Agli albori di Internet in pochi mettevano in dubbio la bontà della nuova tecnologia, tanto da arrivare a considerarla un universo parallelo da plasmare a proprio piacimento per creare un’utopia libertaria. Citando uno dei più entusiasti sostenitori di questa visione – l’attivista John Perry Barlow, membro fondatore della Electronic Frontier Foundation – si poteva considerare “the home of the mind”, uno spazio che superava i confini nazionali e sfidava ogni tirannia. Come si legge in A declaration of the independence of cyberspace, testo pubblicato nel 1996, Barlow era sinceramente convinto che quello digitale fosse un mondo “a cui chiunque può accedere senza alcun privilegio o pregiudizio legato alla razza, al potere economico, alla forza militare o al luogo di nascita”.
A poco più di vent’anni dalla stesura della Declaration, abbiamo visto il contratto sociale sognato da Barlow infrangersi contro il muro della realtà: il web con cui miliardi di persone si rapportano ogni giorno è molto lontano dall’utopia sognata dai pionieri digitali. Assomiglia, piuttosto, a una caotica discarica in fiamme in cui ci avventuriamo quotidianamente alla ricerca di video virali e qualche altro elemento degno della nostra attenzione.
Oltre a non abbattere i regimi autoritari, le piattaforme online negli ultimi anni hanno avuto un ruolo di primo piano nel destabilizzare la democrazia a livello globale. Un report del 2017, Is social media a threat to democracy?, riassume il meccanismo il modo in cui è accaduto. Centrale è il ruolo di algoritmi di personalizzazione sempre più intrusivi, in grado di raccogliere quantitativi esorbitanti di dati per calcolare che genere di contenuti potrebbero interessare all’utente. Queste informazioni sono la vera ricchezza delle aziende, che le usano per proporre pubblicità sempre più mirate a target specifici, inseguendo l’obiettivo del marketing one to one. Il risultato è però quello di polarizzare profondamente l’opinione pubblica, creando realtà diverse in base a ciò che si crede una persona voglia sentirsi dire, manipolando il comportamento degli utenti e rinchiudendo la cittadinanza in filter bubble dove le nostre posizioni non vengono mai messe in discussione.
L’uso massiccio dei social network ha anche contribuito a una disinformazione sempre più diffusa, con propaganda e fake news che si sono moltiplicate negli ultimi anni, spesso accompagnate a una recrudescenza dei discorsi di odio e marginalizzazione delle minoranze.
Le ripercussioni occupano le prime pagine dei giornali di tutto il Pianeta: da scandali come Cambridge Analytica alla difficoltà dei CEO nel limitare il dilagare dell’hate speech sulle varie piattaforme, la Silicon Valley attraversa una profonda crisi di identità. Se Mark Zuckerberg spera di trovare nuova ispirazione discutendo del futuro della tecnologia con personaggi come lo scrittore Yuval Noah Harari e Jack Dorsey – ideatore di Twitter – sperimenta nuove funzioni per proteggere gli utenti del suo social da molestie e bullismo online, altri attori del mondo tech stanno approfittando della crisi per ripensare radicalmente i social network come li abbiamo conosciuti fino a oggi.
L’attivista e autore dell’ormai classico The filter bubble: what the internet is hiding from you Eli Pariser ha all’attivo anni di esperienza per affrontare il tema. Dopo aver denunciato a lungo l’uso che la big tech fa dei nostri dati, si è ora unito alla professoressa del Moody College of Communication in Texas Talia Stroud per un nuovo progetto radicale: Civic Signals.
“Gli spazi non determinano soltanto il nostro modo di comportarci come individui, ma anche il modo in cui gruppi di persone interagiscono. C’è un genere di conversazione che si può avere in una piccola stanza accogliente che non è possibile in un ambiente più grande ed affollato. I vasti spazi aperti hanno un valore sociale limitato: le persone reagiscono comportandosi in modo antisociale per via del livello di rumore e il senso di sopraffazione che li colpisce”, ha spiegato Pariser in un TEDTalk del luglio 2019, per illustrare il progetto Civic Signals. L’idea è quella di cominciare a pensare alle piattaforme online come veri e propri spazi in cui le persone si rapportano l’una con l’altra seguendo gli stessi paradigmi che regolano la “vita reale” – applicando i principi dell’urbanistica a degli spazi virtuali che al momento assomigliano più al Far West che a una piazza o parco pubblico.
Basandosi sul concetto che la conformazione degli spazi definisce il modo in cui ci comportiamo – basti pensare a come abbassiamo automaticamente la voce entrando in biblioteca – Civic Signals vuole affiancare il lavoro dei programmatori che sviluppano le funzionalità dei social media con le competenze acquisite dall’urbanistica negli anni. “Per esempio, il comportamento generale della gente su LinkedIn è abbastanza civile. Perché? Perché la gente lo vede come un posto di lavoro. E quindi le persone seguono le norme sociali che regolano i posti di lavoro”, ha sottolineato Pariser.
La domanda da tenere in considerazione è “Come si svolgerebbe questa interazione se si verificasse in un luogo fisico? Cosa possiamo imparare su come strutturare il comportamento nel mondo virtuale da luoghi fisici positivi?”. Per quanto il progetto di far convivere civilmente milioni – se non miliardi – di persone online sembri utopico, Pariser è convinto che sia necessario fare uno sforzo (soprattutto da parte dei big della Silicon Valley) in questa direzione: “Le città moderne ci insegnano che è possibile avere milioni di persone molto diverse che vivono l’una accanto all’altra e non solo non si ammazzano, ma costruiscono insieme, vivono nuove esperienze, creano bellissime e importanti infrastrutture. Non possiamo abbandonare questa speranza”.
A cercare di creare un nuovo modo di convivere online è anche Jimmy Wales. Il fondatore di Wikipedia ha annunciato a inizio novembre che da una costola di WikiTribune sarebbe nato un nuovo social network con lo scopo di combattere disinformazione e clickbaiting, in favore di un’informazione di maggiore qualità. La notizia ha attirato subito l’attenzione di decine di migliaia di persone, accorse in massa per iscriversi alla nuova piattaforma Wt:Social. Basando il modello economico della nuova piattaforma, come già accade con Wikipedia, sulle donazioni degli utenti, Wales conta di creare un social media dove “le persone pagheranno nella misura in cui penseranno che Wt stia contribuendo positivamente alle loro vite”.
Visitando il sito di Wt, il focus sulla condanna del modello di raccolta dei dati personali che sta dietro alla grandissima parte delle piattaforme che usiamo quotidianamente – da Google a YouTube – non potrebbe essere più chiaro. “Non venderemo mai i vostri dati. La nostra piattaforma sopravvive grazie alla generosità degli individui per assicurare che la vostra privacy sia protetta e il vostro spazio social sia privo di pubblicità”, si legge. “Nutriremo un ambiente in cui i soggetti negativi vengono rimossi perché è la cosa giusta da fare, non soltanto perché potrebbe danneggiare la nostra immagine”.
Il padre del web – Tim Berners-Lee, una delle menti dietro al progetto globale sull’ipertesto che sarebbe diventato il World Wide Web che conosciamo oggi – ritiene però che per superare l’impasse che stanno vivendo le grandi company della Silicon Valley sia necessario fare un ulteriore passo avanti. “Le comunità vengono fatte a pezzi mentre pregiudizio, odio e disinformazione circolano online. I truffatori usano la rete per rubare identità, gli stalker la usano per molestare e intimidire le loro vittime e i cattivi attori sovvertono la democrazia usando astute tattiche digitali”, ha scritto recentemente in un op-ed sul New York Times dello scorso novembre. “La rete ha bisogno di un intervento radicale da parte di tutti coloro che hanno potere sul suo futuro: governi in grado di legiferare e regolamentare; aziende che progettano prodotti; gruppi della società civile e attivisti che tengano d’occhio il comportamento dei potenti; e ogni singolo utente Web che interagisce con gli altri online”.
Basandosi sulle stesse premesse, nel novembre 2018 è nato il Contratto per il web: un progetto che individua i passi necessari da compiere per prevenire – piuttosto che curare, come succede quando le piattaforme espellono in massa gli utenti che violano le loro policy aziendali – il cattivo uso che si fa del web e dei nostri dati. Alcune delle misure coinvolgono i governi nazionali, colpevoli di non impegnarsi abbastanza per contrastare fenomeni globali e di subire il progresso tecnologico – come è stato messo in luce nell’aprile 2018, quando Zuckerberg si è trovato a testimoniare di fronte al Congresso degli Stati Uniti sul caso Cambridge Analytica, rapportandosi con esponenti politici completamente impreparati sull’argomento. La situazione è stata confermata anche dal Segretario generale dell’Onu Antonio Guterres al recente Internet Governance Forum di Berlino: “C’è una mancanza di competenza tecnica tra i responsabili politici, anche nei Paesi più sviluppati. La tecnologia sta superando i tempi della politica. Il settore privato ha un atteggiamento basato sul fare tentativi e imparare dagli errori, muovendosi rapidamente e correggendo il tiro in un secondo momento. Nel frattempo, i politici preferiscono processi di consultazione approfonditi e sono restii a definire quadri giuridici prima di avere chiare tutte le conseguenze”.
La responsabilità delle tech company è al cuore del discorso globale sul rapporto tra democrazia e social media. “Devono smettere di guardare ai profitti del prossimo quadrimestre e rendersi conto che il metro del successo, sul lungo termine, è costruire prodotti che siano positivi per la società e ottenere la fiducia delle persone”, sostiene Berners-Lee. Con le elezioni presidenziali statunitense del 2020, il problema della polarizzazione e della disinformazione è diventato di nuovo una priorità, non solo entro i confini degli Stati Uniti. Ripensare collettivamente al modo in cui, come utenti di piattaforme globali, ci rapportiamo ai social network rimane una sfida centrale. Un primo passo è ascoltare chi – come Pariser e Berners-Lee – ha dedicato la vita a farci queste domande e a metterci in guardia dalle conseguenze dei social network lasciati senza controllo. Solo un loro uso critico e consapevole può tornare a farli essere la palestra di utopia democratica immaginata da Barlow e dagli altri pionieri della rete.