L’altro giorno una mia amica ha ammesso di ascoltare i miei messaggi vocali su Whatsapp a velocità 2x. Provando a riascoltarli a mia volta, la mia voce sembra quella di una papera robotica che si mangia le parole. Lo so, i messaggi vocali lunghi possono essere una scocciatura, e sopra i tre minuti c’è chi si rassegna e li cataloga come podcast, eppure ci sono rimasto male, come se il tempo dedicato a registrarli fosse stato tagliuzzato, perdendo di valore. Alla domanda sul perché di questa scelta la sua risposta è stata secca: “Devo ottimizzare il mio tempo”. Un altro segnale a riguardo mi è arrivato quando un utente sui social mi ha scritto di aver apprezzato un mio articolo “nonostante la lunghezza”. Un longform sulle 10mila battute si legge approssimativamente in meno di dieci minuti, a mio avviso un tempo accettabile per approfondire un argomento. Mi sono però sentito quasi in colpa per aver sottratto a qualcuno dei preziosi momenti della propria vita.
Oggi tutti sembrano essere attenti a dosare i secondi, i minuti, le ore. Forse il vero atto rivoluzionario nel 2024 è riscoprire la lentezza, se l’andazzo della nostra epoca è quello della frenesia. Mahatma Gandhi diceva: “Voi occidentali avete l’ora ma non avete mai il tempo”. È vero, viviamo vite caotiche, fatichiamo a fermarci, ma credo che sia necessario andare oltre i discorsi, affrontati più volte e tutti corretti, sul capitalismo che ci condanna a una velocità insostenibile e sullo smarrimento del piacere delle piccole cose. Credo che nel terzo millennio si sia aggiunta un’ulteriore componente a determinare la velocità con cui affrontiamo la vita: i social. Più che ottimizzato, il tempo viene consumato. E la consumazione è associata inevitabilmente a un prodotto, a una merce. Anche i movimenti che promuovono un cambio radicale, correnti legate a slogan come slow life, slow work o slow food, per quanto portino avanti temi più che meritevoli li associo inevitabilmente a una caption sotto un post di Instagram che sul momento mi dà la dopamina necessaria per accettare la rivoluzione, per poi dimenticare tutto dopo due minuti.
Credo che il problema non sia il mezzo in sé, ovvero gli smartphone, i social e internet, ma l’uso che se ne fa e le modalità di fruizione dei contenuti. Youtube, per esempio, non è il demonio: può essere usato sì per guardare una compilation di peti di animali, ma anche per guardare un lungo dibattito tra Mario Monicelli e Nanni Moretti sullo stato del cinema. Ecco, quel famoso video mi ha sempre colpito per la lentezza di ogni gesto. Un cappello introduttivo lunghissimo del presentatore (oggi l’avrebbero tagliato di netto), gente tra il pubblico che tra una sigaretta e l’altra interviene esponendo il proprio pensiero, i due registi a “sfidarsi” senza la fretta dello slogan facile o delle parole da articolare in pochi secondi per non arrivare in ritardo allo stacco pubblicitario. Se oggi riproponessero un confronto generazionale con Moretti nei panni del regista agée e un Pietro Castellitto a rappresentare le nuove leve, probabilmente tutto si ridurrebbe a qualche rapido giochino del tipo “Chi butti giù dalla torre?” con lo scorrimento velocissimo di immagini di attori e registi su uno schermo.
Esiste addirittura la Giornata Mondiale della Lentezza, l’8 maggio, istituita nel 2009. Vengono invitate le persone a riscoprire le passeggiate tra gli alberi, la lettura di un libro, l’otium come antidoto al busy bragging. Questo non vuol dire trasformarci tutti in emuli di Oblomov tramutando l’ozio in pigrizia e indolenza, ma nell’accezione moderna si traduce, sempre secondo i social, in una ricerca dei propri spazi e del proprio tempo. E chi lo fa è tenuto a farcelo sapere attraverso contenuti brevissimi che, ancora una volta, consumiamo senza accorgercene. Nelle ultime settimane mi sono appassionato ad alcuni video su Youtube di persone che hanno abbandonato la frenesia della società. C’è un tizio che assomiglia a Jason Momoa che ha deciso di vivere in un camper per raggiungere l’Alaska. Sembra la trama di Into the Wild, ma con l’invito a iscriversi al canale, a commentare e a non perdere la prossima puntata. Seguo anche una ragazza italiana sveglia e preparata che in nove minuti e quarantasei secondi mi spiega il costo della vita alle Isole Svalbard, nell’estremo Nord, dove si è trasferita. Tutta gente che invidio per scelte che non farò mai. Tutti video che non riesco a finire e che porto avanti fino alle parti salienti, perché la mia soglia dell’attenzione è praticamente diventata quella di un pesce rosso.
Credo che sia questo il vero problema della percezione del tempo ai giorni nostri: essendo bombardati da stimoli di ogni tipo e non volendo perderci nulla, li ingoiamo senza nemmeno masticarli. Questo vale indifferentemente per contenuti alti e bassi. Secondo uno studio della Tate Gallery di Londra, il tempo medio di permanenza di un visitatore davanti a un’opera d’arte è sceso a otto secondi. Non è un numero casuale, se si considera che Microsoft Canada ha condotto una ricerca su duemila partecipanti arrivando a calcolare la capacità di attenzione media proprio in otto secondi. In quel caso i soggetti dell’esperimento non erano davanti a “L’asino verde” di Chagall, ma assistevano a immagini casuali su uno schermo. Che sia un capolavoro della storia dell’arte o il video di un criceto su una ruota, la soglia dell’attenzione non cambia.
Una caratteristica dei nostri tempi è sicuramente quella di accorciare ogni attività, soprattutto quelle legate all’intrattenimento, con i contenuti che diventano sempre più brevi. Sono gli stessi algoritmi a “dettare l’agenda”: nel corso degli anni tutti i social hanno deciso di premiare la brevità. Twitter contrastava i post lunghi di Facebook, TikTok adesso fa lo stesso contrapponendosi ai video più lunghi di Instagram, che si è adeguato con reel e storie sempre più compressi. È diventata a tutti gli effetti un’esigenza di mercato. Nella musica contano ormai più i singoli che l’ascolto completo di un album. I vecchi LP di musica prog con canzoni di dieci minuti adesso sembrano materia giurassica. Una canzone trap dura in media due minuti. Può sembrare quasi un horror vacui dell’intrattenimento: dobbiamo riempire il tempo libero perché ci spaventa persino il silenzio o il senso antico della noia. Eppure ancora una volta la scienza ci consiglia il contrario. Uno studio dell’Università del Sussex svela che leggere un libro o un articolo in silenzio anche per soli sei minuti abbassa i livelli di stress del 68% e rallenta la frequenza cardiaca e la tensione muscolare.
Sono discorsi più che condivisibili sulla carta, ma per attuarli e riscoprire la lentezza, o almeno dei ritmi meno frenetici, bisogna ricalibrare una routine quotidiana a livello globale. Intrigante l’immagine di tornare a leggere libri con più frequenza o di andare in un bosco ad abbracciare gli alberi, ma al momento la media mondiale delle ore giornaliere passate davanti a uno schermo è sei e mezza, tempo sottratto ad altre attività che stiamo abbandonando. In qualche modo riscoprire la lentezza significa anche e soprattutto rimodulare il rapporto tra il tempo e noi stessi. Quindi anche stare mezz’ora in una stanza da soli a meditare, ricavarci uno spazio che non sia collegato a dispositivi esterni o allo scrolling che riempie il nostro tempo in modo effimero può rappresentare un cambiamento.
Facile a dirsi, meno a realizzarlo. Ho provato diverse pratiche per disintossicarmi dagli schermi, dalla velocità del nostro tempo e da una vita che per molti è frenetica non per scelta, ma per esigenze legate al lavoro, alla famiglia e a problematiche nella quotidianità. Tra queste pratiche ho provato l’approccio alla mindfulness, una forma di meditazione legata al “qui e ora” e alla consapevolezza di se stessi nello spazio e nel tempo. Lo ammetto: ho fallito perché non riuscivo a concentrarmi, ero distratto dal richiamo di altri stimoli. Il telefono, principalmente, ma anche i pensieri che andavano a una velocità troppo elevata per concentrarmi sullo “svuotamento di me”. Eppure chi la pratica con costanza mi parla di benefici e migliorie nella propria vita. Così come chi ha l’abitudine di fare una passeggiata ogni giorno o addirittura lavorare all’uncinetto: conta l’emancipazione dai ritmi esagitati, qualunque sia il mezzo. Dedicare il nostro tempo e la nostra concentrazione a un’attività senza le distrazioni dell’iperconnessione è probabilmente il primo passo da fare per ritrovare il proprio ritmo. Quindi anche fare una passeggiata di fretta o finire un maglione alla velocità della luce non risolve il problema.
Forse parlare della riscoperta della lentezza può sembrare un sermone da boomer. Non possono esserci imposizioni coatte o stravolgimenti nella vita delle persone senza una presa di coscienza personale su quali siano i ritmi giusti della nostra esistenza, e questo può valere per un ragazzino che cerca immagini di “piedini anime” su Reddit o per un sessantenne che augura il buongiorno su Facebook sotto i post dell’oroscopo. Il tempo è elastico, indefinito, e forse ogni epoca ha i suoi strumenti e le sue dinamiche per renderlo aderente alla realtà. La società che ci circonda ci costringe a tenere un passo ben più veloce rispetto al passato, in quanto è tutto ad essersi accorciato e compresso: una notizia diventa virale e dopo due giorni finisce nel dimenticatoio, un trend ha la data di scadenza di uno yogurt, le storie su Instagram scompaiono. Ci siamo semplicemente adeguati al tempo attuale. Ricordare però che certi usi che ne facciamo stanno alterando le nostre capacità cognitive in una direzione non propriamente salutare non è un rimbrotto da bacchettoni: è un dato di fatto. Forse sedersi su una poltrona e aprire un libro non cambierà le sorti del mondo e nemmeno della nostra vita, ma il 68% di stress in meno di questi tempi non si butta via.