità e la sicurezza dei contratti, il livello medio del settore scende anche di più”. Per trovare conferma e farsi un’idea più chiara della situazione, basta una breve navigazione tra i siti di offerte di lavoro. A Marbella, sulla Costa del Sol, si cerca un/a cameriere/a a tempo pieno per un contratto a tempo determinato: requisiti imprescindibili lo spagnolo (de España, precisano, forse per convincere sudamericani e stranieri in generale a passare al prossimo annuncio) e un inglese medio-alto, per uno stipendio lordo fra i 900 e i 1500 euro al mese. A Malaga si offrono tra i 900 e i 1000 euro al mese per un posto da cameriere a tempo pieno in una sala giochi. Mansioni: servire bevande e caffè, pagare i premi, riparare eventuali guasti delle macchine e pulire il locale.
“Bisogna però dire che la situazione sociale sarebbe insostenibile senza questi posti di lavoro,” precisa Bielsa. “È l’unica soluzione a breve termine per evitare degli shock socioeconomici maggiori”. E i rischi di ulteriori shock sono una realtà pericolosamente vicina per politici ed economisti spagnoli. “Il settore turistico spagnolo ha senz’altro mostrato una crescita invidiabile ed è riconosciuto come un’eccellenza a livello internazionale,” spiega María Romero, consulente presso Analistas Financieros Internacionales (Afi), azienda specializzata nella consulenza economica, finanziaria e tecnologica. Non si può però dimenticare che la crescita del turismo spagnolo negli ultimi anni è stata favorita anche dall’instabilità che dal 2011 in poi ha investito varie destinazioni concorrenti del Mediterraneo, come Tunisia, Egitto e Turchia. “La ripresa di alcune di queste destinazioni sta già mettendo a repentaglio la continuità della buona performance del settore. Abbiamo segnalato in più occasioni il rischio di puntare tanto su un unico settore, com’era stato fatto con l’edilizia prima del 2008. Anche perché, a oggi, in Spagna non esistono settori economici che creino impiego al ritmo del comparto turistico. Questo rappresenta un elemento di rischio per la continuità della crescita dell’impiego di tutta l’economia spagnola,” conclude Romero.
Il peso del turismo nel mercato del lavoro non è una novità in Spagna. Già nel 1993 hotel e ristoranti impiegavano il 5,5% della forza lavoro rispetto al 3,3% del G4 (Germania, Francia, Italia e Regno Unito), cresciuti rispettivamente a 8,8% e 4,7% nel 2016. Per Bielsa questo dato rende evidente che il sistema produttivo spagnolo non è in grado di assorbire l’offerta di laureati che genera. “E la prova di ciò è la quantità di persone altamente istruite che devono emigrare,” dice. L’unico dato in controtendenza rispetto al boom dei lavori non qualificati è legato alle nuove tecnologie. “Ora sono in auge tutti gli impieghi legati alle energie rinnovabili, nonché alla programmazione e al trattamento dei dati,” nota Pérez, confermando uno studio di Eurofound secondo cui la Spagna sarà il secondo Paese dell’Unione europea, dopo il Belgio, per creazione di occupazione grazie all’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici. “Si tratta però di posti di lavoro con una produttività molto elevata e che richiedono qualifiche specifiche, il che significa che non sono impieghi di massa,” sottolinea la docente.
Per Fabrizio Zilibotti, che insegna Economia internazionale e dello sviluppo all’Università di Yale, le difficoltà del mondo del lavoro sono un problema endemico della Spagna: “I livelli di disoccupazione sono storicamente molto alti, soprattutto tra i giovani. È il Paese europeo con la percentuale più alta di giovani che non lavorano e non studiano. Inoltre, pur avendo senz’altro creato dei poli di eccellenza internazionali, non tutti i tentativi di attirare talenti e riportare i cervelli in Spagna hanno funzionato, soprattutto per ciò che concerne le conoscenze più scientifiche”. Nel Global Innovation Index 2018 la Spagna paga questo gap posizionandosi al 28esimo posto per capacità di innovazione tra le economie del mondo. Un risultato comunque migliore rispetto all’Italia (che è 31esima), ma lontano dai primi tre classificati – Svizzera, Paesi Bassi e Svezia – e da Regno Unito (quarto), Germania (nona) e Francia (sedicesima). Jorge Onrubia, docente di Economia applicata all’Università Complutense di Madrid, sostiene la necessità di una messa a punto dell’istruzione, anche ai livelli più alti: “Il nostro sistema scolastico condiziona pesantemente la qualificazione professionale di fronte alle sfide della rivoluzione digitale. La produttività del fattore lavoro non cresce da vent’anni, un dato che riflette le difficoltà della nostra economia nel generare valore aggiunto. Questi problemi si riflettono anche in campi come ricerca e sviluppo, e ciò fa sì che la trasformazione tecnologica delle nostre aziende sia una sfida molto difficile da affrontare”.
Disoccupazione giovanile, aumento della precarietà e pessime condizioni salariali non sono problemi esclusivamente spagnoli. Dati alla mano, Spagna e Italia hanno molto in comune. Alla fine del 2017, in Italia, solo un occupato su dieci aveva meno di trent’anni. Inoltre, un rapporto Censis-Eudaimon di gennaio conferma che mentre i lavoratori “anziani” sono molto presenti nella pubblica amministrazione, nell’istruzione, nella sanità e nei servizi sociali, i millennial sono impiegati soprattutto in alberghi e ristoranti (39%) e nel commercio (27,7%). A questi si aggiunge oltre mezzo milione di precari impiegati nella Gig economy.
Se nel 2016 il tasso dei working poor, ossia gli occupati a rischio di povertà, era del 13% in Spagna, in Italia sfiorava il 12%. Pochi mesi dopo, l’Osservatorio nazionale del turismo ha reso noto un altro dato che avvicina le economie italiana e spagnola, rilevando che il settore ha generato, in maniera diretta e indiretta, 3,4 milioni di impieghi, pari al 15% dell’occupazione totale italiana. Per gli economisti, politiche lungimiranti e una profonda riforma del sistema scolastico, in grado di favorire una maggiore compenetrazione tra formazione professionale e mercato del lavoro, sono imprescindibili, tanto in Spagna quanto in Italia. “Non abbiamo ancora idea di quale effetto possano avere sul mercato del lavoro fenomeni come l’automazione crescente o l’intelligenza artificiale,” nota la consulente Afi Romero. “Prima cominciamo a prepararci a queste nuove sfide, meglio è”.
Per mettere al sicuro la tenuta dell’economia di entrambi i Paesi in vista di nuove crisi e di un mercato del lavoro sempre più precario e dequalificato, conferma Zilibotti, ci vorrebbe un cambiamento a livello culturale. L’economista, che con il collega Matthias Doepke è autore del saggio Love, money and parenting: how economics explains the way we raise our kids, segnala le similitudini fra il sistema genitoriale spagnolo e quello italiano: “In entrambi i Paesi le famiglie tendono a fornire un porto sicuro in un momento di prospettive occupazionali molto scarse per i giovani, specie in alcuni settori. Tra i più abbienti troviamo anche i genitori che spingono i figli all’eccellenza negli studi. Ma esiste una cultura che dà centralità alla rete dei contatti personali rispetto ai risultati accademici. E secondo me, ciò si riflette nei modelli di genitorialità, col rischio di perpetuare dei sistemi che non sono basati sul merito, ma sul network di conoscenze”. Un sistema che alimenta piaghe storiche dell’enchufismo e della raccomandazione e con loro un sistema economico basato sempre di più sulla precarietà, a scapito di merito, talento e competenza.