Aiutare l’Ucraina non esclude affatto sostenere altri popoli oppressi. Anzi, sia di esempio. - THE VISION

La guerra in Ucraina ha inaugurato una nuova tipologia di conflitto. Pensavamo che le guerre nel terzo millennio si sarebbero combattute seguendo i dettami delle realtà distopiche, con automi al posto dei soldati, armi ultramoderne manovrate da remoto, assenza di trincee e altri residuati novecenteschi. Invece siamo rimasti stupiti dall’arretratezza dello scontro: civili che imbracciano fucili, carri armati che restano senza benzina, soldati a corto di scorte, prigionieri e torture. Quello che ha realmente segnato il cambiamento nel modo di fare la guerra è l’utilizzo di un’arma che più di tutte sta aiutando gli ucraini nella loro resistenza: la comunicazione ai tempi di Internet.

Il presenzialismo mediatico del Presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha contribuito a sensibilizzare l’opinione pubblica su un conflitto che altrimenti avrebbe rischiato di passare non di certo inosservato, ma quanto meno allo stesso modo delle passate operazioni russe – Cecenia, Georgia, Siria – o ancora come le guerre in corso in giro per il mondo che non hanno la stessa visibilità. Il Presidente ucraino ha saputo affrontare il conflitto con le strategie del passato come guerriglia e trincee, coniugandoli a quelli del futuro, ovvero la comunicazione mediatica e tramite internet. Un’arma che qualcuno considera a doppio taglio, in quanto la sua presenza quotidiana sui media, persino nelle manifestazioni legate allo spettacolo come il Festival di Cannes o l’Eurovision Song Contest, ha portato una fetta di popolazione, soprattutto in Italia, a considerarlo fuori luogo, quasi inappropriato. Lo stesso vale per la sua continua richiesta di armi e aiuti di varia natura ai governi internazionali. C’è chi non ha apprezzato la sua insistenza, ma è quella di un leader che, a prescindere dalle opinioni sul suo operato, sta usando tutti i mezzi a sua disposizione per mantenere viva l’attenzione sulla guerra in corso. Il suo piano ha funzionato: la questione ucraina non è rimasta una bolla di indignazione passiva e mezzo sostegno a distanza, ma ha creato una mobilitazione attiva.

Volodymyr Zelensky

Questo dovrebbe servirci a vedere sotto una prospettiva nuova anche le altre guerre che si stanno combattendo nel mondo, e prendere l’Ucraina come esempio per sostenere tutti i popoli aggrediti, anche quelli che non hanno i mezzi per raggiungere certe vette di visibilità. Certo, ad aiutare la presa di coscienza dell’opinione pubblica c’è stato anche un fattore geografico. Questa è la prima vera guerra sul suolo europeo dai tempi del conflitto nei Balcani, e inoltre non è circoscritta a un solo territorio, in quanto l’effetto domino creato dall’invasione di Putin ha posto una minaccia sugli equilibri dell’intero scenario internazionale. Quindi prevale anche il coinvolgimento per un pericolo che potrebbe riguardare anche il proprio futuro, mentre il dramma degli yemeniti è una “faccenda loro” che al massimo commentiamo con un cordoglio formale, o il massacro dei curdi è qualcosa di “lontano” che si riallaccia a una deplorazione che proviamo senza intervenire, così come per la sorte dei palestinesi. Sarebbe necessario che assimilassimo questa lezione per fare luce sulle condizioni di popoli e nazioni che adesso hanno meno risalto virale, instaurando un tam-tam mediatico che non si limiti alle nostre paure o interessi, ma che porti l’empatia su un livello più esteso per poter sostenere gli altri popoli come stiamo facendo adesso con gli ucraini.

Chi ha tentato di mettere in atto questo ragionamento, spesso l’ha fatto con la malafede del benaltrismo. Ha sì affermato di non dimenticare tutte le altre guerre, ma con metodi tesi a screditare la resistenza ucraina, come se sostenerla supponesse un oblio per le altre. È un’opera di manipolazione quasi sempre attuata dai filo putiniani o dai critici della Nato per partito preso, un modo per sviare l’attenzione e non condannare esplicitamente l’aggressione dei russi, perché “anche gli altri hanno commesso orrori in giro per il mondo”. Nessuno l’ha mai negato. Semmai sono loro a chiudere un occhio sui massacri in Ucraina e a giocare sui complottismi di facciata, facendo intendere che i bombardamenti siano una reazione a chi “ha provocato” o “se l’è cercata”. Viene così usato lo scudo delle altre guerre per svilire i tre mesi di opposizione ucraina all’invasione russa, quando bisognerebbe invece ricordare questo periodo storico per imprimere nelle nostre menti la stessa nozione di vicinanza e di risalto comunicativo legata al popolo ucraino.

Per esempio i curdi, dopo la loro lotta contro l’Isis sono stati dimenticati dalla comunità internazionale e abbandonati sotto la repressione della Turchia e del suo Presidente Erdogan. È curioso infatti che colui che è diventato un elemento chiave di rilievo nei faticosi colloqui tra Russia e Ucraina sia la stessa persona che in queste settimane ha dichiarato che “spaccherà la testa ai curdi” e che è contrario all’ingresso della Svezia e della Finlandia nella Nato perché i due Paesi in diverse occasioni hanno rifiutato di estradare in Turchia diversi membri del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) presenti sul loro territorio. La Turchia fa parte della Nato, ma da anni si dimostra un membro tanto imprevedibile quanto necessario per il suo ruolo sul fianco Sud est dell’Alleanza Atlantica. 

Recep Tayyip Erdogan

Altro Paese dimenticato è lo Yemen, diventato uno scenario di guerra dal 2015 che non può essere ridotto a una faida tra sciiti e sunniti. Questo perché l’intervento diretto dell’Arabia Saudita, degli Emirati Arabi Uniti e di altre potenze regionali ha determinato un cortocircuito globale, in quanto l’Occidente è coinvolto in affari con tutti i membri della Coalizione militare a guida saudita, compresa la vendita delle armi utilizzate contro gli yemeniti. Anche in questo caso il conflitto ha avuto un risalto minore, in mancanza di quell’afflato di solidarietà che avrebbe rappresentato una grossa ipocrisia, essendo l’Occidente in qualche modo complice di questa barbarie. Ad aprile l’Onu ha annunciato una tregua della durata di due mesi per permettere alle parti coinvolte di trattare per la fine delle ostilità dopo sette anni di guerra, ma con il rischio che gli scontri riprendano nel silenzio internazionale.

Non è in vista nessuna tregua invece tra israeliani e palestinesi. Come sappiamo, gli scorsi giorni le forze armate israeliane avrebbero ucciso la giornalista palestinese-statunitense Shireen Abu Akleh mentre stava documentando un raid israeliano in un campo profughi in Cisgiordania. E abbiamo tutti negli occhi le immagini delle cariche della polizia israeliana persino ai suoi funerali. L’indignazione internazionale è sempre mitigata in casi come questo, perché esiste dal 1948 una sorta di patina, uno strato che avvolge Israele conferendo un’immunità, o un freno, alle critiche. Chi oltrepassa questo strato viene definito un antisemita, anche se non ha nulla a che vedere con un termine del genere e con qualsiasi forma di razzismo. Quindi tutte le risoluzioni dell’Onu vengono violate da 75 anni e il popolo palestinese è stato massacrato, cacciato, ghettizzato e ridotto a simulacro da cui sottrarre ogni stilla di identità. 

Scontri durante i funerali di Shireen Abu Akleh a Gerusalemme

Quello che accomuna palestinesi, curdi e yemeniti non è un contesto storico o un’analogia tra le guerre che stanno combattendo, ma l’impotenza di fronte agli aggressori e un sostegno internazionale ridotto o addirittura assente. Il Presidente dell’autorità palestinese Abu Mazen non ha il carisma mediatico di Zelensky e nemmeno l’opportunità per inserirsi nel medium della battaglia comunicativa, e così i leader curdi e yemeniti. Zelensky non sta elemosinando gli aiuti, li sta chiedendo sollecitando l’Occidente non soltanto a mostrare una bandierina gialloblu, ma a contribuire alla loro liberazione frenando l’invasore. E lo fa in modo volutamente sfacciato, attirandosi anche antipatie, perché sa che è l’unico mezzo per tentare di resistere all’avanzata russa. Quello che noi cittadini possiamo fare è concepire i nuovi tratti delle guerre, che si combattono anche sui campi di battaglia mediatici, ed estenderli anche nelle guerre dimenticate o considerate “irrisolvibili”, che siano in Africa, in Medio Oriente o in Asia. Forse è pura utopia, ma è un segnale per i benaltristi per far capire che il nostro sostegno all’Ucraina non è in antitesi con quello verso altri Stati in pericolo.

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