Uno dei vari problemi che affliggono il nostro Paese è il fatto che sebbene sia evidente che viviamo immersi in una cultura sessista e misogina, è molto più diffusa di quanto si possa immaginare l’idea che le cosiddette quote rosa, nome affibbiato alle quote di genere dalla stampa nazionale che finisce per creare solo fraintendimenti, siano un fardello scomodo per l’emancipazione femminile. Come se fossero una disdicevole macchia nel percorso verso il raggiungimento della parità o una pretesa assurda per sostituire il merito. Una convinzione, questa, che trova giustificazione nel principio secondo cui non c’è bisogno che qualcuno ti conceda il diritto di occupare una determinata posizione quando puoi benissimo prendertela da sola.
L’ultima, in ordine di tempo, è stata Levante. La cantautrice siciliana in gara all’ultimo Sanremo – tra le cinque donne ammesse a fronte di ventidue uomini – in un’intervista ha dichiarato: “Mi batto per le donne, ma non sostengo le quote rosa: il posto va meritato, non dato per forza”. Se quest’affermazione l’avesse rilasciata in Norvegia o in Islanda probabilmente nessuno avrebbe avuto da ridire, dato che questi Paesi sono pionieri nella lotta alle disparità di genere e hanno pressoché raggiunto l’effettiva uguaglianza tra i sessi. Peccato che l’abbia fatta in Italia, dove le cose stanno molto diversamente e dove per una donna risulta estremamente difficile ottenere gli stessi traguardi di un uomo, non a causa del merito, ma a causa di una visione sociale distorta che la penalizza sistematicamente.
Per capirlo basterebbe guardarsi intorno. In Italia, ad esempio, su 82 rettori universitari, ci sono solo 6 rettrici, e nel consiglio superiore della magistratura di cui fanno parte 24 membri, le donne sono 4. Ancora, su 65 testate giornalistiche, sono di nuovo soltanto 4 le donne al comando di una redazione. La Rai ha avuto 4 presidenti su 23. Emma Marcegaglia è stata l’unica presidente di Confindustria, che dal 1910 ha visto succedersi 28 uomini. Sono solo due, Umbria e Calabria, le regioni governate da una donna, e fra tutte le forze attualmente presenti in Parlamento Giorgia Meloni è l’unica leader. Maria Elisabetta Alberti Casellati è la 22esima presidente del Senato, e anche la prima donna. Nilde Iotti, Irene Pivetti e Laura Boldrini, invece, sono state le uniche presidenti della Camera, dal 1946. Attualmente su 319 senatori, le donne sono 112, e su 630 deputati, 227. E potremmo continuare così approssimativamente per ogni settore, perché le discriminazioni che le donne subiscono nel mondo del lavoro nel nostro Paese sono tante e varie.
A cominciare dal fatto che, stando ai dati, nonostante ci siano molte più donne che uomini nelle università, e che le donne si laureino di più e con voti migliori, quando diamo un’occhiata ai vertici delle aziende e delle organizzazioni sia pubbliche che private, la percentuale di donne si dirada fino a raggiungere in alcuni casi circa il 20%. Questo fenomeno descrive lo sbarramento di carriera che incontrano le professioniste ed è anche noto come soffitto di cristallo. Ma non è l’unico fenomeno penalizzante che le donne subiscono nel mondo del lavoro, esiste infatti anche quello dei “muri d’acciaio” o della segregazione orizzontale. Con questo termine ci si riferisce al fenomeno che determina la presenza del genere femminile in un determinato ambito professionale, basti pensare che la quasi totalità dei lavori infermieristici, di insegnamento e di segretariato in Italia sono nella maggior parte dei casi appannaggio delle donne. A tutto ciò bisogna aggiungere il pay gap, la differenza cioè, di trattamento economico tra uomini e donne a parità di lavoro. È stato calcolato che in Italia è come se una donna rispetto a un collega uomo cominciasse a guadagnare dalla seconda metà di febbraio, perché in media gli uomini percepiscono stipendi più alti del 44,3% rispetto alle colleghe. Valori che, secondo Eurostat, ci posizionano al diciassettesimo posto su 24 Paesi per ampiezza del gender pay gap nel privato. Mentre, per il World economic forum la partecipazione politica ed economica delle donne nel nostro Paese è a livelli insufficienti.
Questa ingiustizia, sistematica, pervasiva e radicata è frutto di una società patriarcale, ed è qualcosa che caratterizza ancora e in maniera profonda la nostra società. Il patriarcato non discrimina certo in base al merito ma in base al genere producendo una differenza sociale sulla base di una differenza biologica; non compie valutazioni oggettive delle capacità del singolo, se sei donna ti impedisce anche solo di dimostrare se e quanto vali, e soprattutto non giudica quel valore in modo oggettivo. Una società patriarcale è quindi una società iniqua, basata sulla discriminazione, e in un società del genere non ha senso parlare di meritocrazia.
Alla luce di tutto ciò, credere le cose stiano diversamente, che si tratti semplicemente di talento, impegno e forza di volontà, oltre a essere piuttosto ingenuo è del tutto fuori luogo. Secondo una visione del genere si dovrebbe pensare che in Italia le donne non siano in grado di fare le magistrate, le rettrici, le direttrici d’orchestra, le manager, le scienziate, le cantanti e così via. Dovremmo credere che gli uomini scrivano storie e dirigano film meglio delle donne, e da qui arrivare alla conclusione che gli uomini e le donne siano portati biologicamente a occuparsi di attività differenti.
Michela Murgia, fra le prime a rispondere alle dichiarazioni di Levante, in modo molto esaustivo e diretto, ha detto: “Se vuoi far reggere un sistema misogino in eterno infila una donna in ogni selezione. Sarà lei a difendere il sistema dicendo alle altre, io ci sono e sono brava, forse quindi siete voi che non ci avete provato abbastanza”. Facciamo infatti parte da talmente tanto tempo di questo modello socioculturale, e siamo talmente abituati a queste storture che spesso non le riconosciamo più, ci sembrano normali. Dietro convinzioni del tipo “Io ci sono perché me lo sono meritata. Quelle che sono rimaste fuori non lo meritavano abbastanza”, ci sono esattamente le stesse logiche misogine e maschiliste che influenzano la società in cui viviamo.
Il maschilismo non ha sesso, non c’è bisogno di essere uomini per essere maschilisti. L’ostacolo più grande che si oppone alla parità di genere, e anche alla meritocrazia, consiste nel rinnovare in modo perpetuo la posizione subalterna delle donne, e questo vale anche quando non riconosciamo i benefici che uno strumento come le quote di genere può produrre nella trasformazione della società, modificandone in primis le pratiche. In quest’ottica non è quindi un’assurdità cominciare a imporre la presenza delle donne attraverso leggi ad hoc che tutelino determinate categorie. Certo, sarebbe più bello che non ce ne fosse il bisogno, ma come abbiamo dimostrato il bisogno c’è e questa è una fase necessaria. Le quote di genere in Italia sono state introdotte dal 2011, richiedendo per legge che per almeno un quinto del totale nelle quotazioni azionarie di società, pubbliche e private ci dovessero essere donne. A oggi, anche se ancora in piccola parte, hanno fatto in modo che le donne acquistassero voce in capitolo in ambiti che sono sempre stati gestiti quasi esclusivamente dagli uomini. Uno studio della Consob ha dimostrato che vista l’obbligatorietà e le pesanti sanzioni previste in caso di violazione, la legge a oggi ha di fatto aumentato del 36% la presenza di donne nei Cda.
Restano ancora molte controversie, motivo di scontro anche tra i femminismi. Secondo Lea Melandri, icona storica del femminismo italiano, e direttrice della Libera Università delle donne di Milano, ad esempio, quella delle quote di genere in campo amministrativo è una battaglia di retroguardia, oltre che un enorme fraintendimento di quello che dovrebbe essere il ruolo delle donne in politica, perché parte dall’idea, secondo lei profondamente sbagliata, della donna come di una minoranza da difendere e rappresentare. Eppure sembrerebbe proprio così. Nonostante la legge sia entrata in vigore da tempo, infatti, si contano ancora innumerevoli esempi di panel, festival, conferenze e antologie composte interamente (o con minime eccezioni) da uomini.
Conservare un atteggiamento critico è fondamentale per evolversi nella direzione più etica. È fondamentale continuare a impegnarsi per cambiare la società. E pretendere il diritto di vivere in un Paese più giusto ed egualitario non è certo un capriccio o un’utopia: cambiare le cose è possibile. Ma finché le donne non occuperanno posti di responsabilità, non avranno mai il potere necessario per difendersi e lottare per così dire ad armi pari contro le discriminazioni che subiscono quotidianamente, sia da parte degli uomini che delle altre donne. Fino a quando non ci sarà reale uguaglianza sociale – non solo tra donne e uomini, ma tra tutti i cittadini – non si potrà dire di vivere in una società libera.