La COVID-19 ha dimostrato che il sovranismo è distruttivo. Ora più che mai c'è bisogno di un'Europa unita.

La pandemia di COVID-19 sta cambiando radicalmente le nostre abitudini. Questa situazione ci spinge a ripensare al nostro stare al mondo, alle nostre priorità, questo rallentamento forzato ci fa riflettere in una nuova luce sulla decrescita e sui limiti del sistema capitalista globalizzato, e su quello che succederà dopo, portandoci a ridefinire le nostre certezze e i  modelli di sviluppo finora presi in considerazione. Un altro effetto ben visibile – che emerge soprattutto dall’utilizzo del lessico di guerra riferito alla pandemia e da quelle che il linguista George Lakoff chiama operazioni di framing – è la campagna elettorale permanente che tanti partiti stanno facendo, alla ricerca di un nemico contro cui indirizzare l’odio e l’insoddisfazione. Da tempo, e soprattutto in tempi di emergenza, nel nostro Paese quel nemico si chiama Europa. Prendersela con l’Unione europea fa sempre bene alle urne, perciò la si attacca a priori, disdegnando i fatti e preferendo, alla verità, l’appoggio e la subordinazione ai regimi autoritari.

Durante i primi giorni dell’emergenza COVID-19, l’epidemia sembrava essere un problema della sola Italia e il resto d’Europa si preoccupava di difendersi, più che di aiutare. Nelle giornate più dure, sia Xi Jinping che Putin hanno invece inviato all’Italia un team di medici specializzati e 6 milioni di mascherine protettive. Per il governo centrale di Pechino, in particolare, questa è stata un’occasione d’oro per rimediare al danno d’immagine per la gestione iniziale dell’epidemia: come è stato ricostruito dal Wall Street Journal e, più recentemente, dall’Associated Press, il presidente cinese ha saputo del rischio di epidemia almeno da inizio gennaio ma, nonostante ciò, soltanto il 20 del mese ha lanciato un avviso pubblico. A inchiodarlo ci sarebbe anche un’altra storia, quella del dottor Li Wenliang, che per primo (il 30 dicembre) aveva allertato circa la diffusione del virus, ma era stato fermato dalla polizia, minacciato, screditato dalle autorità per aver diffuso “voci false” e infine arrestato. Contenuta la COVID-19, Xi ha provato a riscriverne la storia ufficiale, nascondendo le sue responsabilità mediante strategie di soft-power – definite dagli esperti “diplomazia delle mascherine” e “politica della generosità” – e preparandosi ad esercitare, in un futuro non troppo lontano, una possibile influenza politica, come ha spiegato a TPI Joshua Wong, leader delle proteste di Hong Kong.  Non a caso, gli Stati Uniti si sono detti preoccupati degli aiuti della Cina all’Europa e l’amministrazione Trump ha vietato nella prima settimana di maggio a 66 aziende cinesi di vendere mascherine nel mercato statunitense, dichiarandole inutilizzabili e incrinando ancor di più i rapporti con Pechino.

Donald Trump e Xi Jinping, 2017

A sollevare più di qualche dubbio sulla Russia, invece, è stata l’inchiesta di Jacopo Iacoboni, giornalista de La Stampa. In tre articoli – pubblicati fra marzo e aprile di quest’anno – il giornale torinese ha sostenuto che l’80% delle forniture arrivate da Mosca fossero inutili, solo un pretesto per portare i militari russi in Italia; che a Bergamo si siano stanziati esperti in guerra batteriologica; e infine che fra i medici militari russi si fossero nascosti anche diversi ufficiali dell’intelligence del Cremlino, con il compito di acquisire informazioni, intaccare i rapporti fra il nostro Paese e la Nato e rafforzare la propria influenza. La risposta della Russia non si è fatta attendere: in una nota Igor Konashenkov, portavoce del ministero della Difesa, ha accusato il quotidiano di “russofobia” e di diffondere fake news, terminando con la citazione di una massima dal tono fortemente intimidatorio: “Qui fodit foveam, incidet in eam (Chi scava la fossa, in essa precipita)”.

Nel frattempo, però, tanto l’informazione quanto il ministro degli Esteri Luigi Di Maio (e di recente Alessandro Di Battista) hanno mostrato riverenza verso Xi Jinping e Putin. Non stupisce dunque se – come mostra il sondaggio Swg, con dati raccolti dal 20 marzo al 12 aprile – gli italiani, influenzati da una certa narrazione politica e mediatica, collocano al vertice dei Paesi “amici” la Cina (con il 57%, rispetto al 10% di dicembre) e la Russia (con il 32%), che per prime hanno risposto alle richieste d’aiuto. E invece fra i “nemici” la Germania (45%), la Francia (38%) e la Gran Bretagna (17%). Se a questo si affianca il dato dell’indagine Dire-Tecné, secondo il quale fra il 9/10 aprile – quando gli scontri a Bruxelles erano nella fase più accesa – gli scontenti dell’Europa erano il 56%, allora è facile intuire che con l’emergenza sanitaria si è arrivati al giro di boa: bisogna agire subito, ma soprattutto informare con professionalità, senza cadere nella retorica sfruttata dai sovranisti dell’Unione Europea “brutta e cattiva” che pretende troppo ma non dà niente in cambio. Questa narrazione si sarebbe potuta invertire, per esempio, quando – superate le prime diatribe – il 20 marzo Frank-Walter Steinmeier, il capo di Stato tedesco, inviò una lettera di solidarietà al Quirinale, dove scriveva al presidente Mattarella: “Sono lieto che i nostri ministeri della Salute abbiano trovato il modo di portare in Italia forniture di aiuto tedesche con dispositivi medici di urgente necessità. Ora abbiamo bisogno di uno spirito europeo di solidarietà umana e pratica. Possiamo superare questa crisi solo assieme”.

Il Presidente della Repubblica Federale della Germania, Frank-Walter Steinmeier

A confermare gli aiuti, il documento pubblicato dalla Commissione Europea. Dalla Germania sono arrivate 7,5 tonnellate di forniture (fra ventilatori, mascherine e tute protettive). La Protezione civile italiana, inoltre, ha impiegato un team di 4 sanitari della clinica universitaria di Jena in Campania, all’ospedale Covid di Boscotrecase. E ancora, alcuni Länder tedeschi hanno accolto, mediante voli militari, 107 pazienti, molti dei quali in terapia intensiva. La Francia, invece, ha donato all’Italia circa 1 milione di mascherine e 20mila tute protettive. Altri aiuti sono arrivati da Austria, Danimarca, Olanda, Lussemburgo, Romania, Repubblica Ceca, Grecia, Lettonia e Polonia. Un grande atto di solidarietà è arrivato anche da chi è solo con un piede nell’Unione: l’Albania di Edi Rama, che ha inviato 30 medici, perché – come ha detto il premier – “è un Paese povero ma non privo di memoria”, riferendosi alla storia dei 430mila albanesi arrivati in Italia dopo la caduta del regime nel 1991. Eppure queste notizie sono state a stento registrate dall’opinione pubblica italiana e sono spesso passate in sordina.

Una prima e importante risposta all’emergenza è arrivata dalla Commissione Europea, con la sospensione del Patto di Stabilità: ciò ha permesso allo Stato e alle singole regioni di aiutare la sanità, i lavoratori e le imprese, mobilitando tutte le risorse possibili, senza dover rispettare le regole di bilancio. A tal proposito, il vicepresidente Valdis Dombrovskis ha detto che nessun Paese verrà lasciato indietro e che la sospensione sarà prorogata fino a emergenza conclusa. Sempre la Commissione Europea ha lanciato il programma Sure, un fondo europeo da 100 miliardi contro la disoccupazione (che permetterà di finanziare le “casse integrazione” nazionali). Ciò potrebbe portare all’Italia una cifra paragonabile a quella stanziata dal governo nel primo decreto Cura Italia, ossia 25 miliardi. Venerdì 8 maggio l’Eurogruppo ha inoltre approvato il Mes senza condizionalità, che ci permetterebbe di usare 37 miliardi per le spese sanitarie. A sgomberare il campo da ogni timore futuro c’è anche la lettera Gentiloni-Dombrovskis, in cui è spiegato chiaramente che i prestiti dovranno essere rimborsati entro 10 anni a un tasso di solo 0,1%; non certo i vincoli che vennero imposti alla Grecia. Nonostante ciò, tanto il M5S quanto Giorgia Meloni e Matteo Salvini (che già a dicembre ha attaccato il fondo ma si è poi dimostrato impreparato sul tema alle domande di un giornalista) continuano a sfruttare la misura per propaganda politica, parlando di “strumento inadeguato ”, “pericoloso e senza certezze” o, addirittura, “una trappola per topi”. Nell’ultimo Consiglio Europeo, le parti sembrano aver trovato un accordo anche sul Recovery Fund, un piano da 1000 miliardi, voluto soprattutto da Italia e Spagna. La misura sarà pronta entro due settimane e avrà l’obiettivo di attenuare i rischi di divergenze eccessive all’interno del mercato unico. La Banca Centrale Europea ha poi messo in campo varie azioni per un totale di 1110 miliardi e, ancora, aiuti alla ricerca per trovare il vaccino, cure efficaci contro la COVID-19 e altri importanti sostegni economici, facilmente consultabili sul sito del Parlamento Europeo.

Matteo Salvini
Giorgia Meloni
Luigi Di Maio

Che l’Unione Europea stia avendo un ruolo centrale nella gestione italiana dell’epidemia lo ha spiegato anche il premier Conte in una lunga intervista a Repubblica: “L’Italia deve approfittare anche degli strumenti messi a disposizione dell’Europa per programmare una ripartenza decisa e un rilancio risolutivo. […] Abbiamo ricevuto solidarietà e aiuti dall’Europa, da singoli Stati Membri, dalla Cina e dalla Russia senz’altro, ma anche dai nostri tradizionali alleati statunitensi”. Il problema, piuttosto, risiede in un “sistema anchilosato e burocratizzato”, come ha ammesso lo stesso premier. O, ancora, nell’avere una classe politica che sappia farne un buon uso.

Intanto le destre populiste sembrano subire gli effetti dell’epidemia. A dirlo un’indagine di Europe Elects, in cui il crollo maggiore è quello di Alternative fur Deutschland (Afd), partito ultraconservatore tedesco, che ha perso il 4,5% rispetto ai dati di gennaio; seguono gli austriaci dell’Freiheitliche Partei Österreichs (Fpo) e i nazionalisti ed euroscettici finlandesi di Perussuomalaiset Sannfinländarna (Ps) entrambi con il -3%. In caduta libera anche la Lega, che in questo inverno ha perso il 2,8% – secondo Ipsos, invece, addirittura il 6% – e, mai come ora, è più vicino al Pd (soltanto 4 punti a dividerli) che a chiedere i “pieni poteri” dello scorso agosto. A testimoniare questo crollo ci sono anche altri segnali: gli insight di Facebook per esempio, con interazioni che si fermano solo a 6,6 milioni e un -60% rispetto a tre mesi fa. Ciò è dovuto in parte ai passi falsi e alle indecisioni commesse durante l’emergenza: la richiesta di riaprire tutto, poi di chiudere tutto e poi di nuovo di riaprire; in parte al grande caos della Regione Lombardia che ha mostrato il fallimento della Lega al governo, tanto per lo smantellamento della sanità pubblica in favore di quella privata, quanto per il dramma delle case di riposo – dove delle delibere scellerate hanno messo a rischio la vita di tanti anziani. Infine, tale crisi è dovuta anche al fatto che, in un tempo in cui i problemi sono reali e non fake diffusi da bot, non c’è manifestazione populista in piazza o tweet che tenga contro chi quei problemi è chiamato a risolverli e possibilmente a farlo nel migliore dei modi.

Norbert Hofer leader del FPOe, Vienna, 2019

Questa emergenza ha svelato, con buona pace per coloro che ancora ripetono pedissequamente la storiella del “Prima gli italiani”, i tedeschi, i francesi o gli inglesi, che tutti i problemi, da quelli sanitari a quelli economici, sono ormai diventati globali. La parola stessa “sovranità”, di cui le destre illiberali d’Europa si riempiono la bocca, ha ormai perduto il suo stesso significato. Negli anni (e soprattutto davanti allo stato di pandemia) i nazionalismi hanno dimostrato di avere risposte troppo semplicistiche per problemi incredibilmente complessi e stratificati, o di non averne affatto: si sono girati troppe volte dall’altra parte, preferendo il silenzio o atteggiamenti antiscientifici. La situazione che stiamo affrontando, invece, accomuna davvero tutti, da Est a Ovest, da Nord a Sud, dell’Italia (per quanto ne dicano Feltri e Giordano), dell’Europa e del mondo: pensare di poterla realmente superare in solitudine, in un mondo totalmente globalizzato e interconnesso, è ottuso e irrealistico, a meno che non si sia dei cinici opportunisti che sperano di sfruttare l’eventuale disastro a proprio vantaggio.

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