Il lockdown prima e le restrizioni che lo hanno seguito poi ci hanno portato a modificare radicalmente alcuni aspetti della nostra vita, in particolare il modo in cui lavoriamo. Per forza di cose, molte realtà si sono viste costrette a ricorrere a sistemi di chat di gruppo per lavorare in team da remoto. Questo, però, ha fatto emergere in modo chiaro quanto l’impossibilità di cogliere il linguaggio non verbale, la mimica, la variazione di tono e inclinazione della voce e, in una parola, la mancanza di presenza, in molte occasioni possano aumentare i fraintendimenti e le tensioni. È come se a parlare, a comunicare, a mettersi in relazione fossero sempre di più solo le nostre menti scorporate, tutte connesse in un grande network virtuale, come in una sorta di rete neurale estrapolata da una storia di Philip Dick, il famoso scrittore di fantascienza a cui anche Emmanuel Carrère ha dedicato un libro.
Proprio Philip Dick, in un racconto intitolato Non-O (in originale “Null-O”, Zero-O) parla di un ragazzo, Lemuel, che si comporta in maniera strana. Lemuel ha infatti giusto un paio di abitudini insolite: rompere oggetti e smembrare i cadaveri. A causa di questi comportamenti – che farebbero preoccupare qualsiasi genitore, anche in una distopia fantascientifica – il padre lo porta alla “Clinica”, dove gli viene diagnosticata la paranoia, ovvero la totale logicità della mente e la completa assenza di emozioni. Sono sicura che molti di noi almeno una volta hanno desiderato di non provare emozioni nella maniera più totale, per smettere magari di soffrire, per ottenere risultati migliori o anche solo per riuscire a gestire una conversazione difficile. Ancora oggi, infatti, nella nostra cultura c’è la credenza radicata che la mente sia in qualche modo superiore al corpo, la ragione al sentimento. Il problema è che questo è un bias culturale e non è neppure del tutto vero, anzi. In realtà, le nostre menti nella maggior parte dei casi non sono logiche, ma profondamente influenzate da pregiudizi ed emozioni, in una parola, a differenza di quanto ci hanno convinti negli ultimi secoli svariate teorie filosofiche e religiose, le neuroscienze stanno in realtà validando convinzioni molto più antiche, legate a visioni e pratiche orientali, secondo cui anche la mente è corpo, cioè un fenomeno biologico.
La mente è un flusso di esperienza che emerge dall’interazione continua tra il nostro corpo e il mondo che ci circonda. Nella maggior parte dei casi si manifesta in forma linguistica e infatti la maggior parte delle persone pensa, si identifica, analizza e ricorda in forma narrativa. Eppure questo non è l’unico modo di essere coscienti, ci sono ad esempio diverse pratiche di meditazione che insegnano proprio a far emergere altre forme di mente, libere dal linguaggio. La parola, infatti – come fa sostenere anche Julio Cortázar a Horacio Oliveira, il protagonista di Rayuela – non è neutra e soprattutto – i dati sull’analfabetismo funzionale ce ne danno la prova – non tutti hanno, o hanno sempre, una capacità abbastanza raffinata e consapevole di utilizzarla e controllarla. La parola non è indipendente dalla mente, anzi, la influenza profondamente. Allo stesso modo la mente non è indipendente dal corpo, ne è anzi una manifestazione. E dal fraintendimento di questi due punti nascono alcuni mostri della comunicazione virtuale.
Lo psicologo, psicoterapeuta e docente di Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni all’Università degli studi di Ancona, Giuseppe Lavenia, sottolinea che le tecnologie digitali e gli strumenti che utilizziamo per comunicare con i nostri responsabili, i nostri sottoposti e in generale i nostri colleghi “permettono di trasferire emozioni, ma non di creare sentimenti. Ed è il sentimento la radice della spinta motivazionale, da cui poi trae origine anche l’empatia, la capacità di mettersi nei panni dell’altro. Le persone, per essere motivate hanno bisogno di stare fisicamente le une vicino alle altre, di potersi mettere nei panni degli altri, di sviluppare comportamenti empatici e solidali. E tutto questo, con la modalità di lavoro in smart working, viene meno”. Quindi è molto più facile che ci si relazioni ai colleghi in maniera sgarbata e si verifichino episodi di mobbing anche a distanza. Un altro problema che può insorgere a causa dello smart working prolungato è causato proprio da un utilizzo non equilibrato delle tecnologie. Chat su vari canali di messaggistica istantanea, social, mail, video conference e call “ci proiettano in una dimensione priva di indicatori di tempo. […] siamo come sospesi, col rischio di restare connessi oltre il normale orario di lavoro, senza un limite imposto né dall’ufficio né dalla socialità dell’ambiente, ovvero dall’osservare i colleghi attorno. Non ci sono pause imposte, non c’è nulla. E questo comportamento può ripercuotersi negativamente sulle dinamiche familiari e relazionali, per le quali non c’è più spazio, gettandoci in un isolamento esasperato”. Il rischio in questo caso è quello del burnout: un esaurimento che deriva da una condizione prolungata di stress psicofisico ed emotivo.
Nello spazio virtuale, non avendo altro a cui aggrapparci per decodificare i messaggi e gli stimoli, ci restano solo le parole scritte degli altri, che però finiamo per leggere e ricevere inevitabilmente con la lente dei nostri bias e spesso nel modo peggiore possibile – dettato dalle nostre paure e insicurezze – e quindi reagiamo con più aggressività. A questo si sovrappongono altre due cause: l’allentamento dei freni inibitori dato dalla distanza creata dal medium stesso; e lo stress generato dalla sollecitazione continua delle notifiche, non solo quindi generato dal dover portare a termine dei compiti in un determinato lasso di tempo – come succederebbe nel normale lavoro d’ufficio – ma anche il costante dover leggere e rispondere, essere richiamati, reagire, è un meccanismo incalzante che ci fa produrre sempre più adrenalina, come se appunto ci trovassimo in una condizione di sollecitazione perenne e sempre più rapida. Uno dei principali problemi del lavoro in chat, infatti, è la sincronicità, che fa sì che gli argomenti e le argomentazioni si sovrappongano creando confusione, rischiando di perdere dettagli anche importanti in un gorgo di informazioni. Inoltre, questa continua compresenza di tutti gli elementi del gruppo, anche se magari su diversi canali, genera un senso di oppressione, come se fossimo sempre osservati, reperibili e giudicati. Così, paradossalmente, da casa si finisce spesso a lavorare molto di più, senza concedersi nemmeno quelle pause fisiologiche che sul luogo di lavoro sono normali e accettate, come se anche alzarsi dal tavolo per farsi un caffè generasse senso di colpa. Siamo quindi per certi aspetti meno controllati, ma ci controlliamo molto di più. Dunque se è vero che lo smart working può offrire tutta una serie di vantaggi, allo stesso tempo però, se degenera o se viene protratto per lunghi periodi può anche portare a una condizione di profondo malessere.
Qui si va ad aggiungere la posizione – spesso fissa, rigida e contratta – che assumiamo al computer per tante ore e la maschera respiratoria che ne consegue, che ci porta ad apnee prolungate e quindi a un’ulteriore condizione di stress. L’ansia, l’insofferenza e il fastidio che proviamo da quando abbiamo trasferito anche gli ultimi baluardi della nostra esperienza fisica alla rete, allora potrebbero essere visti come allarmi del nostro corpo abbandonato, soggiogato da una mente che si crede invincibile ma non è altro che lo specchio di qualcos’altro.
Questi fattori non sono esposti in ordine di importanza, ma agiscono tutti contemporaneamente e se non vengono disinnescati con alcuni accorgimenti ci portano a essere qualcosa che non eravamo e di cui nemmeno ci rendiamo subito conto. La nostra mente, una volta abbandonato il corpo, appare più fragile e insicura e non preparata a far fronte a una virtualità che, dall’avvento del Covid-19, si è presa ancora più spazio all’interno della nostra giornata, andando a colonizzare anche quel minimo contatto che in molti coltivavano attraverso l’attività fisica, gli spostamenti, le attività manuali, le riunioni, gli incontri e tutto ciò che prevedeva la coincidenza di corpo e mente.
È vero che le emozioni – strettamente legate alla nostra fisiologia – possono rappresentare un limite e infatti è da sempre che l’uomo, attraverso varie tecniche, cerca di controllarle, se non di sbarazzarsene in toto; eppure rivestono anche un ruolo importante nei processi di ragionamento, giudizio e decisione e sono uno degli strumenti più utili ed efficaci che abbiamo a disposizione per sopravvivere, adattarci e cambiare, se solo impariamo a osservarle e a sfruttarle. Nel racconto di Dick gli Zero-O, coloro che sono immuni alle emozioni e hanno una mente scevra da condizionamenti, vogliono in realtà distruggere la Terra, perché sostengono che la perfezione dell’universo si raggiunga con la distribuzione omogenea dell’energia, l’equilibrio insomma. L’equilibrio statico è però mancanza di vita. Tutto il nostro sistema si fonda sull’energia potenziale, sull’entropia, sul cambiamento – e questo vale in tutti gli ambiti della conoscenza umana. Fuori da ciò un tempo c’erano le stelle fisse, Dio, il Paradiso dantesco o l’illuminazione del Buddha, che infatti riduceva anche cuore e battito cardiaco fino alla stasi. Il mondo però, a prescindere dal grado di consapevolezza degli organismi che lo popolano, continua nel suo meccanismo di opposizione delle forze e delle energie, nel suo dualismo. Il problema è quando questo movimento si sposta in un range sempre più violento che finisce per esplodere o implodere, in entrambi i casi portando a un azzeramento e quindi a una perdita, sulle varie scale possibili della materia che è presente nel cosmo. Per quanto riguarda gli esseri umani a livello collettivo si arriva alle guerre, a livello individuale a disturbi mentali e malattie autoimmuni.
È evidente quanto la mancanza del cosiddetto “contatto umano”, della nostra fisicità, sia fonte di una quantità di problemi collettivi e singolari. Anche se alcuni si illudono di poter essere solo mente, e che per certi aspetti sia meglio così, nell’interazione è indispensabile il corpo, proprio perché veicola un’enorme quantità di segnali e informazioni che a livello più o meno inconscio siamo in grado di percepire ed elaborare. Anche solo questa consapevolezza può farci migliorare molto la nostra vita in questo periodo, dato che ci fa comprendere quanto sia fondamentale potersi guardare negli occhi, avere l’occasione di spiegarsi e avvicinarsi, invece di percepire qualsiasi evento come un attacco alla nostra identità scorporizzata.
Il problema allora non sta tanto nello smart working, ma come sempre nella nostra capacità di adattarci in maniera positiva e consapevole alla realtà in cui viviamo, che si è andata a creare negli ultimi anni ed è stata accelerata dalla pandemia. Le piattaforme di gestione del lavoro online forse tireranno fuori il peggio di noi, così come i social (Facebook in particolare), ma ciò succede anche perché siamo impreparati a usarle. Su queste piattaforme cerchiamo insistentemente di apparire migliori di ciò che siamo, e loro, stolide, attraverso ciò che emerge dalla nostra stessa relazione con gli altri – e nonostante i nostri fragili tentativi – ci rimandano indietro un’immagine pessima, che purtroppo corrisponde alla realtà. Ci fanno diventare egocentrici, stizzosi, nevrotici, noiosi, insicuri, invidiosi. Eppure, se è vero che l’ambiente ci influenza profondamente, non si può però nemmeno continuare a dare sempre la colpa alle circostanze. Forse appariamo egocentrici, stizzosi, nevrotici, noiosi, insicuri e invidiosi perché in fondo lo siamo. O meglio, siamo anche questo, così come siamo allo stesso tempo individui liberi, in grado di cambiare e magari di migliorare. Forse, allora, dovremmo sfruttare questi specchi virtuali che ci rimandano l’immagine feroce e accurata dei dati, per rivedere nel profondo ciò che siamo e ciò che minuto dopo minuto ci porta ad agire per come agiamo. Perché le nostre azioni non sono definite da quello che siamo, ciò che siamo è definito dalle nostre azioni.