Se c’è una scelta che non rimpiango, è quella di non aver mai utilizzato Twitter. O meglio, di non averci iniziato a scrivere dopo aver trovato uno username che fosse al contempo simpatico, professionale e adatto alla possibilità di avere successo. Se all’uccellino azzurro ho sempre preferito altri social non è tanto per l’incapacità di scrivere cose intelligenti in pochi caratteri – o non solo, almeno –, quanto al fatto che fino a un certo periodo mi è sembrato il luogo in cui avere più paura. Ad assalirmi era più che altro il timore di ritrovarmi, dopo qualche anno, a essere inchiodato a frasi del passato, magari scritte di fretta, estrapolate dal loro contesto o effettivamente gran cazzate offensive, senza che mi venisse concesso il beneficio del dubbio o, almeno, il diritto di cambiare. Se penso a chi ero dieci anni fa vorrei perdere la memoria. Rifarei molte cose, altre le eviterei – a partire dalla frangetta e dagli skinny jeans –, ma in ogni caso a consolarmi ci sarebbe la consapevolezza di aver avuto la possibilità e il tempo di rivedere delle idee, conoscere nuove realtà e sensibilità, informarmi, mettermi e mettere in discussione. Tra dieci anni, vorrei fosse lo stesso. Eppure, sui social mi sembra che tutto ciò sia impossibile: vedo il rischio, concreto, di rimanere inchiodati a chi siamo stati, poco conta chi siamo diventati.
Il problema è che oggi, coi social – dove ci sembra di poter avere il controllo su tutto – ciò che non vediamo direttamente è come se non fosse mai avvenuto. La nostra percezione non è diventata solo il centro del mondo, ma l’universo tutto. Ogni cosa ci è concessa, è possibile. Twitter, soprattutto, è un luogo in cui ogni utente sembra essere parte di una grande conversazione – non divisa in forum, come su Reddit, o in specifiche nicchie creative, come Youtube o, un tempo, Instagram. C’è la sensazione che ciascuno possa parlare con chiunque, di qualsiasi cosa, in qualsiasi momento; che la voce di tutti e tutte possa avere lo stesso valore, senza gerarchie, aiutando le persone marginalizzate a non rimanere silenziate. Al suo meglio, l’esempio più lampante di questa percezione è stato il #MeToo, che pur venendo criticato per i suoi eccessi e per aver allontanato molte persone sulla base di una singola accusa priva di prove – più per scelta delle aziende e dell’urgenza di tutelare la propria immagine –, è stato rivoluzionario e ha permesso a molte donne di raccontare gli abusi subiti, denunciando chi detiene il potere. Al suo peggio, viene usata contro persone comuni o personalità pubbliche per inchiodarle a dichiarazioni, sviste o errori passati, ma che per questo non meritano la gogna pubblica oggi.
Capita spesso, infatti, che molti si ritrovino a dover dar conto di tweet, post o scelte di cinque, sette, dieci anni fa. La maggior parte dei casi sembra dipendere dallo stesso problema: non sappiamo come interpretare ciò che è scritto sui social, e questa incapacità viene ripetutamente usata come arma da persone che invece sanno farlo. C’è un termine per questo: si chiama “collasso del contesto”. La tecnologia complica la nostra percezione dello spazio e del tempo, inclusa l’idea che ogni pubblico a cui parliamo sia separato dall’altro. Potremmo comprendere con facilità che sui social l’audience che ci legge è potenzialmente illimitata, ma spesso ci comportiamo come se avesse confini ben precisi. È anche una questione pratica: quando scriviamo abbiamo bisogno di immaginare una descrizione più specifica dei destinatari di un generico “chiunque”, per scegliere la lingua, quali riferimenti culturali utilizzare, lo stile, e così via. Scriviamo per un pubblico che pensiamo di conoscere, in un modo che capiranno, usando punti di riferimento con cui hanno familiarità. Sei anni dopo, i nostri post ci vengono rinfacciati da un pubblico che non conosciamo, che riutilizza i termini che abbiamo usato in modo diverso, con punti di riferimento culturali completamente discordi. I social ci inducono a pensare di star scrivendo per una community, ma danno a tutti l’opportunità di cercare le nostre parole, proiettarle avanti nel tempo e nello spazio, verso altre comunità dove probabilmente saranno incomprese o dove creeranno – a volte per valide ragioni – più danno. Ci lasciano a spiegare barzellette che non possono essere spiegate a datori di lavoro a cui comunque le barzellette non piacciono.
Avere avuto dei momenti imbarazzanti o aver fatto delle scelte sbagliate in passato non ci rende persone “cattive”. In un mondo che se ne frega e che sembra poter solo peggiorare, alcuni – me compreso – cercano di migliorare, maturare e non essere le persone che erano, anche sui social media. Ma, in un’epoca in cui siamo incoraggiati in ogni momento a fingere di essere sempre autentici online e a mostrare chi siamo, è inevitabile lasciare traccia di chi eravamo una volta. Certo, la cosa migliore sarebbe non pubblicare parole problematiche o non fare scelte che si riveleranno sbagliate ma, spoiler, il mondo reale non funziona così. A cercare online, la soluzione migliore è una sola: cancellare tutto. Un buon PR segnalerà non solo messaggi apertamente razzisti o sessisti, ma anche cose che potrebbero essere state dette in buona fede nel momento storico in cui sono state pubblicate, ma che oggi hanno giustamente un peso o un’implicazione diversa. Per chi può permetterselo, un buon PR è come un buon vino: può servire in ogni momento e cambia la vita. Per tutti gli altri vale il mantra “se hai un dubbio, cancella”. Non si tratta di non assumersi le responsabilità di ciò che si è detto o fatto, ma di avere la possibilità di dimostrarsi migliori, di cambiare; un’occasione che oggi i social non concedono.
Non basta nemmeno dire: “Ero giovane, stupido, ho sbagliato, non sapevo”. In un contesto in cui la valuta per il successo è l’attenzione, bastano quindici minuti di popolarità per diventare il bersaglio di chi ne vorrebbe altrettanti. Siamo schiacciati e ridotti a ciò che siamo stati. Non è solo una questione di farcene assumere la responsabilità. Spesso infatti interviene una sorta di delegittimazione, soprattutto nel campo progressista – nonostante ormai il termine “cancellazione” sia diventato prerogativa della destra per trincerarsi facilmente nel ruolo di vittima –, per cui se nel 2010 non avevi letto Gramsci, non conoscevi il termine corretto da utilizzare per parlare di una tematica sociale o, colto da quella che a posteriori chiunque riconoscerebbe come una grave sindrome sconosciuta, credevi che Renzi avrebbe potuto rappresentare davvero la sinistra, fa nulla che tredici anni dopo tu abbia curato la nuova edizione dei Quaderni dal carcere, compreso il modo più corretto di parlare di alcuni argomenti o rinnegato le tue scelte politiche: non puoi essere cambiato. È l’estrema conseguenza delle dinamiche social: si elimina il confronto, si polarizzano le opinioni in un “noi contro loro” e non si dà la possibilità di capire cosa si sia sbagliato, o magari di modificare la propria idea. In psicologia, prendendo spunto dal concetto del politologo Francis Fukuyama, per cui il processo di evoluzione sociale, economica e politica dell’umanità avrebbe raggiunto il suo apice alla fine del XX secolo, un team di ricercatori ha coniato il termine “illusione della fine della storia” per indicare un bias psicologico che ci fa illudere che “la nostra storia personale sia recentemente conclusa, che siamo diventati le persone che eravamo destinati a diventare e lo resteremo per il resto della vita”. In quest’ottica, gli errori del nostro passato sarebbero anche quelli del nostro Io presente. Abbiamo cioè la tendenza a considerare noi stessi un prodotto finito, ma non lo siamo.
Sono il primo a concordare sul fatto che dovremmo ritenere le persone responsabili delle proprie azioni ma, detto questo, la cultura diffusa sui social media e Internet in generale hanno reso le nostre storie online facilmente accessibili in modo che le persone possano vedere chi eravamo anni fa, distorcendo chi siamo oggi. È il problema della gogna mediatica: spesso ci si nasconde dietro l’obiettivo del cambiamento sociale senza permettere davvero alle persone di abbracciarlo. Dovremmo invece incoraggiare un contesto in cui lasciamo che gli altri imparino dai loro sbagli, dando loro la possibilità di crescere. Anche perché chi non ha commesso errori in passato si potrebbe contare sulle dita di una mano e, probabilmente, sarebbe comunque qualcuno che ancora non esiste.