Come i social hanno sdoganato la mitomania - THE VISION

Qualche anno fa c’era una pagina Facebook chiamata Io, professione mitomane. Il manifesto era: “Salviamo il giornalismo dalla mitomania dei giornalisti e il mondo della comunicazione dalla mitomania dei comunicatori”. Venivano quotidianamente aggiunti post di note personalità attive online che facevano leva sull’autoesaltazione e su meccanismi di autoreferenzialità a tratti effettivamente comici. Tra i post presi più spesso di mira c’erano quelli di Andrea Scanzi o Lorenzo Tosa, e all’inizio faceva ridere leggere un post a caso in cui Scanzi dichiarava al mondo di essere alto un-metro-e-ottantotto e che attendeva i commenti adoranti delle sue lettrici alla pubblicazione di una foto che dava giustizia alla sua aitanza. Con il passare del tempo la rosa dei soggetti si allargò a personaggi che apparentemente poco avevano a che fare con la mitomania, e altre volte ancora le parole venivano decontestualizzate. In effetti, spulciando tra i profili di chiunque si potrebbero trovare tracce di una pseudo-mitomania – nel mio c’è un mega flex per un punteggio di Sudoku che, letto adesso, mi fa venir voglia di prendermi a schiaffi da solo. Gli stessi amministratori della pagina si accorsero di un fatto singolare: gli autori in questione venivano bersagliati nei commenti e si creava di volta in volta una sorta di caccia alle streghe, una gogna pubblica e, soprattutto, un ribaltamento dei ruoli. Furono gli utenti stessi a trasformarsi in mitomani livorosi: dispensavano con boria lezioni di giornalismo, di netiquette, spiegavano a colpi di insulti come bisognasse comportarsi dentro e fuori lo schermo. Giudicavano con aria di supponenza. Così, in seguito a questa degenerazione, gli amministratori decisero di chiudere la pagina rilasciando un comunicato molto esplicito: “Il punto non era scovare il colpevole e colpire i singoli, ma renderci conto che i mitomani siamo noi, siamo tutti, nessuno è al riparo proprio a causa degli istinti naturali su cui fanno leva i social. Ci cascano il grande scrittore come il giornalista precario di provincia. Io, professione mitomane in fondo era uno specchio”.

Trovo esilarante il processo che ha portato la famosa frase di Umberto Eco sugli effetti deleteri dei social – “I social hanno dato diritto di parola a legioni di imbecilli” – a generare paradossalmente un’assoluzione di massa. Nessuno ovviamente si identificherà in quei citrulli che compongono queste legioni, ma in realtà ciascuno di noi potrebbe farlo: io, il mio vicino di casa, tu che stai leggendo. Non trattandosi di un’identità definita, però, parte la denigrazione di un gruppo invisibile, spesso considerato come massa, che contempla la nostra autoesclusione. È imbecille l’italiano medio, il popolo, l’Altro, anzi, ancora meglio, “gli altri”, io no di certo. Poniamo anche il caso che davvero non avessimo mai comportamenti ottusi, nonostante sia statisticamente improbabile che non ci capiti, almeno qualche volta; resterebbe aperto il discorso sull’influenza che i social hanno sulla nostra vita, anche su quella delle persone mediamente intelligenti. Però Eco non ha parlato del modo in cui veniamo condizionati dai social, ma della risonanza inedita ottenuta da chi prima non l’aveva se non nelle vesti da “scemo del bar”. Di questo si è occupato un altro grande intellettuale italiano, Roberto Calasso nel suo saggio L’innominabile attuale, pubblicato nel 2017, quattro anni prima di morire. Niente più imbecilli e cervelloni, quindi, ma una democrazia di derive digitali. Per Calasso, con quella che chiama la disponibilità informatica, chiunque si è trovato a poter produrre, senza alcun vincolo, parole e immagini, virtualmente divulgabili ovunque e per un pubblico potenzialmente illimitato. Tanto è bastato per “suscitare un diffuso delirio di onnipotenza, ma non più come fenomeno clinico. Al contrario, come arricchimento della normalità. La mitomania è entrata a far parte del buon senso”.

Lo specchio riflette l’immagine di quello che Calasso definiva Homo saecularis, l’evoluzione non così tanto evoluta dell’Homo sapiens. Un essere che “si è trovato di fronte un mondo che non è in grado di trattare”. Non a caso l’incipit de L’innominabile attuale è più che esplicito: “La sensazione più precisa e più acuta, per chi vive in questo momento, è di non sapere dove ogni giorno sta mettendo i piedi”. È l’età dell’inconsistenza e contro i mali del mondo “l’ultimo rifugio è sentirsi qualcosa di speciale”. Siamo dunque in un’epoca in cui tutti credono di avere ragione – l’imbecille descritto da Eco e l’intellettuale da tastiera – attraverso la presunzione di essersi informati in maniera corretta, poiché nel 2024 ognuno ha la sua fonte ed è insindacabile. Calasso ne parla facendo l’esempio di un’enciclopedia digitale in perenne espansione che “giustappone informazioni impeccabilmente veritiere e informazioni infondate, ugualmente accessibili e sullo stesso piano”. È però un’informazione che non tende soltanto a sostituirsi alla conoscenza, ma al pensiero stesso, “sollevandolo dal peso di doversi continuamente elaborare e governare, perché il caos algoritmico conferma l’aleatorietà della conoscenza in genere”.

Il mitomane infatti ha per indole una certa diffidenza e sospetto verso ogni elemento o persona che agisca da intermediario, in quanto possibile fonte di inganno e tradimento. Con il mondo digitale è dunque arrivato alla ribalta il termine disintermediazione. “Ora basta digitare certe parole, in sequenza, e chiunque crede di agire in prima persona, senza ricorrere ai soliti fastidiosi intermediari”. È un fenomeno che ha toccato tutti gli ambiti, anche quelli politici. Calasso fa l’esempio del “vagheggiamento della democrazia diretta, che non discende ormai da una riflessione politica ma dall’infatuazione informatica”, che poi è l’arma usata da alcune forze populiste, come il Movimento Cinque Stelle in primis, per espandersi e giungere al potere.

La rete, secondo Calasso, ci ha obbligati a gravarci di un immane sapere che non abbiamo e che, per essere appunto speciali e sentirci superiori agli altri, dobbiamo trasmettere. “Siamo vicini a sapere quasi tutto ciò che non ci importa sapere”, intrappolati in una sorta di rito collettivo. “Nei social media, all’autoesposizione spontanea del singolo corrisponde una obbligatoria controparte pubblicitaria”, scrive Calasso. È come un patto non scritto tra la piattaforma che lo ospita e l’utente. “Non scritto” fino a un certo punto, considerando che le condizioni d’uso vengono effettivamente firmate, spesso senza essere lette. Accettiamo cookie, diamo la disponibilità a concedere i nostri dati e quindi a essere tracciati, e in cambio abbiamo l’accesso alla piazza dove “simuliamo noi stessi, imitandoci in modo incompleto e difettoso”. Perché l’immagine social deve essere impeccabile, anche quando non corrisponde alla verità.

La nostra bolla deve sapere che abbiamo qualcosa da dire, qualcosa di illusoriamente unico, e combattiamo ogni giorno per dimostrare di non far parte di quella sciocca legione, che è cosa altra. Eppure anche noi siamo succubi di un “turismo degli stimoli e dell’attenzione”, dello scrolling che ha portato non solo gli stolti, ma anche le persone dotate di senno a restare intrappolate nel tranello del piedistallo, ovvero la convinzione di averlo sotto i piedi per poter dar lustro a un’opinione e ammantarla di una certa solennità e credibilità, ma è solo il trionfo del solipsismo. In fondo quel che cerchiamo sui social non è nient’altro che un feedback. La gratificazione sta anche nella critica, perché avvalora comunque un nostro post, una frase, una foto, e ci fa credere di aver voce in capitolo. Su cosa non è dato sapersi, ma se lasciamo tracce della nostra presenza in un luogo, seppur virtuale, allora siamo. E se siamo in quanto connessi, allora nel 2024 la vera paura non è un commento negativo, bensì la disconnessione.

È il pensiero che ogni tanto viene a molte persone, lo sfogo estemporaneo per eccellenza: “Basta, adesso abbandono i social”. Poi, in realtà, non succede quasi mai, il proposito di disintossicazione fallisce proprio perché non siamo più abituati alla disconnessione. O, più che altro, alla consapevolezza di non avere più “l’arma” della condivisione virtuale, quella che erroneamente usiamo come se ci conferisse un particolare potere. Con più o meno intensità lo crediamo tutti, proprio per la gratificazione del feedback che ci invoglia a continuare a parlare e a dire la nostra su ogni cosa: un giorno esperti di geopolitica, quello dopo di virologia, poi di tennis. Il pensiero che tutti abbiano un piedistallo, però, equivale alla realtà in cui nessuno lo possiede. È la condizione dell’Homo saecularis: illudersi di essere il Dio di se stesso. Siamo invece clienti, e a ogni opinione espressa corrisponde una pubblicità che non sapevamo di voler vedere e un’informazione che non sentivamo il bisogno di conoscere. Ed è questa la vera, nuova frontiera dell’ottusità inconsapevole.

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