Parafrasando Fedor Dostoevskij, se il grado di civilizzazione di una società si misura dal suo sistema sanitario e dalle attenzioni che gli vengono rivolte, allora l’Italia deve seriamente cominciare a preoccuparsi. Al momento quello italiano è il quarto tra i migliori 56 modelli di sanità pubblica al mondo, sia per il rapporto tra costi e aspettativa di vita sia per la qualità di alcuni centri ospedalieri. Allo stesso tempo, però, i segnali che emergono nel complesso del Servizio sanitario nazionale (SSN) sono quelli di una situazione insostenibile dal punto di vista economico e finanziario.
Vittima di tagli generalizzati in tempi di austerity seguiti alla crisi economica del 2008, la nostra sanità pubblica è stata penalizzata dalla gestione di uno Stato che rivede budget e strategie di investimento a ogni cambio di governo. La spesa sanitaria pro capite in Italia, secondo la Commissione europea, nel 2017 era del 15% inferiore rispetto alla media dell’Ue, mentre nel 2018, in rapporto al Pil, il nostro dato si attesta al 6,5 contro la media dei Paesi Ocse del 6,6%. La classifica ci vede lontani dai modelli più virtuosi di Germania e Francia, che superano il 9% del Pil, e dal Regno Unito, che arriva al 7,5%. In Europa ci piazziamo davanti soltanto alla Grecia (4,7%) e alla Spagna (6,2%).
Il fabbisogno dell’intera macchina sanitaria nel 2019 è confermato a 114,435 miliardi di euro per il 2019, uno in più di quello stimato per l’anno precedente. Nella legge di bilancio, invece, non c’è traccia di risorse aggiuntive rispetto a quelle già stanziate dal governo precedente. La politica dei tagli e dei bilanci risicati, portata avanti da tutti i governi dagli anni Novanta in poi, non è compatibile con gli standard assistenziali fissati dal sistema, ma soprattutto è lo specchio di una filosofia di fondo nella quale il futuro del servizio pubblico sembra cedere il suo ruolo alla sanità privata.
Le voci di spesa in costante crescita della spesa sanitaria causano un effetto domino che coinvolge ogni corpo intermedio della struttura sanitaria. In corsia mancano medici: mentre diverse migliaia stanno andando in pensione, la catena di formazione non riesce a sostituirli con giovani leve. Secondo le proiezioni dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane (calcolate sui dati del Miur e del ministero della Salute) dei 56mila medici che il Servizio Sanitario Nazionale perderà nei prossimi 15 anni sarà sostituito solo il 75%, cioè 42mila. Questo deficit ha già portato all’impiego in Molise di medici militari negli ospedali civili, di neolaureati nei pronto soccorso della Toscana e alla contrattualizzazione di medici in pensione in diverse strutture di tutto il Paese. Tra il 2013 e il 2016 in Italia i medici ospedalieri sono passati da 106mila a 102mila. Intanto nel 2018 sono stati 19,6 milioni gli italiani che si sono rivolti alla sanità pubblica per almeno una prestazione sanitaria, ma sono stati costretti a ripiegare sul settore privato a causa dei tempi di attesa.
La professione medica paga anche alcuni ostacoli burocratici durante la formazione post universitaria. La mancanza di medici specializzati è dovuta in parte al fatto che per esercitare, i neolaureati devono essere in possesso di una specializzazione ottenuta con obbligo di frequenza negli ospedali universitari, che al momento contano 8mila borse di specializzazione disponibili. Ogni anno, però, si laureano quasi 10mila nuovi dottori in medicina. Il risultato, secondo la Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri, è che che ogni anno 1500 medici lasciano il Paese per specializzarsi all’estero. Dal punto di vista economico, ogni anno 225 milioni di euro di formazione spesi dall’Italia vengono sfruttati e valorizzati all’estero.
Oltre alla carenza di organico, secondo l’ultimo rapporto Gimbe il nostro sistema sanitario ha bruciato nel 2017 il 19% della spesa pubblica annuale per sostenere test non necessari o cure che potrebbero essere somministrate con meno risorse. Sommando anche frodi, inefficienze amministrative e prestazioni sanitarie non adeguate, questa percentuale si traduce in quasi 21,6 miliardi di euro l’anno persi.
In un contesto che ha subito tagli negli ultimi 10 anni per 37 miliardi di euro, la fuga dei medici verso realtà private è una necessità che oltre alla realizzazione professionale tiene anche conto della loro incolumità fisica e mentale. Il rischio di essere trascinati in tribunale o di essere vittime di violenze verbali e fisiche è ormai quotidiano: dal tentativo di strangolamento fino a stupri o spedizioni punitive dei parenti dei pazienti, il 66% dei medici (quasi 7 su 10) dichiara di aver subito un’aggressione mentre esercitava il suo lavoro. La statistica del sindacato Anaao Assomed restituisce un quadro grave in tutto il Paese, con picchi che arrivano al 72% per gli operatori sanitari al Sud, oltre all’80,2% di chi lavora nei pronto soccorso e sulle ambulanze.
Un’altra debolezza della sanità pubblica italiana emerge anche dai dati 2018 dell’Osservatorio Innovazione in Sanità Digitale del Politecnico di Milano, secondo cui l’Italia investe nel campo solo 22 euro pro-capite contro i 60 delle Gran Bretagna e i 40 della Francia. La crescente consapevolezza che le soluzioni digitali possano giocare un ruolo importante nel supportare la transizione verso nuovi modelli di cura, non si traduce in un investimento adeguato di risorse. Il risultato sono i 128 giorni medi di attesa per una visita endocrinologica, 114 per una diabetologica, 65 per una oncologica, 97 per una mammografia, 75 per la colonscopia.
Nonostante le difficoltà economiche e strutturali che attraversa la sanità pubblica italiana riesce ancora a garantire una speranza di vita media alla nascita che è arrivata a 83 anni, più alta della media Ue di circa 2 anni. Mentre il divario nella speranza di vita a 30 anni in base al livello di istruzione, tra chi ha un titolo universitario e i non diplomati, è di 2,9 anni per le donne e 4,5 per gli uomini, contro una media Ue di 4,1 e 7,6 anni. La combinazione di bassa spesa e buoni risultati di salute dovrebbe far riflettere sull’alto livello complessivo del nostro Ssn, ma anche spingere le istituzioni a riflettere sulla necessità di un piano di lungo periodo che riguardi la sanità, prima di compromettere un sistema sempre più fragile.
La soluzione è un pacchetto di interventi che punti prima di tutto a risolvere prima di tutto l’imbuto formativo post laurea, aumentando i posti per il corso di Medicina Generale e per le specializzazioni e contrattualizzando gli specializzandi dell’ultimo anno, per evitare la fuga all’estero di migliaia di futuri medici. Una maggiore attenzione al capitale umano delle nostre strutture sanitarie e la sua valorizzazione sono punti fondamentali per preservare il sistema di welfare che ci tutela da più di 70 anni. In un Paese con la seconda popolazione più longeva del Pianeta capire il suo valore è essenziale per mantenere in salute non solo i suoi cittadini, ma la tenuta stessa del nostro tessuto sociale e democratico.