Per diversi secoli, il potere di una nazione è stato misurato in base a due forze: quella economica e quella militare. Andando a ritroso potremmo parlare addirittura di millenni, considerando che anche le prime tribù seguivano una logica simile, solo che al posto dei carri armati c’erano le mazze e al posto dei dollari beni da barattare, che fosse la pelle di un animale o una particolare erba. In contrapposizione a questo cosiddetto hard power, nel 1990 il politologo Joseph S. Nye teorizzò una nuova prospettiva riguardo l’influenza di una nazione sulle altre, basata non più esclusivamente su metodi coercitivi o sul peso del denaro, ma sul “potere di seduzione che uno Stato esercita sugli altri”, che definì soft power, caratterizzato dall’immagine che una nazione vuole trasmettere all’esterno dei suoi confini per mezzo di vari strumenti di fascinazione, come per esempio la cultura di massa, i valori identitari e la vendibilità dell’immagine del Paese stesso, che di fatto si trasforma in un brand.
Per spirito di campanilismo qualcuno potrebbe pensare di collocare l’Italia al primo posto per soft power, anche solo per il nostro patrimonio artistico, storico e culinario. Se invece siamo sotto nazioni come Svizzera e Canada, vuol dire che per decenni la nostra classe politica ha sbagliato tutto. Come già detto, il soft power non è collegato all’economia, e non è un caso che nella classifica del 2023 sui Paesi con il PIL nominale più alto la Svizzera sia al ventesimo posto e nello studio di Brand Finance sul soft power sia ottava. In entrambe le classifiche, al primo posto svettano gli Stati Uniti.
Questo primato lascia intendere come il soft power non sia il sinonimo di una nazione migliore delle altre a livello etico o morale, ma la proiezione di ciò che ne traspare all’estero. Per gli Stati Uniti, in questo determinato piano di influenza Hollywood ha assunto un ruolo più impattante del Pentagono o della Casa Bianca, e di conseguenza il sogno americano creato “in laboratorio” nella cultura di massa ha fatto breccia nella percezione dei cittadini di gran parte del mondo. Solo una piccola percentuale degli abitanti del pianeta ha visitato New York, ma tutti conoscono il suo lato da cartolina mostrato nei film, così come hanno in mente la vita dell’americano medio, che la domenica fa il barbecue nella villetta a schiera. Il soft power è anche – per forza di cose – mistificazione della realtà, o più che altro un’alterazione che edulcora un’immagine e la ripulisce. La Statua della Libertà e il concetto costituzionale di pursuit of happiness prevalgono sulle armi vendute al supermercato, sulla brutalità delle forze dell’ordine contro gli afroamericani e, di base, sulla culla della società capitalistica. D’altronde, Hollywood è riuscita a trasformare i cowboy nei buoni e “gli indiani d’America” nei cattivi, dunque ha raggiunto in pieno il suo obiettivo.
Vedendo al secondo posto della classifica sul soft power il Regno Unito, è più facile comprendere come le nuove forme d’arte della seconda metà del Novecento e le sue icone abbiano plasmato la figura di un intero territorio. Quando nel 1964 i Beatles comparvero per la prima volta negli Stati Uniti all’Ed Sullivan Show, avvenne una concatenazione di fenomeni che li portò a diventare delle figure rappresentative dell’Inghilterra più di quanto non lo fosse stato addirittura Winston Churchill. Dal mito americano di Elvis si passò all’invasione britannica, fino a rendere Liverpool – località portuale che, con tutto il rispetto, non ambisce a essere patrimonio dell’UNESCO – il centro del mondo. La musica trainò l’intera immagine della Gran Bretagna, anche con il successivo arrivo di band come i Rolling Stones, i Kinks, i Pink Floyd e i Led Zeppelin. La musica comportò anche cambiamenti d’immagine, di mentalità e di influenza sulle nuove generazioni. Capelli lunghi per i ragazzi, minigonne per le ragazze, colori sgargianti che sfociarono nella Summer of love, nella psichedelia e nei moti del 1968. Se oggi, nel 2023, un’anonima stradina di Londra, Abbey Road, è la via più famosa del pianeta – e non ci sono Via del Corso, Fifth Avenue o Champs Elysée che tengano – è per la potenza di quattro ragazzi che suonavano in una band e che dai localini di Liverpool arrivarono a diventare “più famosi di Gesù Cristo”.
Ogni epoca ha i suoi andamenti mediatici, le sue risonanze in grado di captare gli umori di un popolo e di esportarli all’estero. Così il Giappone, una nazione che è uscita letteralmente sventrata dalla seconda guerra mondiale, ha ricostruito la sua identità attraverso la cultura pop. Il mix tra anime, manga e videogiochi e la crescita del settore tecnologico ha fatto esplodere il suo indice di soft power. Come è successo a New York, anche Tokyo è diventata una meta turistica – anche solo immaginaria – grazie a opere che ne hanno delineato tratti non per forza veritieri. Il Giappone è infatti una nazione a due facce: da un lato la luce che percepiamo, la delicatezza delle buone maniere, del rispetto, così come la capacità di trasformare in mascotte qualsiasi cosa, dai Pokémon a Super Mario; dall’altro, persiste uno stakanovismo che raggiunge i culmini della morte da eccessivo lavoro, un maschilismo imperante, l’omertà dello Stato sul ruolo della Yakuza e addirittura pericolose inclinazioni pedopornografiche mai del tutto risolte. Eppure, le ombre ci giungono con molta meno veemenza dello scintillio dei gadget, di un capitalismo in salsa nipponica che negli ultimi decenni ha reso il Giappone una superpotenza principalmente culturale. Reinventarsi senza adagiarsi sugli allori del passato ha fatto sì che adesso, in qualunque parte del mondo, l’immagine del Giappone sia comunque più appetibile della nostra. Questo anche perché, per lo meno negli ultimi trent’anni, all’estero tutti hanno associato l’Italia a un solo nome: Silvio Berlusconi.
Da pasta-pizza-mandolino siamo diventati “il Paese di Berlusconi”, cioè l’esasperazione dello stesso stereotipo ma con l’inserimento di sfumature dal ridicolo al tragico, e si tratta a tutti gli effetti di un danno d’immagine. Sì, certamente hanno contribuito anche l’incuria, le strategie di comunicazione fallimentari – qualcuno ha detto “Open to meraviglia”? – e l’essere diventati il simulacro di un passato glorioso che sta crollando a pezzi. Nel già citato studio sul soft power siamo al decimo posto, e il risultato in top ten lo dobbiamo esclusivamente ad alcune voci che appaiono nella ricerca: “Cibo che il mondo ama” (dove siamo al primo posto), “Ricco patrimonio culturale” e “Popolazione amichevole” (primo posto). In tutte le altre voci, però, non compariamo nemmeno. Nemmeno quando si parla di “Influenza nell’arte e nell’intrattenimento” (Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna sono le tre sul podio, nonostante i Maneskin) o “Luogo dei sogni da visitare” (Maldive, Svizzera e Francia), ovvero categorie dove dovremmo primeggiare, se solo avessimo avuto un minimo di senno e avessimo coltivato maggiormente i mezzi per aver più appeal all’estero. Non pretendiamo di certo di finire in altre voci dello studio, come “Città e trasporti sostenibili”, “Investimenti in economia e tecnologie green”, “Protezione dell’ambiente”, “Sicurezza” o, appunto, “Reputazione all’estero”. Paradossalmente in alcune categorie siamo stati penalizzati da chi ha un indice superiore di soft power, come gli Stati Uniti che, tramite cinema e serie TV, hanno spesso dipinto gli italiani con caratteristiche più simili a quelle degli italo-americani o, nel peggiore dei casi, con i ritratti macchiettistici dei mafiosi. Certo, noi stessi non contribuiamo se nei negozi di souvenir vendiamo tazze con Don Vito Corleone o Tony Soprano, dimostrando come la nostra caricatura importata dall’estero stia scavalcando, in modo grottesco, l’italiano stesso.
Se questo indice di soft power fosse esistito in passato, di certo avremmo avuto maggior risalto negli anni d’oro del cinema italiano, con i Fellini e i De Sica nell’olimpo dei registi, o prima ancora, quando eravamo tra i maestri indiscussi della musica classica, a tal punto che ancora oggi vengono utilizzati termini nella nostra lingua. Oggi quell’indice è ingessato, resta fermo perché l’immobilismo politico, culturale e sociale gli impedisce ogni movimento. Al limite possono esserci exploit estemporanei. In questi giorni – e può sembrare buffo – ciò che maggiormente è riconducibile all’Italia è una carota, simbolo di Jannik Sinner, protagonista di mesi ai vertici del tennis mondiale e figura di rilievo nella vittoria della Coppa Davis a quarantasette anni da Panatta e compagni.
Le carote sono state usate come sfottò dai tifosi serbi, e poi come mezzo d’elogio in tutto il mondo per celebrare la nostra impresa. Non possiamo però affidarci a particolari allineamenti dei pianeti o a imprese dei singoli: è un modo per delegare e non affrontare le difficoltà che attanagliano il Paese. E non mi riferisco ai problemi tangibili nella vita di tutti i giorni, ma alla luce che riflettiamo come nazione, al modo in cui siamo visti fuori, al soft power che ci indica che siamo bravi a cucinare e calorosi. Nulla più. Nessuna influenza artistica, niente avanguardie o movimenti culturali che possano renderci più intriganti come nazione se escludiamo alcune realtà importanti, come la moda, o qualche nicchia d’élite. Siamo la luce ancora riflessa di una stella già esplosa, e al massimo andiamo in tendenza su Tik Tok per un meme sull’impero romano. Roma, la città più bella del mondo, invasa da immondizia e corruzione. Un’immaginetta del nostro Paese, ma con la torre di Pisa e una gondola messe insieme come se provenissero dalla stessa città. Pompei, un prodigio storico, ma per molti è “quella del concerto dei Pink Floyd”. Punto per l’Inghilterra, e noi a mani vuote a contemplare un passato che non tornerà più.