Nei mesi scorsi il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha lodato in diverse occasioni l’operato dei governi polacco e ungherese. A inizio maggio, durante il suo viaggio in Ungheria, ha visitato il muro al confine con la Serbia e lodato le politiche repressive contro i migranti del primo ministro Viktor Orbán: misure che lasciano senza cibo, acqua e assistenza medica i migranti che vedono respinta la propria richiesta di asilo politico. A gennaio Salvini ha incontrato Jaroslaw Aleksander Kaczyński, leader della destra nazionalista polacca, e anche in quell’occasione ha speso parole di elogio per le sue recenti decisioni politiche. Il leader della Lega sembra apprezzare molte delle misure messe in pratica in due Paesi dove è in corso una progressiva riduzione degli spazi democratici in favore di un modello di Stato autoritario. Il processo è in atto dal 2011 in Ungheria e dal 2015 in Polonia, con un’inversione di rotta dopo anni di democratizzazione del sistema politico.
Viktor Orbán, al potere in Ungheria dal 2010 con il partito Fidesz, dopo le elezioni del 2018 tiene ben salde nelle sue mani le redini del governo con 133 parlamentari su 199, avendo come principale oppositore la formazione di estrema destra Jobbik con i suoi 26 deputati. Oltre alle politiche per contrastare l’immigrazione, fondamentali per aumentare il suo consenso interno, il governo ungherese ha portato avanti un processo graduale di demolizione del sistema democratico. A partire dal 2013, sono stati approvati una serie di emendamenti alla costituzione, denunciati dalle opposizioni come un vero e proprio colpo di Stato. Secondo le nuove disposizioni, la Corte costituzionale del Paese oggi può bloccare una legge varata dall’esecutivo solo per un vizio di forma, ma non può più pronunciarsi sulla costituzionalità o meno del suo contenuto. La limitazione del suo potere è un attacco frontale a uno degli organismi che in passato si è espresso in modo più critico sull’operato di Orbán.
Grazie alla nuova costituzione il governo può limitare la libertà di espressione se un organo di informazione lede la dignità della nazione ungherese, eventualità su cui decide lo stesso esecutivo. Inoltre dal 2011 la concessione e il ritiro delle licenze giornalistiche sono controllate da un’Autorità nazionale sui media di nomina governativa, utilizzata contro l’informazione indipendente e antigovernativa, come ha dimostrato il licenziamento di mille dipendenti della televisione pubblica solo nel primo anno di attività dell’autorità. Il governo ha anche il potere di censurare in parte o del tutto opere che violino i valori cristiani e su una serie di questioni come il diritto di manifestazione, l’ordine pubblico e i reati amministrativi, dove la giustizia ordinaria viene sostituita da tribunali speciali alle dirette dipendenze dell’esecutivo.
Orbán è riuscito a imporre agli ungheresi anche una serie di leggi che limitano le libertà personali e i diritti sociali. Ad esempio i giovani dopo la laurea devono risiedere obbligatoriamente nel proprio Paese per un periodo compreso tra i 5 e i 10 anni, per non essere condannati con pesanti sanzioni pecuniarie che molte famiglie non possono permettersi di pagare. Nonostante il primo ministro sfrutti spesso le radici cristiane del suo Paese in campagna elettorale, le ha dimenticate al momento di approvare una norma contro i senzatetto che nel 2018 ha inserito l’accattonaggio tra gli illeciti penalmente perseguibili. Dopo quasi dieci anni di politiche che calpestano i diritti umani basilari, il governo di Orbán sembra aver subito una battuta di arresto con l’approvazione nel dicembre scorso di una legge che autorizza le aziende in Ungheria a imporre fino a 400 ore l’anno di straordinari ai dipendenti, pagabili anche a tre anni di distanza. La decisione, definita “legge schiavitù” dagli ungheresi, ha scatenato le più grandi manifestazioni di piazza dal 2010 a oggi.
L’attacco alla democrazia polacca, invece, è iniziato nell’ottobre 2015 con la vittoria alle elezioni del partito ultranazionalista Diritto e Giustizia di Jaroslaw Kaczynski che ha formato un esecutivo sbilanciato a destra e appoggiato da un parlamento dove la principale forza di opposizione sono i liberali di Piattaforma Civica. Meno di tre mesi dopo il governo polacco ha varato una riforma dell’informazione che delega al ministro del Tesoro la nomina e eventualmente la rimozione dei direttori dei 4 canali televisivi più importanti del Paese e di oltre 200 stazioni radio.
A supporto del governo polacco agisce anche una potente lobby di area integralista cattolica: Tadeusz Rydzyk, sacerdote con un passato da conduttore radiofonico in una radio xenofoba bavarese, all’inizio degli anni Novanta ha fondato Radio Maryja. L’emittente non ha nulla a che fare con la più nota radio del Vaticano, ma è una delle più ascoltate in Polonia, soprattutto nelle zone rurali dove si concentra il bacino elettorale di Diritto e Giustizia. Oggi la radio di Tadeusz Rydzyk fa parte di una più ampia associazione, la Famiglia di Radio Maryja: con sei milioni di membri in un Paese di nemmeno quaranta milioni di abitanti, l’associazione gode di 25 milioni di zloty (quasi sei milioni di euro) di donazioni annue e controlla l’emittente televisiva Trwam (Io Persisto) e il giornale Nasz Dziennik (Il Nostro Quotidiano), che propagandano le posizioni ultracattoliche condivise da Rydzyk e dal governo polacco. Il sacerdote risulta anche proprietario, attraverso la società Lux Veritatis, di una scuola di giornalismo a Torun. A partire dal 2015 il governo di Diritto e Giustizia ha concesso a Lux Veritatis 166 milioni di zloty di fondi pubblici (poco meno di 39 milioni di euro).
La costruzione di uno Stato autoritario passa anche in Polonia per i canali della cultura e della riforma del sistema giudiziario. Nel 2016 il governo ha abolito le sovvenzioni alle scuole che organizzano corsi di educazione sessuale, perché accusate di propagandare l’ideologia gender. Nel 2019, dopo oltre due anni di dichiarazioni denigratorie nei confronti di Lech Walesa, leader simbolo della transizione democratica a fine anni Ottanta, il governo ha tagliato i fondi al museo di Solidarnosc, accusato di diffondere l’immagine di una Polonia progressista e inclusiva per i migranti. Inoltre, ormai da anni, il governo polacco fa riscrivere i testi scolastici promuovendo l’esaltazione del nazionalismo polacco, la demonizzazione di Germania e Russia come nemici storici della nazione, e la negazione delle complicità polacche nella Shoah. Oltre al controllo della cultura, l’esecutivo vuole anche quello sul sistema giudiziario: nel 2018 è stato accusato di violare il principio della separazione dei poteri con una discussa riforma per abbassare l’età di pensionamento dei giudici della corte suprema, che nel 2016 avevano pesantemente criticato l’esecutivo. Con una legge ad hoc, 27 giudici su 74 sono stati rimossi dall’incarico. Il controllo dei giudici è stato sottoposto all’autorità del Presidente della Repubblica Andrzej Duda, esponente di Diritto e Giustizia, provocando la condanna da parte della Corte europea.
I partiti nazionalisti in Polonia e Ungheria stanno operando una transizione dalla democrazia a un modello di governo autoritario con il controllo della cultura e dell’istruzione, il restringimento degli spazi di informazione e libertà di espressione e una sostanziale abolizione della separazione dei poteri, con il potere giudiziario subordinato a quello politico e spesso trasformato in uno strumento di repressione. Questo modello basa il suo consenso sul processo di costruzione dell’identità nazionale per opposizione ai migranti e più in generale agli stranieri, compresi gli altri cittadini europei. Il processo di costruzione del consenso dei partiti al governo in Polonia e Ungheria ha molto in comune con quello messo in campo in Italia da Matteo Salvini. Ora che il centrodestra a trazione leghista sembra godere del favore della maggioranza dei votanti negli ultimi sondaggi, i continui elogi del ministro dell’Interno a sistemi sempre più autoritari e repressivi dovrebbero farci seriamente preoccupare per il futuro della democrazia anche nel nostro Paese.