Marylin Loden lavorava come manager per l’azienda di telecomunicazioni New York Telephone Co. quando le venne chiesto di intervenire a una conferenza della Women’s Exposition del 1978. Durante il panel, intitolato Mirror, Mirror on the Wall (“Specchio, specchio delle mie brame”), si discuteva di come, per una donna, l’aspetto fisico fosse la causa principale della difficoltà di far carriera. Loden aveva raccolto abbastanza opinioni da ritenere che il problema non fosse ciò che lei e le sue colleghe indossavano, ma la presenza di una “barriera invisibile che ostacola la carriera e che nessuno riconosce”: il soffitto di cristallo. L’espressione venne poi ripresa da un articolo del Wall Street Journal e definita come “un elemento non citato in alcun manuale aziendale e né tantomeno discusso in una riunione di lavoro, ma che era stato originariamente introdotto come fenomeno invisibile, segreto, non detto, taciuto per mantenere le posizioni di leadership nelle mani dei maschi bianchi”.
Secondo il recente report Women in the Workplace 2019 realizzato da McKinsey & Company, società internazionale di consulenza manageriale, e Lean In, organizzazione fondata dall’attuale direttrice operativa di Facebook, Sheryl Sandbarg, a ostacolare la carriera delle donne verso il comando e la responsabilità non sarebbe solo il soffitto di cristallo, ma proprio il primo gradino del percorso lavorativo stesso. Esiste infatti un collo di bottiglia all’ingresso del C-Suite, il ruolo dirigenziale, che impedisce alle donne di avanzare sul lavoro: per ogni 100 uomini, solo 72 donne vengono promosse al primo livello da manager. La maggior parte resta bloccata in ruoli entry-level. Soltanto riparando questo “gradino rotto” si può pensare di raggiungere la parità ai livelli più elevati. “Finché non si aggiusta il primo gradino della scala, le donne faranno sempre fatica a raggiungere l’uguaglianza, se mai ci arriveranno”, si legge nello studio, aggiornato cinque anni dopo la sua prima edizione.
Questo problema però non sembra essere considerato. Secondo la maggior parte dei responsabili delle risorse umane delle 329 grandi aziende analizzate, il gender gap è dovuto principalmente alle minori sponsorship ricevute dalle donne rispetto agli uomini e dall’assenza di lavoratrici qualificate all’interno della pipeline, il flusso gerarchico. È il chiaro ripetersi di quel meccanismo che giustifica il patriarcato individuando una “mancanza” nelle donne, e che da sempre cancella ogni merito femminile: è perché poche donne se lo meritano che il Nobel lo hanno vinto più uomini; sono meno brave a scrivere, ecco perché i principali riferimenti intellettuali sono maschili; hanno meno talento dei colleghi, non possono essere promosse. Invece il report di McKinsey stima che, rompendo la barriera che impedisce alle donne di accedere ai ruoli dirigenziali, nei prossimi cinque anni in America si avrebbe un milione di donne manager in più. “Il numero di donne diminuisce proporzionalmente mano a mano che si sale nella scala gerarchica” commenta Rachel Thomas, co-founder di Lean In. “Quindi anche se ci sono più manager donna di prima ai livelli senior, la parità è ancora lontanissima. Semplicemente, le donne che vanno avanti sono ancora troppo poche”. Iniziando col riparare il primo “gradino rotto” si scatenerebbe una reazione a catena positiva capace di coinvolgere l’intera struttura gerarchica: promuovendo più donne da posizioni entry-level a manager di primo livello ce ne sarebbero di conseguenza di più da far avanzare a ogni livello successivo. Per concretizzare le stime dello studio, basterebbe attuare gli stessi tassi di assunzione e promozione già validi per gli uomini, anche per le donne. E questo funzionerebbe non solo oltreoceano.
Nel 2011, in Italia è stata emanata la legge Golfo-Mosca per tutelare la parità di genere nell’accesso agli organi di amministrazione e di controllo delle società quotate in mercati regolamentati. In base a un’analisi del Sole 24 Ore su dati FactSet, la percentuale di donne presente nei board delle aziende italiane quotate è del 36,4%, fra le più alte al mondo. Per fare un confronto, la media dell’Europa occidentale è pari al 26,7%. “A fronte di un aumento della presenza delle donne nei board non si è verificato però un incremento delle donne nelle prime linee manageriali delle aziende, dove i numeri sono più penalizzanti”, dice Tommaso Corcos, presidente di Assogestioni e Ceo di Eurizon Capital.
Il gender gap resta quindi molto alto nel management e questo problema andrebbe affrontato con maggior impegno: sia per assicurare pari opportunità ai dipendenti sia perché si rivelerebbe di beneficio per le aziende. Alcuni studi evidenziano infatti come la diversità di genere sia correlata positivamente alla creazione di valore aggiunto: un’alta presenza di donne a livello dirigenziale permetterebbe di generare maggior reddito operativo e di creare più valore nel lungo periodo. Un risultato importante per scardinare i pregiudizi degli investitori e dei manager di alto livello, che reputano le donne meno focalizzate sul profitto e più sui valori sociali dell’attività aziendale, e più capaci di fare carriera grazie al proprio corpo.
Leah Sheppard, docente di Management alla Washington State University, e Stefanie Johnson, della Boulder’s Leeds School of Business presso la University of Colorado, hanno condotto due esperimenti diversi per provare l’esistenza del cosiddetto “effetto femme fatale”. Dallo studio emerge che le manager di bell’aspetto sono considerate meno affidabili, meno sincere e più meritevoli di “essere messe al loro posto”, a prescindere dai risultati concreti del proprio lavoro. Secondo Stefania Boleso, esperta di marketing strategico e fondatrice di Trademark-You, “Tutto nasce da uno stereotipo che ci fa credere che la bellezza, per una donna, sia una delle chiavi per fare carriera. Si può ribaltare il pregiudizio raccontando le innumerevoli storie di chi ha raggiunto il vertice con grande professionalità e con pieno merito, portando alla luce l’impegno e il sacrificio che è stato necessario per arrivare fino a lì”.
È fondamentale che ogni azienda faccia sì che chi lavora nelle risorse umane sia privo di pregiudizi, per bilanciare il gender gap e stabilire un processo di assunzione e promozione chiaro e trasparente. Anche secondo il Censis, infatti, le donne svolgono spesso mansioni di livello inferiore rispetto alle proprie competenze e al proprio titolo di studio, tanto che il 48,2% degli italiani è convinto che debbano studiare più degli uomini per raggiungere gli stessi traguardi. Al pregiudizio si aggiunge poi la difficoltà di conciliare carriera e famiglia, aspetto che spesso non viene nemmeno preso in considerazione per il genere maschile: il tasso di occupazione delle donne tra 25 e 54 anni che hanno figli piccoli è del 57% a fronte dell’89,3% degli uomini. E questo nonostante il fatto che occuparsi della crescita di un figlio faccia sviluppare competenze tipiche del leader, quali responsabilità, capacità di analisi, problem solving, empatia e gestione del tempo, tanto che Maternity As A Master’s, il programma di formazione digitale per le aziende nato in Italia, lo paragona al conseguimento di un master universitario.
Allungare il congedo di paternità, stabilire una più alta retribuzione per il congedo parentale e incentivare per entrambi i genitori la possibilità di essere più flessibili nell’astensione dal lavoro per i figli sono possibili soluzioni per garantire una maggiore uguaglianza di genere a tutti i livelli aziendali. Il gender gap avviene anche a livello economico: dal 2016 al 2018 la differenza di salario lordo fra uomo e donna è diminuita del 2,7%, ma è ancora pari a 2700 euro all’anno. Come lavorare due mesi gratis. Il Global Gender Gap Report 2018 realizzato dal World Economic Forum stima sia stato colmato solo il 68% del gender gap mondiale. Per eliminare le restanti disparità di genere avremmo bisogno di altri 108 anni.
Il problema è che la maggior parte delle discriminazioni sul lavoro avvengono a livello inconscio. Non siamo abituati a vedere donne in posizioni di potere e quindi crediamo non sia possibile che succeda. Le donne stesse, abituate fin da bambine a sentirsi ripetere di non essere intelligenti quanto i maschi o abili in determinate occupazioni, e costrette a confrontare costantemente la propria performance con quella dei colleghi, finiscono per essere meno ambiziose e percepirsi meno meritevoli di ricoprire posizioni di prestigio. Riconoscere e affrontare il pregiudizio inconscio è la base per una cultura inclusiva in cui tutti possono contribuire e sviluppare il loro pieno potenziale. Bisogna creare un ambiente in cui alle donne vengano offerti lo stesso sostegno e le stesse opportunità che da sempre sono garantiti agli uomini. Promuovere più donne ai vari livelli manageriali non solo aiuta le aziende a crescere, ma permette anche di modificare la stessa cultura del lavoro, formandone una più inclusiva ed equa. La leadership aziendale deve essere sempre coinvolta sul tema, stabilendo tra le priorità della propria organizzazione anche la gender diversity e mostrando un impegno che arrivi ai lavoratori di tutti i settori. Anche perché forse, quei 108 anni necessari a colmare le disuguaglianze di genere, non li avremo.