Primo agosto, Crema. È l’ora di pranzo e fuori da un ristorante, di fronte a un campo, una donna tiene in mano due bottiglie di benzina. Dopo qualche minuto se le versa addosso e si dà fuoco. Un uomo, passando in macchina, si accorge della scena e corre in aiuto della donna. Prova a spegnere le fiamme con un asciugamano, chiama la polizia, fa il possibile. È il primo a soccorrerla. E l’unico. Al suo arrivo nota una ventina di persone intorno alla donna: nessuno sta intervenendo per aiutarla, erano tutte con il telefono in mano a filmarla.
I soccorsi arrivano dopo 15 minuti, quando la donna è già morta. È la sindaca di Crema, Stefania Bonaldi, a riportare la vicenda su Facebook, avvisata da un messaggio dell’uomo che ha tentato di intervenire. Il commento di Bonaldi è un misto tra lucidità e disillusione: “Comprendo che non tutti possano avere il sangue freddo e la prontezza per intervenire quando una persona si dà fuoco. Si può rimanere gelati dallo shock di quanto sta accadendo. Ma se gli spettatori di questa tragedia hanno avuto la freddezza di prendere il telefonino e immortalare la scena, anziché correre in aiuto o chiamare i soccorsi, allora dobbiamo farci delle domande. Serie e molto, molto urgenti. Cosa siamo diventati?”.
Siamo diventati quel che siamo sempre stati, modificando i nostri comportamenti in base ai cambiamenti sociali, tecnologici, politici. L’episodio di Crema è l’evoluzione di un fenomeno di psicologia sociale che è stato teorizzato già diversi decenni fa: l’effetto spettatore. Conosciuto anche come effetto bystander, consiste proprio nella difficoltà degli individui di offrire aiuto a una vittima quando si è in gruppo. Maggiore è il numero dei testimoni, minore è il senso di responsabilità: gli individui attendono che siano gli altri a fare la prima mossa, imitano il comportamento del branco e si adeguano persino a uno stato di ignavia. Nell’episodio di Crema, il gruppo composto da una ventina di persone che ha assistito all’innescarsi della tragedia non ha aiutato la donna in fiamme, mentre l’ha fatto l’uomo che è arrivato da fuori, che ha percepito la scena a distanza della “massa”, ed era così immune all’effetto spettatore.
Il fenomeno è stato studiato per la prima volta nel 1968 dagli psicologi sociali John Darley e Bibb Latané, che hanno organizzato esperimenti con delle cavie. Inscenando una situazione di emergenza, Darley e Latané hanno analizzato le reazioni dei soggetti in gruppo e di quelli isolati, arrivando alla conclusione che ci fosse una netta differenza tra i due casi. Quando nell’esperimento venivano coinvolti tanti individui, i soggetti offrivano minor aiuto rispetto a quando l’avvenimento veniva mostrato a un singolo. Il comportamento è influenzato dal senso di appartenenza a un gruppo, da una coesione sociale che esula dal senso di altruismo della persona in sé. È più facile che il “buon samaritano” agisca da solo, mentre in un contesto di collettività la responsabilità viene destrutturata, ed entrano in gioco quei fattori sociali che disinnescano l’istinto primordiale dell’aiuto legittimando l’attesa di massa. Trasportato a oggi: se uno tira fuori il telefono è come se desse il via libera a tutti.
L’effetto spettatore è stato ispirato da un fatto di cronaca nera: l’assassinio di Kitty Genovese, avvenuto nel 1964. La ventottenne newyorkese fu aggredita nel Queens, in piena notte, a pochi passi dalla sua abitazione. Un uomo, Winston Moseley, le diede due coltellate alla schiena. Secondo un articolo pubblicato nei giorni successivi dal New York Post, erano ben 38 i testimoni affacciati alle finestre. Negli anni quella cifra è stata ridimensionata, ma resta il fatto che soltanto uno di loro gridò all’uomo di andarsene. Quando Moseley scappò, qualcuno chiamò la polizia, ma dando indicazioni vaghe, come se si trattasse di un litigio amoroso, schiamazzi tra amanti in piena notte. La ragazza non fu soccorsa da nessuno, e dopo dieci minuti Moseley tornò, violentandola, derubandola e uccidendola.
La differenza tra il caso Genovese, o gli esperimenti condotti da Darley e Latané, e le vicende attuali, risiede nella possibilità di documentare la violenza. I testimoni non soltanto cedono all’effetto spettatore, ma si illudono di perdere la propria passività immortalando la scena. I cattivi samaritani si trasformano in reporter per la loro nicchia sui social, che poi si espande fino a raggiungere la vastità del web. Questo voyeurismo dell’orrore non sembra risiedere però nel progresso tecnologico in sé, perché il problema, in questo caso specifico, non è il mezzo, ma l’uso che se ne fa. Se per anni la gente ha invaso l’isola del Giglio per fotografare i resti della Costa Concordia, il tratto macabro non albergava nello strumento che gli dava la possibilità di farlo, ma nel desiderio della persona che decideva di conservarsi un souvenir di pessimo gusto.
L’avvento delle nuove tecnologie ci ha permesso di assistere a scene raccapriccianti. Per restare in Italia, a questo proposito ricordiamo il caso di Pateh Sabally, ventiduenne gambiano che nel 2017 si è buttato non sapendo nuotare nelle acque del Canal Grande a Venezia. La gente ha iniziato a filmare la scena, e nessuno si è tuffato per salvarlo. Nei video si sentono grida come “Africa” o “Meglio lasciarlo morire”. Da un vaporetto nei paraggi, un bagnino stava per tuffarsi, ma è stato distratto da una donna che gli ha fatto perdere tempo urlando: “Sta facendo finta”. Nemmeno il tempo di voltarsi, e Sabally era annegato.
Questo è un caso ancora diverso, perché oltre all’effetto spettatore con deriva tecnologica, si aggiunge l’aggravante razzista, la cattiveria umana che porta le persone non solo a non fare niente per aiutare un essere umano in pericolo di vita, ma a scoraggiare pure i soccorsi. Le cose ormai sembrano essere successe davvero solo se ne resta una traccia visiva, se riusciamo a immortalarle, tanto che ormai osserviamo il mondo per prima cosa attraverso lo schermo del telefono. È la differenza tra vivere e assistere alla vita. E questo vale in tutti i campi: ad esempio, la maggior parte delle persone assiste a un concerto con il telefono in mano. Non guarda lo spettacolo con i propri occhi, ma attraverso una diretta Instagram o un video da inviare a un amico. Per millenni alcune tradizioni di pensiero si sono concentrate sull’apertura del terzo occhio, su una diversa percezione della realtà in ambito spirituale. Forse adesso, mestamente, possiamo ammettere che qualcosa non ha funzionato nella nostra evoluzione, perché il nostro terzo occhio è diventato uno schermo.
Il corpo dell’uomo e i suoi movimenti si sono sempre adattati all’ambiente in cui viveva, alle sue esigenze di sopravvivenza. Adesso non si tratta più di arrampicarsi sugli alberi, proteggersi dal freddo o cacciare, ma continuiamo lo stesso a modificare le nostre abitudini in base al nostro modo di vivere. Una ricerca della Anglia Ruskin University ha dimostrato che gli smartphone cambiano la nostra postura e nostro modo di camminare. È emerso che la classica camminata con il telefono in mano e gli occhi sullo schermo, quella ormai sempre più frequente nelle città di tutto il mondo, è diversa rispetto a quella “normale” per l’altezza del piede guida, la velocità e i movimenti del corpo per schivare gli ostacoli.
Tuttavia, fino a quando il telefono si limita a influenzare il nostro modo di assistere a un concerto o di camminare per strada, la questione resta personale; quando invece entra nel circuito di altri fenomeni già di per sé molto gravi, come l’effetto spettatore, diventa nociva per l’intera società. L’effetto spettatore di oggi non è più quello degli anni Sessanta, si è arricchito di connotazioni sciacallesche: le persone non solo omettono soccorso, ma documentano la sofferenza altrui. Lo spettatore si è trasformato in un paparazzo del dolore e non se ne rende conto, per come comunica la società di oggi gli viene spontaneo. Per fortuna ci sono delle eccezioni, ma ciò non toglie che viviamo comunque nello stesso pianeta di chi filma una donna che arde viva per condividere il filmato con qualcun altro. E se di fronte a tutto questo facciamo finta di niente diventiamo spettatori anche noi.