Nel 2003, un timido studente di Harvard apre Facemash, un sito dove gli iscritti al college possono votare la ragazza più bella, copiando un altro sito dei primi anni Duemila, Hot or Not. Per questa sua invenzione il ragazzo verrà convocato dal consiglio disciplinare di Harvard con l’accusa di aver violato la privacy degli altri studenti, dato che le foto sono state prese dal sito dell’università senza il consenso degli interessati. Mark Zuckerberg non solo riesce a evitare l’espulsione, ma questa bravata si rivela la sua fortuna: Facesmash attira infatti l’attenzione di altri tre studenti che avevano già creato un sito per tenere in contatto alunni ed ex alunni del campus, Harvard Connection. Unendo le due idee – cercare amici e poter apprezzare foto di belle ragazze – fondano quello che inizialmente si chiama The Facebook, il resto è storia. Viste le premesse su cui nasce l’impero di Zuckerberg, è quindi buffo che a distanza di una quindicina d’anni Facebook e gli altri siti dell’azienda, in particolare Instagram, siano così rigidi nei confronti dell’espressione corporea di quelle stesse belle ragazze che “Zuck” e i suoi amici votavano su Facemash.
Facebook e Instagram, infatti, dal 20 dicembre hanno cambiato i propri termini di utilizzo, in particolare per quanto riguarda i cosiddetti “contenuti deplorevoli”. Secondo la nuova policy, per essere bannati dalle piattaforme si devono soddisfare due criteri. Il primo è l’offerta o richiesta di contenuti che “implicitamente o indirettamente” offrono o richiedono immagini di nudo, chat erotiche o incontri sessuali; il secondo riguarda invece i “contenuti allusivi”, tra cui le emoji “comunemente a sfondo sessuale” (ad esempio quella della melanzana o della pesca), espressioni gergali a sfondo sessuale, menzioni o illustrazioni (compresi i disegni) di atti sessuali e infine “immagini di soggetti reali con nudo coperto da parti del corpo umano, oggetti oppure ostruzioni digitali, compresi scatti completi di natiche nude”. Tuttavia il ban sembra colpire in maniera indiscriminata anche chi non offre servizi sessuali. Per protestare contro l’entrata in vigore di queste nuove regole, alcuni creator di Instagram hanno proclamato una giornata di boicottaggio del social, creando account di backup nell’eventualità che Instagram bannasse i profili più a rischio.
Anche prima che iniziasse il nuovo corso, molti account hanno lamentato di aver subito il cosiddetto shadowban oppure di aver subito un abbassamento del ranking dei post, che ne determina la scomparsa dai feed dei propri follower. Questi provvedimenti hanno colpito non solo lavoratrici o lavoratori sessuali, modelle o chi realizza opere artistiche erotiche, ma anche chi si occupa di divulgazione sui temi della sessualità e della salute riproduttiva, come ad esempio l’ostetrica Violeta Benini, il negozio milanese di sex toys Wovo, la sociologa Silvia Semenzin, l’attivista asessuale Fox, la podcaster Linda Codognesi, la blogger La camera di Valentina, l’attivista disabile Sofia Righetti – per citare account italiani. “Il cambiamento delle linee guida è fondamentale perché rende evidente il costante processo che tende a normare i soggetti all’interno della sfera digitale privata – che si presenta però come pubblica: si decide cosa è ammissibile e quando lo è”, spiega a The Vision Le Lunatichə, un’associazione di donne e soggettività non binarie che attraverso la pagina Instagram cyber_lunatiche si occupa di violenza psicologica e di genere sul web. “Ovviamente a rimetterci sono i corpi delle donne e i corpi non binari, che non possono utilizzare le piattaforme digitali come strumenti di soggettivazione del proprio corpo e della propria identità ma che devono rispondere a delle precise regole, prima fra tutte il divieto della nudità”.
Il provvedimento è particolarmente ostile nei confronti di chi fa sex work. Anche se è vietato contrattare servizi sessuali sulla piattaforma, molte lavoratrici sessuali usano Instagram per postare le proprie foto e farsi pubblicità. Esistono poi anche sex worker che non svolgono prestazioni sessuali, ma che fanno cam, pornografia o vogliono promuovere altri canali come Only Fans. Come ci ha detto l’antropologa Giulia Zollino, specializzata in queste tematiche, quello che sta accadendo sui social non è altro che lo specchio di ciò che accade nella società: “Queste nuove norme di Instagram – ma anche di altre piattaforme come Patreon – sono un effetto dello stigma”, spiega. “Quando si parla di stigma non si parla di qualcosa di astratto, ma di effetti concreti. Per chi fa sex work, Instagram è uno strumento molto utile che può generare indirettamente delle entrate, specialmente in questo periodo in cui non si può lavorare come prima. Togliendo questa possibilità si determina l’invisibilità e la marginalizzazione di chi fa lavoro sessuale: ma anche se lo si rende meno visibile, le persone restano”.
È da tempo che le policy di Facebook e di Instagram sono oggetto di polemiche. L’esempio più noto è la campagna “Free the Nipple” (Libera il capezzolo), che prende il nome da un documentario del 2014 di Lina Esco e che protesta contro la censura dei capezzoli femminili sui social, in particolare su Instagram. La campagna denuncia il fatto che soltanto i capezzoli femminili vengano bannati, anche quando vengono mostrati in contesti non erotici: in passato infatti la censura colpiva anche le immagini di donne che allattavano e persino campagne per la prevenzione del cancro al seno. Anche grazie alle pressioni di Free the Nipple, Facebook nel 2014 ha cambiato il proprio regolamento e tolto la censura sull’allattamento e sulle cicatrici da mastectomia, ma non sugli altri capezzoli. Nel 2019, l’azienda ha incontrato attivisti e artisti anticensura ma, come riporta il New York Times, “non ha mostrato segni di cedimento”.
I sistemi di moderazione dei contenuti, che si basano sia sugli algoritmi che sul controllo umano, non sono infallibili, sia perché a volte non sono in grado di riconoscere le immagini (fece scalpore il caso di un gomito scambiato per un seno femminile nel 2012) sia perché le premesse di fondo sono viziate: i capezzoli in sé non hanno genere, come mostra il progetto Genderless Nipples. La pagina Instagram raccoglie centinaia di foto ravvicinate di capezzoli in base ai quali è impossibile stabilire il genere della persona che li possiede. Sempre secondo quanto dichiarato da Instagram al New York Times, esistono dei “criteri” per la moderazione che si basano sugli “indicatori del genere di una persona”, un’idea che però si scontra con l’espressione di genere degli individui. Nel 2018, l’attivista Rain Dove – che non si riconosce né nel genere maschile né in quello femminile – ha sfidato la censura del social che continuava a rimuovere una sua fotografia a petto nudo, sostenendo si trattasse di un seno di donna. Dove ha continuato a ripostare la foto incriminata, minacciando azioni legali contro Instagram e riuscendo a mantenerne la pubblicazione.
Un altro esempio di quanto i sistemi di controllo dei contenuti su Instagram siano fallaci è il caso della modella nera e plus size Nyome Nicholas-Williams. Lo scorso agosto, Instagram aveva rimosso una fotografia in cui Nicholas-Williams era in topless e si copriva il seno con le braccia. La modella aveva protestato contro la rimozione mostrando come fotografie molto simili che vedevano però ritratte modelle bianche e magre fossero permesse sul social senza problemi. Instagram si è giustificata dicendo che l’immagine era stata censurata perché Nicholas-Williams non stava coprendo il seno, ma lo stava strizzando, gesto considerato pornografico. La modella ha quindi inviato una lettera aperta al social, chiedendo di modificare la policy in materia, che alla fine è stata cambiata per permettere di postare immagini in cui il seno viene “abbracciato, circondato con le mani o sostenuto”, mentre la “pressione di un seno femminile” resta vietata.
I principi con cui sono stati scritti standard della community di Facebook e di Instagram, a detta della stessa azienda, sono un bilanciamento tra la libertà di espressione e il rispetto di sensibilità che possono essere molto diverse tra loro. Ma l’impressione è che l’ago della bilancia penda più da una parte che dall’altra a seconda dei casi. La censura è particolarmente efficiente sui contenuti sessuali, specialmente se provengono da profili di persone non conformi, minoranze etniche e sessuali e sex worker. Invece, riuscire a far rimuovere un contenuto d’odio – ben più dannoso di un seno nudo – è un processo molto frustrante e spesso fallimentare. La moderazione di Facebook sembra decisamente più indulgente nei confronti dell’hate speech che verso la nudità femminile. Per fare un esempio, il negazionismo dell’olocausto è stato bandito da Facebook soltanto quest’anno e Zuckerberg ha dichiarato di aver “lottato con la tensione tra la difesa della libertà di espressione e il danno causato dal minimizzare o negare l’orrore dell’Olocausto”.
“Le piattaforme commerciali come Instagram e Facebook ci danno l’idea di essere degli spazi pubblici, ma in realtà non lo sono. Sono luoghi privati con dei fini commerciali”, spiega Le Lunatichə. “In particolare Instagram non è un luogo neutro e libero, ma riflette un’ideologia di controllo e commercializzazione in cui gli utenti sono chiamati a partecipare alla costruzione del proprio sé che però viene mediato dalle regole e dai modelli che impone la piattaforma stessa”. Anche se spesso se ne parla come uno strumento democratico, Facebook è innanzitutto un’azienda che ha, tra l’altro, una leadership ancora troppo poco diversificata. Le donne con ruoli decisionali infatti sono solo il 34,2% del totale (un aumento del 10% rispetto al 2014) e l’etnia più rappresentata è ancora quella bianca, con il 63,2% del totale. Se si restringe ulteriormente il campo, la situazione diventa ancora più problematica: dei diciotto dirigenti di Facebook, le donne sono solo cinque. Ovviamente non c’è garanzia che aumentando la cosiddetta diversity Facebook e i suoi prodotti si trasformino in spazi sicuri e positivi per le donne e la loro libertà, quel che è certo però è che, ci piaccia o meno, ormai i social siano una componente fondamentale delle nostre vite e il fatto che si basino unicamente su regole stabilite da pochi uomini bianchi e in posizione di privilegio sta diventando un problema sempre più urgente che richiede una soluzione.